Gombro-2

di Andrea Caterini

La logica esterna e la logica interna.

I sotterfugi della logica.

Le false piste intellettuali: analogie, opposizioni,

simmetrie… All’improvviso, il crescente ritmo

ditirambico della Realtà che selvaggiamente si crea.

Sua decomposizione. Catastrofe. Vergogna.

[…] Improvvisa irruzione dell’assurdità logica.

 Witold Gombrowicz, Diario [1966]

Si parta dalla fine. Gombrowicz risiede a Vence, in Francia, dopo ventiquattro anni passati in esilio volontario in Argentina («Ero partito per l’Argentina per puro caso, solo per due settimane: se, in quelle due settimane, il capriccio del fato non avesse fatto scoppiare la guerra, sarei tornato in Polonia» [Diario, 1964]; eppure, quando gli danno la possibilità di prendere una nave che lo riporterà in Europa, anche se non proprio in Polonia, sceglie di restare in Argentina). È il 1969, soffre di insufficienza respiratoria, è sopravvissuto già a un infarto; la depressione per la sua condizione di allettato lo sta spingendo al suicidio – racconta, in Testamento, che appena rimise piede in Europa, nel 1963, capì che la sua vita era finita (anche se lì concluderà il suo ultimo romanzo, Cosmo, col quale vinse il Prix International de Littérature). Eppure, qualcosa interrompe quella volontà di farla finita: l’amico Dominique de Roux gli propone di tenere, per lui e per sua moglie Rita (sua di Gombrowicz), delle lezioni di filosofia. Trova così una possibilità, l’ennesima, di allontanare la morte; e lo fa nel modo che gli era proprio, ossia, cercando un ordine – una logica – al caos, che poi significava continuare a interrogare il mondo e se stessi: mantenere viva, dilatandone la visione, la tensione tra sé e il mondo. Corso di filosofia in sei ore e un quarto diviene così un atto di resistenza, commovente perché sappiamo essere l’ultimo, quello definitivo. Le lezioni si tenevano nella sua stanza, lui dettava ai due allievi, che trascrivevano le sue parole, sdraiato su un fianco nel proprio letto – la testa poggiata sul palmo della mano. «Non si tratta di chiedersi se bisogna o non bisogna fare della filosofia. Facciamo della filosofia, perché non è possibile sottrarsi. È fatale». scrive al termine della prima lezione. Occorre mantenere l’attenzione sull’affermazione «è fatale», poiché dice molto più di quanto possa lasciare intendere.

Eppure, in Testamento (la conversazione con Dominique de Roux nella quale decise di tirare le somme dell’intera sua opera), ancora sentivamo quel suo tono tipicamente provocatorio e umoristico (lo stesso che avevamo imparato a conoscere, oltre che nei suoi romanzi, nelle pagine del Diario, che tenne dal ’53 fino alla sua morte), dichiarare che non era un filosofo ma un artista e che i suoi libri non erano delle tesi ma appunto opere d’arte. Questo concetto è ribadito pure in un giudizio di Milan Kundera, in un articolo apparso nel 1994 su «L’Atelier du Roman» (ora contenuto nel numero della rivista «Riga» interamente dedicato a Gombrowicz), il quale scrive: «I temi “filosofici” sono completamente depurati non solo del linguaggio filosofico ma anche di serietà. I temi che in Gombrowicz appaiono filosofici, non sono filosofici, ma romanzeschi; l’orientamento esistenziale non è per Gombrowicz la proiezione di una filosofia nel romanzo, ma emerge dall’arte stessa del romanzo […]». Ma non va dimenticato che è lo stesso Gombrowicz il primo a creare una continua speculazione sui propri libri, introducendoli o continuando a discuterli, sviscerandone la filosofia, proprio nel suo Diario. Ma qui, e non è passato molto tempo da Testamento, parla della filosofia come di qualcosa dalla quale non è possibile sottrarsi, qualcosa di fatale. Ma cosa significa esattamente che la filosofia è, per l’uomo, qualcosa di fatale?

