Una nebulosa di polvere, confusa e indeterminata: e tuttavia irrimediabilmente concreta. Così raffigura l’esistenza Mario De Santis (giornalista radiofonico di Radio Capital) nella sua seconda raccolta in versi, La polvere nell’acqua (Crocetti, 2012). Il libro riprende la linea tracciata da Le ore impossibili (Empirìa, 2007) – l’attesa ansiosa delle epifanie a cui si riferisce il titolo –, rafforzandola però e dilatandone la matrice dialogica; si ravvisa cioè una maggiore apertura nei confronti della contemporaneità, su cui viene a proiettarsi una vita che vuole capirsi appieno in relazione alle sconnessioni del proprio tempo. La struttura diaristica della silloge trova infatti la sua dorsale costitutiva nella crescente tensione verso la «Storia», «polvere che resta a galla per un po’, quando la getti sull’acqua: prefigura forme, sciogliendosi» (Note, p. 58).

L’istanza biografica, mossa dal bisogno di elaborare le proprie esperienze inchiodandole e interrogandole nei versi, mette l’accento sugli spazi in cui la vita concretamente si fa. De Santis traccia un percorso che è composto dai paesaggi – vissuti realmente o soltanto intravisti in televisione, non importa – in cui legge i segnali di una quête esistenziale attraversata da accensioni momentanee. L’intento di costruire una sorta di diario lirico è del resto confermata dall’indicazione di data e luogo (di scrittura, o soltanto di ispirazione) che accompagna tutte le poesie, disposte secondo un ordine cronologico non troppo rigoroso, specie negli scostamenti della quarta e ultima sezione; dove, appunto, l’analisi dei sommovimenti interiori si allarga apertamente alle vicende della storia recente, lasciando spazio a una pietas accorata che avvolge l’intero orizzonte umano.

Il cammino del poeta trova il suo referente simbolico nella polvere. Che si deposita ovunque, da Roma a Milano, da Atene a Gerusalemme, da Marrakech all’Iran filtrato dalle immagini in tv.

…Non riconosco nulla
dalla finestra, è tutto uguale, è la polvere che vaga
dunque non c’è nient’altro dietro le nostre
vite…

(sogno è città, da un disegno di Jan Fabre), p. 14

La polvere rappresenta le forme contingenti, effimere della vita-acqua, l’elemento madre, il movimento incessante e travolgente in cui tutto finisce per disfarsi. Sotto quest’arco metaforico si inscrive l’intero libro, in particolare la parte iniziale (L’acqua non ha centro) dove si rinviene una massiccia simbologia acquea, che ritorna ossessivamente nella tessitura semantica dei testi secondo svariate modalità, creando una continua interferenza fra i richiami al dato fisico e le significazioni simboliche.

Prevale qui l’indagine intimista che ritrae uno svuotamento, un’assenza. La sezione è dominata da un senso di precarietà esistenziale che talvolta si rende tangibile specchiandosi in un’immagine inversa. Così, per esempio, l’esasperante fatica di far presa sul reale è contrapposta alla «lontananza senza tempo» delle formiche, la cui «prospettiva» consentirebbe di sentire «il fruscio che abita per poco | la vita in cui si fugge» (p. 15); o, ancora, la difficoltà di riconoscersi in una forma si riflette in una madre ricoverata nel manicomio criminale di Castiglione delle Stiviere, più vicina alla propria identità di quanto «…un volto | il mio – che appare prigioniero di un lampo dietro il vetro – | lo sia a me stesso» (p. 16).

