«In Italia, invece, c’è ancora una sorta di ritegno, come se la storia raccontata fosse sempre un po’ scadente, o fosse preferibile solo lasciarla intuire e non descriverla completamente. Questo è, secondo me, il problema della letteratura italiana». Basterebbe questa affermazione a descrivere la scrittura di Sandro Veronesi. Toscano di Prato e romano d’adozione, laureatosi architetto con una tesi su Victor Hugo e la cultura del restauro, Veronesi ha ben presto compreso la propria vocazione di scrittore, dedicandovisi completamente. Egli appartiene a quella schiera di “narratori puri” che nella costruzione di storie trovano la propria via di comprensione alla realtà. Una schiera che annovera i più grandi autori della tradizione occidentale, da Lowry a Fante, da Bolaño a Nabokov, e che in Italia purtroppo ha trovato molte resistenze e pochi adepti – Verga, Svevo, Moravia, Tadini. Questi sono i nomi. Perché, si badi bene, quella di Veronesi è una vocazione letteraria alta, e in certo senso “classica”, che, con le debite proporzioni, si confronta con i grandi maestri. E si manifesta nei termini di un’esigenza intima di trasformare in trama qualsiasi materiale capiti per le mani. Non c’è bisogno di ricorrere alle preimpostate griglie della narrazione di genere, né di ricalcare ambiguamente la realtà, biografica o cronachistica, per dare espressione a questa ispirazione. Sono sufficienti un’attenta osservazione del mondo e un’istintiva forza narrativa, che nel tempo Veronesi ha saputo addomesticare e perfezionare e che fa di lui uno degli autori più significativi della nostra letteratura contemporanea.

Veronesi, dunque, scrive romanzi. Senza etichette. Anzi, quella per le etichette è una sua speciale idiosincrasia. A partire da quella di “giovane”, che lo ha accompagnato per il primo decennio della sua attività (cfr. Ma smettetela di chiamarci giovani scrittori, «l’Unità», 8 aprile 1995). Le etichette riducono stupidamente l’orizzonte di un’opera, ne soffocano il respiro, ne prestabiliscono i termini di paragone. È forse anche per questo che Veronesi ha seguito un suo privato percorso di ricerca, certo supportato – e condizionato – da preziose amicizie (Edoardo Albinati, Enrico Palandri, Edoardo Nesi), ma esente da qualsiasi adesione alle consorterie e ai gruppi (dai Cannibali agli «Scrittori sul fronte occidentale»), così come alle “mode” succedutesi negli ultimi vent’anni. Un percorso che è cominciato presto, a 29 anni, con Per dove parte questo treno allegro (1988): romanzo ancora acerbo, ma già capace di porre al centro il tema del difficile rapporto con i padri che, a intermittenza, ritornerà successivamente. E che è proseguito con altri sei romanzi, a una curiosa cadenza “quinquennale” – cui fa eccezione Brucia Troia (2007), testo dalla travagliata vicenda pre-testuale: Gli sfiorati (1990), Venite venite B-52 (1995), La forza del passato (2000), Caos calmo (2005) e XY (2010). Alla produzione principale si sono poi affiancati altri lavori, che sfaccettano ulteriormente il profilo dell’autore: Occhio per occhio. La pena di morte in 4 storie (1992); le Cronache italiane stilate negli anni per varie testate giornalistiche e raccolte nel 2002 in Superalbo; la recente raccolta di racconti Baci scagliati altrove (2011).

Un percorso individuale, dunque, ricco e compatto, che si fonda su una fiducia, a tratti ingenua a tratti più meditata, nel potere ermeneutico delle storie. Contro la subordinazione della narrazione alle idee, Veronesi rivendica la convinzione che le storie possano farsi portatrici di una rivelazione destinata, prima ancora che al lettore, allo scrittore. Una rivelazione che riguarda «aspetti ancora oscuri dell’esistenza», la cui emersione è resa possibile dalla semplice nominazione che il romanziere, tramite più che artefice, riesce dare della realtà che gli vibra intorno. È qua che si incardina il nucleo ideologico della narrativa di questo autore: il potere delle parole e delle storie dev’essere impiegato dallo scrittore per investigare quello che Asor Rosa ha definito il «magma» del mondo contemporaneo (Storia europea della letteratura italiana. La letteratura della nazione, III, Einaudi 2009, p. 602), ossia quegli aspetti della realtà che sfuggono alle correnti griglie di interpretazione (la morale, la razionalità scientifica, la religione). La realtà sfida l’uomo e la sua capacità di comprendere: la penna di Veronesi si fa carico di riportare sulla pagina questo scontro.