Certo Gombrowicz della filosofia non aveva mai accettato la posa e l’astrazione (rimproverava a Sartre, del cui pensiero esistenzialista si sentiva in qualche modo un precursore, di essersi allontanato dall’uomo come fatto concreto, come soggetto vivente) – così come aveva dissacrato tutte le pose dei letterati, ovvero la volontà di essere poeti e scrittori, i quali erano sottomessi, cioè erano condizionati da una volontà culturale, quindi da un’ideologia, e da una forma, più che mossi da una reale necessità espressiva (in uno scambio di lettere con Bruno Schulz pubblicate sul mensile «Studio» nel 1936 [ora contenute nel numero di «Riga» già citato], Gombrowicz scrive: «Avrei voluto confrontare Goethe stesso con sua zia, col suo polpaccio – avrei voluto, grazie al polpaccio, distruggere la vostra faccia da scrittore!»). Se non accettava di associare alla sua opera la filosofia era solo per non rischiare che i suoi libri fossero interpretati come la concettualizzazione di una tesi e non invece per quello che realmente erano: il risultato espressivo di un radicamento alla vita che faceva scaturire inevitabilmente un pensiero filosofico sulla realtà. Se di filosofia si può ed è necessario parlare nell’opera di Gombrowicz, questo succede perché la stessa filosofia nasce da un fatto naturale, nel senso di insito alla natura umana, cioè qualcosa da cui è impossibile prescindere, di «fatale», ancora. Eppure, ammettere che la filosofia per l’uomo «è fatale» significa radicarla a un paradosso. Voglio dire che in Gombrowicz lo strumento primo di conoscenza di se stessi e della realtà è strettamente connesso al fato (da qui «fatale»); un fato però che mai si sottrae alla logica, anzi, si materializza proprio a partire dalla logica.

Witold Gombrowicz e Dominique de Roux

Witold Gombrowicz e Dominique de Roux

Leggendo i suoi romanzi, Ferdydurke (1937), Trans-Atlantico (1957), Pornografia (1960), Cosmo (1965), ci si accorge che per Gombrowicz la realtà è una moltiplicazione di fenomeni da decifrare. Eppure è allo stesso tempo consapevole (mai dimentico della lezione kantiana) che i fenomeni altro non sono che il nostro percepirli come tali. Cioè, i fenomeni sono già un giudizio sulla realtà, più che la realtà in se stessa. Gombrowicz è intrappolato in questo paradosso filosofico: nel momento in cui la realtà sembra manifestarsi – quando sembra di coglierne la logica – ci si accorge che quella manifestazione era soltanto il nostro giudizio su di essa. La realtà, in sostanza, è per Gombrowicz il paradosso in quanto tale – la nostra resa a una contraddizione primordiale, a una dialettica tra fenomeno e percezione fenomenica, tra ciò che accade naturalmente e ciò che il nostro giudizio fa in modo di far accadere artificiosamente. «Sapete voi cosa vuol dire ostinarsi a difendere la propria realtà, così com’è, senza dare ascolto alle proteste della ragione? Conoscete la follia del godersi l’assurdo?», scrive in una pagina del Diario del 1953.

Che senso avrebbe scrivere di qualcosa che non ci pone difficoltà alcuna, che non ci fa vivere alcun contrasto, tensione e contraddizione, dentro noi, da risolvere; scrivere di qualcosa alla quale aderiamo, per così dire, comodamente – come una consolatoria conferma –, che non ci ponga in dubbio, che non metta a rischio ogni idea su noi stessi, che non ci costringa a ripensarci, che non ci spinga in quel baratro in cui anche l’intelligenza è demolita, perdendo finalmente il suo dominio, lasciandoci in definitiva disarmati, incapaci persino di scrivere fin tanto che non sia proprio quel disarmo a esprimersi, quella forma di nudità raggiunta? (Lo scrittore Bruno Schulz, amico di Gombrowicz negli anni della giovinezza trascorsi in Polonia, scrive in un saggio entusiasta che dedica a Ferdydurke, lo si può leggere ora nel numero della rivista «Riga» menzionato: «Si può dire con Gombrowicz che tutta la cultura umana sia un sistema di forme nelle quali l’uomo vede se stesso e in cui essa si rivela all’uomo. L’uomo non sopporta la propria nudità, non viene in contatto né con se stesso né con i suoi simili se non per mezzo di forme, stilemi e maschere.»). Cosa cerca Gombrowicz comprendendo e accogliendo quel paradosso nel quale si sente disarmato se non il modo per afferrare la vita – il luogo in cui la realtà principia?

