Visit Palestine

di Francesco Casati[1]

All’Istituto Francese “Chateubriand” di Gerusalemme si è tenuta recentemente una conferenza sul ruolo dei media nella recente guerra che ha visto opporsi Israele ad Hamas nella Striscia di Gaza.

Numerosi sono stati gli argomenti di discussione, ma uno in particolare ha colto il mio interesse: il senso di colpevolezza esposto da Gideon Levy, uno dei relatori intervenuti, in relazione al proprio “essere” israeliano con riferimento al trattamento riservato al popolo palestinese.

Gideon Levy è uno dei più importanti redattori del quotidiano israeliano Haaretz, e possiamo parlare di lui come di un “patriota israeliano”, definizione che lui stesso si è dato in un’intervista apparsa sul Jewish Chronicle Interview il 5 ottobre 2010.

Levy ha servito nell’IDF – l’esercito israeliano – come corrispondente di guerra, e dal ’78 all’82 ha persino collaborato a stretto contatto con Shimon Peres, storico primo ministro dall‘84 all’86 e Presidente dello Stato israeliano dal 2007 al 2014.

Nonostante non sia in discussione l’“israelianità” di Gideon Levy, quest’ultimo  si sente colpevole, responsabile e con un appiccicoso senso di vergogna per il solo fatto di essere israeliano.

Tale circostanza  mi costringe a una riflessione.

Su quale sia l’origine del senso di colpa di Gideon Levy, su quale sia stato il senso dell’ultimo scontro con Hamas, su quale disegno politico sia il cardine di una tale scelta, e – in ultimo – su quale conseguenza ha avuto nell’immediato, e potrà avere nel prossimo futuro, la dimostrazione di forza data da Israele a Gaza.

Facciamo un passo indietro.

Israele si sente in pericolo, ogni volta che si verifica un battito di ali dall’altra parte del confine, Israele teme per la propria esistenza, e il discorso sulla sicurezza è il primo e sempre centrale tema che gira sulla bocca dei politici locali.

Israele, in definitiva, sente di doversi difendere sempre e comunque da chiunque. Non interessa in realtà chi attenti all’esistenza di Israele, se un gruppo terroristico di matrice islamica, se un popolo che richiede semplicemente il rispetto dei minimi diritti umani, o un intellettuale che esprime una critica. Chiunque esso sia rappresenta una minaccia e, in quanto tale, degna di essere annientata. Israele non ammette vie di mezzo, o si è con Israele o si è contro, con tutto quello che comporta essere contro uno degli eserciti più forti al mondo.

Hamas, ma ancora di più la popolazione di Gaza, ha sperimentato vivamente questa semplice equazione.

In realtà quest’ultima guerra è solo un ulteriore passaggio all’interno di un più ampio contenitore che vede Israele scatenare una forza distruttiva, e assolutamente sproporzionata, su Gaza con ripetuta frenesia.

A partire dal 2009 gli interventi dell’IDF su Gaza sono stati i seguenti:

  • 2009 – Operazione Piombo Fuso
  • 2012 – Operazione Pilastro di Difesa (anche Colonna di Fumo)
  • 2014 – Operazione Margine di Protezione

Precedentemente, nel 2006, c’era stata la seconda guerra con il Libano, la prima era quella che aveva visto l’invasione dell’82 e l’assedio di Beirut tristemente conclusosi con il massacro perpetrato nei due campi profughi di Sabra e Shatila di cui pochi giorni fa abbiamo ricordato l’anniversario.

oPT-129

L’accerchiamento arabo di cui Israele si sente vittima quasi lo costringe a difendersi in modo brutale. Il problema centrale è che Israele sta alimentando una narrativa che non corrisponde alla realtà. Non ci sono stati islamici che al momento possono mettere seriamente in pericolo l’integrità dello stato israeliano e non esiste una vera e concreta realtà islamica che possa rappresentare un serio pericolo per Israele. Negli ultimi 40 anni, dopo la firma dei trattati di pace con l’Egitto che risalgono alla seconda metà degli anni ’70, con gli accordi di Camp David, nessuno Stato arabo ha avuto interesse a destabilizzare Israele. Solo negli ultimi anni abbiamo avuto modo di ascoltare le deliranti parole del ex-presidente iraniano Mahmud Ahmadinejād il quale aveva paventato la possibilità di scatenare addirittura la forza nucleare contro Israele.