Se la prima sezione illustra un senso generale di mancanza, la seconda (Time out) delinea con un componimento in sei tempi un momento di fuga esistenziale del soggetto («ora che scappo dico l’addio a piante non fiorite», p. 35), che si trova per puro caso a sfiorare la Genova del 2001, quella del G8. Ma gli eventi storici rimangono su uno sfondo sfilacciato e impalpabile, in scena va una vicenda personale in cui si intrecciano colpa e libertà: il senso complessivo sembra tuttavia sfuggire fra le pieghe di un discorso privato (che culmina nel richiamo al rapporto con un Dio assente e al contempo prigioniero). L’unico testo che compone e dà il titolo alla sezione successiva (Dopo la fine) sembra però portare a termine un cammino di dissoluzione e rigenerazione (e suggerire, forse, una lettura della silloge in chiave di Bildung in versi):

…e dissolvermi perfetto nella sabbia
e nascere di nuovo ragnatela o pioggia
che non arriverà, se non miracolo di un’ora

(dopo la fine), p. 45

Il diario lirico assume una chiara dimensione etico-sociale nell’ultima parte (Last minute), dove i componimenti sono significativamente intitolati con il nome della località che dà spunto alle vicende esposte. I paesaggi perdono qualsiasi riferimento personale e si caricano di un significato storico condiviso. De Santis porta in primo piano alcuni eventi luttuosi e catastrofici degli ultimi anni (o i loro anniversari, come per la morte di Pasolini o la strage di Bologna) e cerca di leggervi il significato di un destino umano comune e sempre sul punto di perdersi, come recita un passo della prosa che chiude il libro: «Poi solo un istante e cambia tutto, in mare: subito facce amate in fondo e i pesci che volano, per sempre» (p. 56). Non è un caso che qui tre liriche su sei siano rivolte ai bambini vittime di terremoti e maremoti in Molise, in Iran, in India. L’infanzia riluce infatti come il momento di maggior fragilità e si fa simbolo di una condizione propria di tutti gli uomini, chiusi in un mondo dove sovente sono «vere le vittime soltanto, verissimi gli inermi» (p. 49). E nell’ultimo componimento il poeta si rivolge direttamente a un bambino, a stabilire un dialogo impossibile:

…io finalmente mi rivedo
in te, piccolo principe relitto, immobile, vivissimo,
un testimone ed un ostacolo alla tua,
come alla nostra, caduta senza fine.

(India del Sud), p. 55

Questa volontà di instaurare un rapporto più diretto con il mondo è complicata da una lingua scostante, a volte quasi prosaicamente discorsiva, a volte elusiva e obliqua. Il tessuto figurale della raccolta, percorso da accensioni visionarie, culmina in momenti di particolare densità, in cui l’accumulazione di analogie determina oscure intersezioni fra i significati, tali da annebbiare i concetti (a ciò contribuisce anche qualche scarto dissonante nell’uso della punteggiatura). In questa trama linguistica le trasposizioni emotive spesso deformano i dati di realtà. Ma, come detto, questo linguaggio opaco, che vuole richiamare per lampi il cuore degli eventi, è controbilanciato da una tensione inversa, fortemente comunicativa. Il verso lungo prevale d’altronde in tutta la raccolta e asseconda l’esigenza profonda di spiegare, che si fa più forte – insieme a una certa tensione alla prosa, cristallizzata nel testo che chiude il libro – nell’ultima sezione dove emerge una più piena partecipazione alle vicende di un’umanità frustrata (confermata del resto da un rafforzamento della modalità allocutoria, come testimoniano gli ultimi versi trascritti).

La tensione fra il vettore rappresentativo e la valenza simbolica, su cui è costruito La polvere nell’acqua, dà talvolta la sensazione di affievolirsi. Nel complesso, tuttavia, il ritmo sostiene il dettato anche grazie a una sintassi equilibrata e a un attento ricorso alla repetitio che rafforzano la contestura fonica, rendendola più fluida ed evitando alcuni momenti di ristagno che segnavano invece il libro d’esordio di De Santis. E quando il timbro trova un’effettiva corrispondenza nella forza figurativa delle poesie, la significazione – anche se fortemente elusiva – si fa stringente.

M. De Santis, La polvere nell’acqua, Milano, Crocetti, 2012, pp. 72, € 10.