All’origine vi è un’acuta sensibilità per quanto diverge dal consueto scorrere della vita, che trova declinazioni diverse all’interno dell’opera. Da un lato quella più superficiale, incarnata in un esercito di personaggi eccentrici, protagonisti di microstorie che a ogni passo si aprono e richiudono, che compongono il quadro di un’umanità contesa tra genialità e follia: figure fuori dagli schemi, che sembrano uscite dai racconti di Carver o Foster Wallace, detentrici di una strana energia che le rende potenzialmente capaci di qualsiasi gesto. Questi individui sono il riflesso testuale di un narratore scanzonato e ironico, umoristico nel suo senso migliore, in linea con la lezione di Sterne, Diderot e Beckett: egocentrico, si diverte a spiazzare e manipolare, dialoga con i personaggi e si prodiga in digressioni fantasiose (spesso eccessive), rivolte ad allietare il viaggio testuale del lettore. Questa sembra inizialmente la vena più consona alla scrittura di Veronesi, che tuttavia deve fare i conti con l’approfondirsi di una seconda e più complessa manifestazione dell’inconsueto, che coinvolge l’esistenza dei protagonisti al centro dei romanzi. Dalla dimensione del bizzarro si passa a quella dell’incomprensibile, dell’insensato, che assorbono porzioni sempre più ampie di realtà. L’irruzione dell’irrazionale, articolandosi in trame complesse, assume un’estensione che si potrebbe definire universale, coinvolgendo tutti i campi dell’esperienza umana, da quello familiare-affettivo (il rapporto con i padri, la scomparsa dei cari, l’impotenza sessuale) a quello sociale (deviazioni eccentriche e sacche di resistenza al boom economico, l’integrazione nella civiltà ultracapitalistica occidentale) fino al trascendentale (un integralismo fideistico come estremo appello per la comprensione dei fatti).

La metafora più conseguente di questo corpo a corpo tra l’uomo (lo scrittore) e la realtà è quella del caos. È questa l’immagine che campeggia al centro del libro più noto di Veronesi, Caos calmo: più noto, ma non più significativo. Qui infatti, così come in La forza del passato – due romanzi centrali e per molti versi affini nell’opera dello scrittore -, lo smarrimento esistenziale tocca il piano dei valori familiari, dell’etica sentimentale, ma si staglia sullo sfondo di una civiltà in cui l’individuo sa ancora orientarsi e riconoscersi. Pietro Paladini, protagonista e voce narrante, è un uomo di successo – è dirigente televisivo – e incarna idee e abitudini di una borghesia fatua e solare, e più in generale di una società che prova ad assorbire la sua tragedia (l’improvvisa scomparsa della moglie) con continue e inaspettate lusinghe. Per provare a elaborare il proprio lutto (accentuato da un’incomprensibile assenza di dolore) egli deve autosospendersi dalla quotidianità che altrimenti assorbe tutto in un indistinto grigio; e lo fa stabilendosi per mesi su una panchina di fronte alla scuola della figlia. La compiaciuta sovversione delle convenzioni se da un lato produce una serie di reazioni che mettono in discussione il passato e il presente di Pietro, dall’altro, in definitiva, non gli consente una reale comprensione di quanto accaduto. Qualcosa continua sfuggire agli schemi: la soluzione di fronte a ciò che resiste al senso prende allora le forme di una rassegnata accettazione. La candida ammissione del proprio fallimento diventa un superficiale pegno per poter ricominciare a vivere l’anestetizzante vita dell’Occidente. Così Caos calmo, e pure La forza del passato, appaiono come “romanzi dell’integrazione”, momentanea sospensione di un conflitto che Veronesi sembra altrove lasciare aperto a differenti soluzioni.

Sono infatti altre le prove in cui si esprime in termini più complessi e feroci la contraddizione che sottende l’esistenza umana: la rappresentazione della crisi individuale si carica di tensione quando si lega inscindibilmente a una complementare messa in discussione dei paradigmi ermeneutici della civiltà d’appartenenza. È nei termini del freudiano «disagio della civiltà» (stante l’attento interesse di Veronesi per la psicanalisi) che si possono leggere le vicende dei “dis-integrati” al centro di questi romanzi. E se con Venite venite B-52 la rappresentazione di un’umanità che si smarrisce al passaggio del boom economico e della «mutazione antropologica» è ancora cooptata da un narratore umoristico che volge la contraddizione in postmoderna parodia, è con Gli sfiorati e XY che questo percorso di scavo trova la propria quadratura. L’uno il seguito dell’altro, questi due romanzi costituiscono premessa e (momentaneo) esito della ricerca di Veronesi e, allo stesso tempo, ne definiscono un orientamento che percorre carsicamente l’opera: quello religioso-trascendentale. Al centro è la vicenda di Mète, al secolo Ermète Berardi: la sua figura è quella articolata e seducente di un ragazzo educato ai valori e ai rigori della tradizione cristiana più severa, ma che conosce i piaceri e le passioni della società moderna per averli osservati e, con moderazione, assaggiati. Egli si fa alfiere di un’intransigenza morale che radicalizzerà il suo doppio confronto con l’incomprensibile.