“Can che abbia non morde”, si dice, e infatti mai avrebbe potuto verificarsi quanto minacciato dal leader iraniano, salvo scatenare l’ira di tutta la comunità internazionale, Stati Uniti, Europa e Lega Araba compresa che avrebbe visto polverizzarsi anni di relazioni diplomatiche con gli stati occidentali (contratti economici, accordi di libero scambio – in poche parole “ricchezza”) a causa della totale cecità politica di un singolo individuo.

Il motivo principale di questa analisi risiede nella drammatica frammentazione interna allo stesso mondo islamico dovuta alla inconciliabile separazione tra minoranza sciita e maggioranza sunnita, e che sta dimostrando tutta la sua patologica instabilità a partire dalle primavere arabe, per concludersi con il subbuglio che sta avvenendo in Iraq, Siria, Algeria, Libano, Tunisia, Libia ed Egitto.

Israele dunque si alimenta di una rappresentazione sbagliata.

In parte questo atteggiamento è comprensibile. Utilizzo e riporto un esempio tratto da un’intervista a Eva Illouz, una delle più importanti sociologhe contemporanee che insegna all’Università ebraica di Gerusalemme (intervista tradotta recentemente su Le Parole Le Cose):

Immaginate di essere stati cresciuti da un padre molto violento e di ricordarvi di lui. Siete una ragazza, svilupperete un “sano” sospetto verso gli uomini. Diventerete molto cauta perché avete imparato che gli uomini possono essere molto brutali. Se siete in un ambiente di uomini buoni e pieni di attenzioni, il vostro sospetto si placherà, ma se vi trovate in un ambiente in cui alcuni uomini sono molto violenti e altri no, allora il sano sospetto si trasformerà in un’incapacità ossessiva di distinguere fra tipi di uomini.

Questo è il trauma storico della coscienza con cui gli ebrei vivono. Israele è emerso da una storia traumatica ed è stato attorniato da una varietà di popoli arabi – alcuni forti e violenti, alcuni non-ostili, altri deboli. Nessuno era davvero amichevole anche se ci sono stati alcuni gesti di amicizia. Così la psiche israeliana è diventata incapace di distinguere.

Il punto centrale del problema è proprio questo, la percezione.

La società israeliana è costruita su 3 pilastri:

  1. La religione ebraica
  2. La Shoa
  3. L’esercito

Tale tripartizione non lascia molto spazio a forme di apertura, a maggior ragione se ci si sente accerchiati dal nemico. La guerra appena conclusasi con gli accordi del 26 agosto mediati dall’Egitto, ha rappresentato lo sforzo dello stato israeliano per assicurarsi la propria sicurezza, che è il bisogno centrale di ogni stato. In Europa abbiamo dovuto aspettare prima il 1648 con la pace di Westfalia e poi la fine della seconda guerra mondiale per avere la certezza che la Francia non ci stesse invadendo o la Germania non stesse progettando un piano per la conquista di tutta l’Europa.

I tunnel di Hamas hanno dato sfogo alla più cupa paranoia israeliana. Il nemico si nasconde sotto terra, e può entrare nel giardino di casa, in salotto persino. Per questo motivo Israele ha scatenato una violenza che prima di oggi nei confronti di Hamas non era mai stata dimostrata.

Qui sotto riporto una tabella che dà la dimensione degli scontri.

Anno 2006 2009 2012 2014
Operazione Seconda Guerra del Libano Piombo Fuso Pilastro di Difesa Margine Protettivo
Giorni 34 23 8 50
Morti Israeliani 165 13 6 70
Morti Arabi 1.150 1.166 169 2.139
Missili 4.000 660 1.500 4.564
Intercetti 0 0 421 735
Costruzioni distrutte dall’IDF 125.000 24.000 2.174 17.200

In grassetto i dati di maggior entità. Come si può notare gli unici due dati che non appartengono alla colonna dell’operazione “Margine protettivo” appartengono a uno scontro tra due eserciti regolari, quindi sono da tenere in considerazione le dovute proporzioni in quanto un conto è combattere con un nemico “istituzionale”, un conto con un nemico che non è espressione di alcuna entità statuale, privo dunque di quella capacità organizzativa propria di uno stato che comporta disponibilità economica, armi reperibili sul mercato regolare, leva militare, intelligence ecc.

