[L’ultimo numero di “Nuova Corrente”, Visti da fuori. La poesia italiana oggi in Europa, a cura di Damiano Sinfonico e Stefano Verdino, uscito nel primo semestre del 2014, raccoglie contributi sulla ricezione della poesia italiana contemporanea all’estero, riflessioni sul canone, sulle poetiche, sulla diffusione in rete e la proposta di quattro voci emergenti. Si propone qui un estratto, con alcuni tagli, dell’intervento di Giancarlo Alfano, La contro-favola di Policleto. Tre note sul canone e le antologie]


A giudicare dalla storia del libro poetico, già a partire dall’epoca del codice manoscritto, il bifrontismo del canone, il suo presentarsi come esemplarità modellizzante, che si istituisce come descrizione e come esempio concreto, sembra dunque risolversi particolarmente bene nella forma dell’antologia. Ciò ha fatto sì che i momenti di accelerazione poetica, ossia di definizione consapevole di uno scarto estetico, realizzato da un singolo poeta o da un gruppo più o meno sodale, siano stati generalmente marcati dall’apparizione di una antologia, si trattasse di una silloge di versi propri o di versi altrui (i Maestri convocati a suggellare una svolta), di autori della propria tradizione linguistica o di traduzioni da altre lingue. A seconda delle epoche, inevitabilmente, il sistema letterario e lo stesso orizzonte di senso affidato alle pratiche poetiche hanno consentito operazioni di maggiore o minore ricaduta ed efficacia, con casi rilevantissimi che hanno addirittura segnato una soglia all’interno dei fenomeni estetici.

Non appartengono a questi casi le raccolte antologiche di rime del Cinquecento italiano, spesso contenitori piuttosto indifferenti alla resa espressiva di quella sterminata produzione che si è soliti ascrivere al petrarchismo. Quando però […] si torna a riconoscere in questa stagione poetica il carattere di “esperienza collettiva” o, per riprendere un concetto sorto in ambito provenzalistico e riproposto in termini più estensivi da Guido Mazzoni, di “lirica di società”, si capisce che la «formula cumulativa e affastellante» dell’antologia «moltiplica le presenze individuali» in quanto tutte sussumibili in un «comune universo di forme e linguaggi».[1] Il fatto che queste antologie, a partire dal capostipite Rime diverse di molti eccellentissimi auttori (Venezia 1545), siano state considerate alla stregua di una autorappresentazione della società italiana del tempo, permette di riconoscere il valore anche tipologico-culturale della forma-antologia, che può arrivare a costituirsi quale «modello di mondo» (per riprendere un concetto fondamentale della semiologia di Jury Lotman). Nel caso cinquecentesco, queste raccolte diventano l’«espressione, teorica e pratica, di una precisa militanza letteraria (la progressiva promozione della poesia contemporanea rispetto a quella classica)» e assumono di conseguenza «un ruolo normativo». La replica del medesimo modello petrarchesco da parte di tantissimi autori e per tantissimi fini diversi […] lo rende fungibile, facendogli perdere pertinenza estetica ma assicurandogli un enorme prestigio culturale: il canone petrarchesco significa dunque, intorno alla metà del s. XVI e per l’intera produzione poetica europea, il punto di riferimento condiviso, il “modello”, che s’incarna in tanti “esemplari”. […]

Ma fermiamoci a ragionare per un istante su quella che a me pare un’inerzia linguistica, prima ancora che concettuale. Se il “canone petrarchista” funziona nel modo che ho sinteticamente descritto, se cioè si tratta di un “codice” condiviso dagli alfabetizzati cinquecenteschi e da loro utilizzato per la comunicazione poetica (ciascuno poi col suo tono e la sua inclinazione), si potrà parlare anche di un “canone del petrarchismo”? L’inerzia, a mio avviso, consiste proprio nella tendenza ad applicare un termine già ambiguo a necessità diverse, mentre invece occorrerebbe distinguere tre accezioni di “canone”:

  1. a) canone inteso come modello (anche ricostruito a posteriori) che orienta una pratica (accezione estetica, di tipo storico-formale);
  2. b) canone inteso come insieme dei migliori risultati all’interno di una certa esperienza letteraria (accezione didattica, di tipo nomenclatorio);
  3. c) canone come “novero”, ossia come individui che condividono una serie di tratti formali e tematici caratteristici di una certa esperienza letteraria (accezione ingenua, di tipo descrittivo).