CosmoSi prenda Cosmo, il più mentale e il più metafisico dei suoi romanzi. Come sempre Gombrowicz fa iniziare il romanzo con un pretesto, l’incontro con qualcuno. Gli incontri all’inizio di ogni suo romanzo potrebbero apparire una cosa da niente se non si ripetessero. Per Gombrowicz però, quegli incontri iniziali (in Cosmo incontra casualmente Fuks per strada; in Pornografia Federico in un caffè, fino a fare con lui un viaggio dove entrambi si sveleranno l’uno all’altro; in Trans-Atlantico Gonzalo, che incastra il narratore nel suo tranello solo per farsi aiutare a portare nella sua lussuosa dimora un adolescente, Ignacy, del quale è innamorato; in Ferdydurke il trentenne Gingio viene assurdamente riportato a scuola da Pimko) sono la possibilità che si inneschi fin da subito una dialettica in grado di trascinare gradualmente la storia – ma sarebbe meglio chiamarlo l’ingranaggio, visto che la storia è in verità un susseguirsi di stati mentali (l’infittirsi di una logica) che generano interrogativi sempre più stringenti – verso quel paradosso che si diceva, come nel tentativo di afferrarne il nucleo. E, si direbbe, l’altro che si incontra è sempre un Gombrowicz speculare, non tanto un suo doppio o la sua coscienza, ma colui che spinge il primo Gombrowicz, quello che narra, in territori, dentro se stesso, che un uomo per proprio conto non sarebbe in grado di svelare né di tollerare – come fosse una coscienza altra, fuori dalla propria soggettività ma che alla soggettività, inevitabilmente e inesorabilmente, fa tornare, ma con una nuova percezione di sé.

Fuks in Cosmo è necessario al personaggio di Witold affinché quest’ultimo possa riconoscere e moltiplicare i fenomeni che lo faranno precipitare dentro quel mistero, quella fatalità, che è il motivo stesso per cui il libro è cominciato. È così che, all’inizio del romanzo, incontrano il primo fenomeno mentre si dirigono verso la pensione nella quale risiederanno per qualche tempo – l’impiccagione di un uccello, di un passero. Un primo fenomeno che via via, attraverso quel gioco dialettico tra Witold e Fuks, ne metterà in evidenza degli altri, veri o fittizi: la crepa sul muro a forma di freccia, una freccia che indica una direzione, la bocca distorta di Katasia, la quale evidenzia, per contrasto, le belle labbra di Lena; poi l’impiccagione del gatto, causata da Witold stesso, e infine un’impiccagione umana. Su quest’ultima impiccagione si condensano tutti i fenomeni nel momento in cui Witold ficcherà nella bocca del suicida un dito. Quel gesto estremo e scandaloso è per Gombrowicz una manifestazione di vita. Ma è un atto sessuale primordiale poiché stringe in connessione vita e morte. Se attraverso il dito, di simbologia fallica, così come si rifaceva alla stessa simbologia il primo fenomeno (quindi il primo giudizio/indizio di realtà), Witold può penetrare Lena (la bocca, più che la donna, che desidera), è vero pure che ciò che si penetra è qualcosa di morto. Cioè, per conquistare la vita è costretto ad attraversare la morte. Quell’uccello morto, quel primo fenomeno, era il cazzo stesso di Witold, il dito che entrerà nella bocca dell’impiccato. Allora capiamo che quei fenomeni ad altro non servivano se non a far comprendere a Witold la propria stessa morte; una morte che, una volta compresa, cerca di tornare a essere vita con l’unico atto davvero possibile e fecondo: il sesso.

Opere citate

– Witold Gombrowicz, Pornografia, Milano, Bompiani, 1962.

– Witold Gombrowicz, Cosmo, Milano, Feltrinelli, 1966.

Witold Gombrowicz, Diario 1953-1956, Milano, Feltrinelli, 1970

– «Riga», n. 7, Witold Gombrowic, a cura di Francesco M. Cataluccio, Milano, Marcos y Marcos, 1994.

Witold Gombrowicz, Testamento, Introduzione di Francesco M. Cataluccio, Milano, Feltrinelli, 2004.

Witold Gombrowicz, Trans-Atlantico, Milano, Feltrinelli, 2005.

Witold Gombrowicz, Diario. Volume II (1959-1969), Introduzione e cura di Francesco M. Cataluccio, Milano, Feltrinelli, 2008.

Witold Gombrowicz, Ferdydurke, Introduzione e cura di Francesco M. Cataluccio, Milano, Feltrinelli, 2009.

Witold Gombrowicz, Corso di filosofia in sei ore e un quarto, con uno scritto di Francesco M. Cataluccio, Milano, SE, 2011.


Andrea Caterini (Roma, 1981), scrittore e critico letterario. Ha pubblicato due romanzi, Il nuovo giorno (Hacca, 2008) e La guardia (Italic Pequod, 2010) e due libri di critica letteraria, Il principe è morto cantando (Gaffi, 2011) e Patna. Letture dalla nave del dubbio (Gaffi, 2013). Ha curato opere di autori italiani come Enzo Siciliano e Franco Cordelli. Cura l’area critica del semestrale di letteratura «Achab» e collabora ad «Alias-il manifesto». È in uscita a novembre per l’editore Fazi il suo nuovo romanzo, Giordano. Lavora come responsabile della narrativa e ufficio stampa dell’editore Gaffi di Roma.