Hamas per conto suo in quest’ultima guerra ha dato dimostrazioni che né Israele, né tanto meno il resto del mondo, poteva minimamente immaginare. Non è tanto la capacità offensiva di Hamas che ha impressionato, in quanto la quasi totalità dei missili lanciati sul territorio israeliano sono stati intercettati da Iron dome, quanto piuttosto la capacità di resistenza, la capacità di riorganizzazione e di gestione del territorio nonostante un bombardamento continuo, la presa sulla popolazione che si sente sempre meno rappresentata dall’élite dell’ANP di Abu Mazen e sempre di più dalla resistenza di Hamas.

In tale ottica si spiegano anche le deboli e scarse dimostrazioni di sostegno nei confronti dei fratelli Gazawi da parte della popolazione della West Bank, la quale ormai non si riconosce più in una leadership che la rappresenti e la tuteli.

Tale sensazione di abbandono e smarrimento politico percepito dalla popolazione ha completamente annichilito la spinta a dimostrare il proprio dissenso, consapevoli che non sarebbe servito a nulla, in quanto i propri rappresentanti non avrebbero mosso un dito per fermare il massacro, e in più non avrebbero fornito quella copertura politica necessaria per consentire e guidare un sollevamento di piazza che altrimenti si ritroverebbe isolato e dunque passibile di attacchi dalla controparte.

Abu Mazen, per la maggior parte dei palestinesi, rappresenta l’altra faccia della medaglia del potere israeliano e dunque è completamente privo di qualsiasi capacità rappresentativa.

La figura di Abu Mazen, è una figura di potere estremamente personalistica, salito al governo a seguito di libere elezioni nel 2006, dopo la morte di Arafat, non ha consentito che ci fossero elezioni né nel 2010 né oggi nel 2014, istituzionalmente parlando è al di fuori di qualsiasi legittimazione popolare da ormai quasi 10 anni. Hamas, per contro, non ha alcuna figura pubblica cui fare riferimento, ma affonda le sue radici nella fiducia popolare.

In questo, io credo che abbia raccolto due principali lezioni. La prima è quella proveniente dai veri e propri movimenti terroristici di qualsiasi colore e nazione, dalle Brigate Rosse italiane all’odierno ISIS e cioè creare una rete di comando multicentrica così da non essere facilmente individuabile e perseguibile. La seconda lezione viene invece dalla più autoctona storia palestinese. Ogni tentativo di individuare una persona forte e carismatica veniva affossata dall’attentato alla sua vita per mano di poteri occulti, la morte gettava tutto il movimento e tutta la popolazione nella disperazione e nella confusione. Quanto successo ad Arafat è emblematico di tale circostanza: già scampato alla morte per ben sette volte, alcuni storici sostengono che nel 2004, anno della sua morte, sia stato avvelenato, vista la concentrazione di polonio – decisamente anomala – rintracciata nel suo corpo.

Un movimento che, dunque, non ha un solo centro di potere subisce meno la possibilità di caos dovuta all’eliminazione del proprio unico leader.

Il cartello rosso  avvisa gli israeliani che è pericoloso andare  nei territori occupati.

La paura e la paranoia hanno oramai completamente preso il sopravvento ed è semplice per la più comune società israeliana adagiarsi su di esse.

Recentemente parlavo con dei giovani locali, persone che studiano, che vivono l’era delle nuove tecnologie  e dei social media, un’era insomma dove non è più tollerabile e scusabile “non sapere”. Dicevo loro che mi ero recato nei territori occupati – in tali termini si definiscono a livello di diritto internazionale i territori palestinesi – e avevo visitato le città di Ramallah e Nablus.

Lo stupore e l’ignoranza si sono disegnate sul volto del mio interlocutore come se stessi parlando non di città distanti da Gerusalemme appena una cinquantina di kilometri, ma dell’ultimo cratere scoperto dalla Nasa su Marte. La gente comune è totalmente disinformata e, peggio ancora, spaventata, di quanto succede al di là dei checkpoint. Alla richiesta di informazioni per strada su come arrivare a Betlemme – situata in territorio palestinese – la prima risposta è che “è molto pericoloso”. Sono sicuro che chi mi ha dato tale risposta non vi si sia mai recato.