Il discorso che qui sto proponendo esclude recisamente l’accezione “c”, in quanto priva di ogni utilità interpretativa. Più problematica l’accezione “b”, che presenta il vantaggio di introdurre il concetto di valore all’interno di una produzione omogenea. Ma il “valore” è a sua volta una categoria storica, sicché quel che un’antologia odierna può considerare tra i vertici del petrarchismo potrebbe essere risultato indifferente ai contemporanei […]. L’accezione “a” mostra invece una maggiore potenza euristica, giacché consente di individuare come il contemporaneo costruisca il suo sistema di riferimenti e dunque di valori, proponendolo esplicitamente nella forma di un’esemplarità accoppiata a una forza modellizzante: che è quanto dire un’esemplarità replicabile.

La prospettiva si rovescia per il mondo a noi contemporaneo quando è oramai avvenuto quel passaggio che riassumo con le misurate parole di Guido Mazzoni: «Quando più nulla frena l’anarchia teorica del talento individuale, ogni testo rischia di dar voce alla tautologia di un io che esprime se stesso senza risultare rappresentativo».[2] Ciò vuol dire, secondo il lessico che sto proponendo, che ogni testo, o almeno ogni esperienza poetica individuale si propone come esemplare, risultando però privo di autorità modellizzante. Questa sintesi è di sicuro inesatta per descrivere il Novecento nel suo complesso, tanto meno quello italiano, che è stato invece caratterizzato, fino almeno agli anni Cinquanta, dalla presenza di koinai o di vulgatae poetiche (ancora una volta: delle “grammatiche della poesia”) che si sono avvicendate. […]

Ma, per tornare alle antologie, questa particolare condizione di esemplarità, diffusa perché priva di efficacia modellizzante, appare conclamata – e illustrata dagli stessi curatori – nel Pubblico della poesia (1975) di Berardinelli e Cordelli, e risulta quasi truffaldina nel caso del «canone aziendale» proposto da Cucchi e Giovanardi nei Poeti italiani del secondo Novecento (1996). Se è lecito citare un’esperienza personale, direi che questa condizione è addirittura alla base del lavoro collettivo di Parola plurale (2005), che propone una descrizione del presente per mostrare la vivacità e la forza delle poesia italiana contemporanea, ma che, antologizzando un numero considerevole di autori (sessantaquattro), finisce – involontariamente, ma di fatto – col presentare agli occhi del lettore un’idea di canone come novero (accezione “c”), che ha, come s’è detto, una scarsa potenza euristica.[3] L’antologia pubblicata dall’editore Sossella si configura tuttavia come un progetto che intende sottrarsi proprio alle inerzie del canone, e quindi aprire alla molteplicità e alle diversità. Ma proprio per questo essa appare estranea rispetto al carattere direi fondazionale dell’antologia moderna, che abbiamo detto voler sempre realizzare un posizionamento di tipo politico-culturale e, al tempo stesso, supportare una prospettiva estetica: se infatti Parola plurale propone un “canone”, non propone però un modello (o un sistema “plurale” di modelli); presenta invece i risultati che i curatori hanno collegialmente ritenuto i migliori, i più esemplari, i più (potenzialmente) fecondi, di quasi quaranta anni di poesia.

Non ho le capacità di passare in rassegna in maniera analitica le antologie italiane del secondo Novecento e degli anni a noi più vicini, ma appare evidente, proprio come indicato con altre parole da Mazzoni, che la natura anfibia del concetto di canone come “modello” e come “esemplare” non appare più praticabile nella contemporaneità, sicché il “canone” diventa o l’autoproclamazione di un classico (semmai l’ultimo classico, come nel caso dei Novissimi, 1961), oppure la “conta” dei poeti che fanno poesia (semmai con qualche grado di miopia territoriale, come nel caso dei Poeti degli anni Zero, 2010). Così, accostando violentemente le Rime diverse di molti eccellentissimi auttori alle raccolte che si sono avvicendate nel passaggio dal s. XX al s. XXI, risulta confermato quel passaggio dal modello fungibile all’esemplare irreplicabile che le più intelligenti ricostruzioni storico-letterarie hanno riconosciuto come tipiche della costituzione di ciò che noi sentiamo come la nostra modernità, il nostro modo di essere modo, la maniera contemporanea dell’essere contemporanei.

[1] S. Jossa e S. Mammana, Petrarchismo e petrarchismi. Forme, ideologia, identità di un sistema, in Nel libro di Laura. La poesia lirica di Petrarca nel Rinascimento, a cura di L. Collarile e D. Maira, Schwabe, Basel 2004, pp. 91-115.

[2] G. Mazzoni, Sulla poesia moderna, il Mulino, Bologna 2005, p. 216.

[3] Parola plurale. Sessantaquattro poeti italiani fra due secoli, a cura di G. Alfano, A. Baldacci, C. Bello Minciacchi, A. Cortellessa, M. Manganelli, R. Scarpa, F. Zinelli, P. Zublena, Luca Sossella editore, Roma 2005.