Negli Sfiorati, la breve convivenza con la sorellastra Belinda, modello di Lolita aggiornata agli anni ’90, sprofonda il giovane nel vortice di una crisi etica e sensuale: la seduzione erotica verso la ragazza è il segno di una tentazione superiore, quella verso un mondo dominato dal caos. Schiumevolezza: è questo il termine che Mète conia per definire l’indolenza arrendevole e provocante della ragazza. Dare un nome all’incestuosa tentazione diventa infatti l’ultimo tentativo di sottometterla e disinnescarla, nel rispetto di quel principio di nominazione che è all’origine della tradizione biblica («In principio era il Verbo»). Tuttavia neanche questa soluzione si rivela più praticabile: il «demone della non-linearità» di cui Belinda si fa tramite impone il regno del caos e dello spreco, dove non c’è passato né futuro che inquadri il gesto dell’uomo («Veramente, cosa contava la carne se non c’era nemmeno una parola a testimoniarla?», 338). Se la consumazione dell’incesto sul sottofondo radiofonico del rosario serale lascia presagire una perentoria sconfitta e l’inizio di una lunga deriva, la finale fuga del protagonista in un altrove esotico e irraggiungibile assume il senso di un ultimo tentativo di resistenza, un’espiazione consapevole del nuovo ordine vigente che lascia aperta la porta al secondo atto della sua vicenda.

Il ritorno del medesimo personaggio a vent’anni di distanza indica, oltreché la forte tensione interna al percorso poetico di Veronesi, un passo in avanti nella sua riflessione: alla manifestazione di un irrazionale che, realizzandosi nella dimensione della coscienza, rientrava ancora nel campo del “credibile”, nell’ultimo romanzo si sostituisce l’atto più incomprensibile che sia dato immaginare. Posto che sia immaginabile. Al centro di XY è infatti un plurimo omicidio che sconvolge la vita della sperduta frazione di San Giuda, Trentino Alto Adige. Come accaduto anche in Brucia Troia, Veronesi colloca il confronto tra trascendenza religiosa e trascendenza apocalittico-superstiziosa ai margini del consorzio civile: quasi a dire che le risposte più significative alle sconvolgenti manifestazioni del caos possano darsi solo al riparo dall’occhio indiscreto della civilizzazione. Così, se l’inspiegabile di questo delitto (11 persone uccise contemporaneamente e nello stesso luogo con 11 modalità differenti, sconnesse tra loro) viene risolto dalle autorità civili con una mistificazione della verità che salva le apparenze, chi conosce la reale consistenza dei fatti si trova a fare i conti con un’interrogazione che trascende i contorni della vicenda. Mète, ora nei panni del prete “missionario”, è affiancato nel compito da una giovane psicanalista: fede religiosa e pretesa scientificità della psicanalisi, vie diverse per imporre una “logica” a ciò che non ce l’ha, s’incaricano d’interpretare eventi che sembrano invocare piuttosto la superstizione e la magia. Lo scacco, una volta di più, appare inevitabile. Senonché, al radicalizzarsi delle manifestazioni del Male, si oppone un parallelo radicalizzarsi della convinzione religiosa. La fede può conservare il suo valore salvifico solo se non scende a compromessi con la ragione illuministica della civiltà moderna e conserva intatto un proprio “primitivo” nucleo dogmatico: «E perciò ascolta quello che ti dico: io credo a quelle morti, e anche a tutto ciò che è venuto dopo, la scienza che viene umiliata, le menzogne delle autorità, il degrado morale, la follia che dilaga, tutto – io credo che sia opera di Satana» (331). Il prezzo da pagare è il rifugio in una fede che confina pericolosamente con un agonistico paganesimo.

È su questa risposta che si chiude, almeno per ora, l’opera di Veronesi. La quale dimostra una notevole tenuta ideologica, confermata anche dalla sua integrazione in un universo narrativo coerente e coeso. Ciò che più colpisce il lettore fedele è infatti il rincorrersi da un’opera all’altra di numerosi richiami inter e intratestuali. Il protagonista di un romanzo diventa l’autore di un libro letto dal protagonista del successivo; personaggi, situazioni e particolari si ripropongono simili o identici da un contesto all’altro. Ne deriva un’impressione di continuità, di molteplicità sfaccettata ma compatta, che contribuisce a dar forza rappresentativa e credibilità al dialogo tra autore e lettore. Gli elementi si combinano ogni volta diversamente, le reazioni che ne derivano appaiono come progressive soluzioni di una formula ancora da perfezionare. Le conclusioni sono apparenti. I personaggi escono sconfitti dalle loro esperienze, in fuga o emarginati; Veronesi invece, che è ancora in cerca della forma definitiva da dare a questa sfida, sembra non voler smettere di giocarla.

Non posso continuare. Continuerò (S. Beckett)


[Questo articolo è  uscito in versione cartacea sulla rivista “Orlando Esplorazioni” (Giulio Perrone Editore), n. 1-dicembre 2012]