Grandi cartelli rossi alla soglia dei checkpoint ammoniscono – con fare dantesco – che attraversare quella linea è “contro la legge” per gli israeliani, e qualora si contravvenisse a tale divieto ogni responsabilità e pericolo ricadrebbero unicamente sull’individuo stesso.

Si entra nella terra di nessuno, una “no man’s land” dove nessuno ti può difendere, nessuno ti viene a prendere se ti succede qualcosa, non c’è sicurezza: di là ci sono gli “indiani” con arco e frecce pronti a farti lo scalpo.

Le politiche israeliane per la gestione della questione palestinese sono tutte orientate verso lo schiacciamento vero e proprio. La stessa questione di Gerusalemme come città divisa è emblematica di quanto poi avviene nel resto del territorio palestinese.

Il governo di Tel Aviv non riconosce lo stato palestinese, non ne riconosce i confini – e infatti continua a violarli –, non ne riconosce l’autorità politica, e infatti, in modo schizofrenico, intavola dialoghi istituzionali prima con Hamas, poi con l’ANP e saltuariamente con Al Fatah, salvo poi servirsi della mediazione egiziana e talvolta permettersi di abbandonare le trattative a proprio uso e consumo.

Immediatamente dopo la firma del cessate il fuoco del 26 agosto Netanyahu, primo ministro israeliano, ha pensato di requisire ed espropriare 400 ettari di terra nelle vicinanze di Gerusalemme per iniziare la costruzione di un nuovo settlement. Questi insediamenti sono la manifestazione più evidente della politica israeliana e della totale noncuranza per le regole imposte dalla comunità internazionale tramite i numerosi trattati.

L’appoggio statunitense è sicuramente il punto di forza del governo di Tel Aviv il quale da una parte si sente spalleggiato e coperto dalla potenza più influente a livello internazionale e dall’altra è finanziato da quest’ultima, la quale riversa annualmente 3.2 miliardi di dollari nelle casse di Israele. Solo ultimamente gli Usa hanno investito 225 milioni di dollari per il finanziamento dello scudo anti-missile israeliano, l’ormai arcinoto Iron Dome.

L’appoggio americano si manifesta in modo assai robusto anche a livello diplomatico in quanto gli Stati Uniti, potendo esercitare il potere di veto in seno al Consiglio di Sicurezza (CdS) delle Nazioni Unite, hanno la possibilità di intercettare e neutralizzare qualsiasi decisione potenzialmente svantaggiosa per Israele.

Ultimamente è in discussione la possibilità paventata da Abu Mazen di adire la Corte Penale Internazionale per denunciare i crimini commessi a Gaza. È questo un punto dolente.

La Palestina aveva già provato a riferire le proprie istanze alla Corte Internazionale di Giustizia (CIG) ma le era stato negato l’accesso. Nonostante sia vero che anche gli stati non membri dell’ONU (quale la Palestina è) possono divenire parte dello statuto della Corte, le condizioni per  l’adesione sono determinate dall’Assemblea Generale ma solo su proposta del CdS, dove gli Stati Uniti possono esercitare il veto. Ecco dunque il ruolo fondamentale esercitato dalla potenza americana nel disinnescare lo strumento legale potenzialmente azionabile dal governo di Ramallah.

Diversa è la situazione nel caso in cui l’ANP volesse rivolgere le proprie attenzioni nei confronti della International Criminal Court (ICC): i negoziati per rendere possibile tale circostanza sono tutt’ora in itinere. In questo caso le porte sembrano più aperte in quanto non è necessario passare da alcun organo delle Nazioni Unite e dunque si potrebbe bypassare il controllo americano.

Il legame tra USA e Israele risale addirittura alla guerra di indipendenza americana quando il presidente Lincoln dimostrò apprezzamento nei confronti della cultura ebraica.

Il sostegno americano, spinto molto dopo il 1967 (secondo quanto sostenuto da importanti politologi americani, come Michael Barnett), è arrivato più che altro come un freddo calcolo strategico. Gli strateghi americani, negli anni Sessanta, cominciarono a vedere Israele come uno strumento utile per bloccare l’avanzata sovietica in Medio Oriente, in un momento in cui le leadership arabe avevano strizzato l’occhio a Mosca. Contenere l’influenza russa era una prerogativa della Guerra Fredda – se ne sa qualcosa anche in Italia – e così gli sforzi americani si concentrarono nel fornire sostegno economico e militare a Tel Aviv, per tenerlo lontano dal blocco-sovietico.

La caduta del muro di Berlino, e la fine del dualismo USA-URSS, non hanno interrotto l’impegno americano nella regione in quanto l’intenzione di mantenere una certa stabilità nell’area è rimasta di primaria importanza.

Israele, per Washington, ha sempre avuto un ruolo di primo piano, visto come la “forza stabilizzante” nella regione: il proxy israeliano era considerato il vettore per costruire deterrenza davanti alle minacce, qualora si fossero create problematiche interne in nazioni dell’area. Per questo motivo Clinton, Bush, e in ultimo anche Obama hanno tutti sostenuto Israele.

Le diversità delle tre amministrazioni statunitensi sono comunque percepibili e ultimamente c’è stata una cauta apertura nei confronti della condizione palestinese da parte dell’amministrazione Obama la quale, da un lato ha condannato la politica degli insediamenti in Cisgiordania, e dall’altro ha benedetto il ricongiungimento tra Fatah e Hamas per guidare l’Autorità palestinese.

 oPT-300

A livello popolare per quale motivo gli Stati Uniti simpatizzano così fortemente per Israele?

La risposta si può trovare in due argomenti: da un lato i cittadini statunitensi vedono nello stato ebraico l’unica democrazia in Medio Oriente, e per questo, un popolo fortemente legato ai valori e alle libertà democratiche, quale è quello americano, si sente in naturale connessione con Israele. Dall’altra parte c’è Hamas, organizzazione islamista considerata in America tra le realtà terroristiche mediorientali, che mira ad annientare la democrazia israeliana per statuto.

Altre importanti ragioni di questo feeling, stanno nelle attività di due importanti confessioni religiose, quella ebraica e quella cristiano evangelica, entrambe politicamente molto attive e influenti negli Stati uniti, ed entrambe apertamente pro-Israele. Il peso degli ebrei americani, che tuttavia sono spesso critici sui risvolti negativi del sionismo e si mostrano invece aperti e liberali su diverse tematiche (per esempio il blocco dell’espansione nella West Bank), è dal punto di vista elettorale molto importante. Basti pensare che le comunità ebraiche hanno una grande influenza socio-politica in stati come la Florida e la Pennsylvania, spesso decisivi per le elezioni presidenziali.

Dal canto suo il problema ultimo della realtà palestinese è dovuto proprio a questo non essere stato. Si crea una condizione di totale sbilanciamento tra le parti in gioco, da una parte lo stato israeliano con tutto il bagaglio di appoggi e relazioni internazionali sopra descritto, e dall’altro un’Autorità Nazionale, un non-stato. Nonostante sia stata riconosciuta come “Stato Osservatore non membro” dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 29 novembre 2012, tale piccolo passo non è ancora sufficiente per fare della Palestina una vera e propria entità statuale.

Manca il riconoscimento da parte della comunità internazionale, manca il riconoscimento – soprattutto – del proprio popolo nei confronti di una leadership che sia chiara, trasparente, voluta e legittimata da elezioni.

Fino a che non sarà possibile vedere realizzata una simile realtà politica, il senso di colpa e di vergogna di Gideon Levy, di cui parlavo in apertura, per le condizioni di vita in cui lo stato di Israele costringe la gente palestinese, non avrà pace.

La prima responsabilità però credo risieda nella stessa ANP la quale continua a non presentarsi al proprio popolo come leader di quella che, seppur in costruzione, è pur sempre una nazione.

Da un altro punto di vista, fin tanto che il popolo israeliano si sentirà messo in pericolo e messo in discussione persino nella propria esistenza, non potrà far altro che chiudere gli occhi su quanto succede al di la del muro, e mostrare i muscoli ogni volta che si provi a fornire una narrativa differente su quanto accade nella “terra di nessuno”.

[1] (Milano 1986) Dopo una laurea in Giurisprudenza e un master in International Cooperation presso l’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) di Milano, si trova impegnato oggi in un programma di Internship presso il Center for Democracy and Community Development a Gerusalemme, dove si occupa di numerose attività per la prosecuzione del processo di pace nel conflitto israelo-palestinese.