Alejandro González Iñárritu siede ormai tra i grandi di Hollywood. La definitiva consacrazione è segnata dall’Oscar per Birdman, storia di supereroi a Broadway tra mirabolanti piani-sequenza e attori in stato di grazia. Forse non il suo miglior film, ma di certo la conferma di una talento purissimo. Poi c’è Leonardo DiCaprio, l’homo sacer, il bello e bravo del cinema, colui che ha preso il posto di De Niro nel cuore di Martin Scorsese, ma che sconta ancora la colpa originale di Titanic. Da anni candidato alla vittoria dell’ambita statuetta di Hollywood e da anni sconfitto dal primo Matthew McConaughey che passa. Ora Leo ha però un’occasione unica: protagonista assoluto di un film di Iñárritu, nel ruolo di un cacciatore di pelli abbandonato nella foresta. Solo, titanico e inquadrato dall’occhio più visionario dell’ultimo decennio: stavolta non può che funzionare.
Il regista messicano è stato già in grado di resuscitare la carriera di Michael Keaton grazie a Birdman, con DiCaprio sarà più facile: basterà mettersi di fronte alla cinepresa, seguire le indicazioni e quel premio sarà suo di certo. Tutto facile, tutto perfetto.
Ma a volte è proprio la perfezione a compromettere ogni cosa.

La storia dell’arte ci insegna che non sempre il bello corrisponde al rigore, la proporzione, il compiuto. A volte l’irregolare spalanca mondi, apre infinite porte di senso, anche nel cinema – penso all’indecifrabile Lynch o a Jarmusch, per citarne alcuni -. I film di Iñárritu hanno catturato l’attenzione del mondo proprio per la loro ambiziosa costruzione: storie scompaginate, sovrapposte e infine ricomposte il cui intento era quello di rompere la convenzionale fruizione di una storia al cinema. Il prodotto finale non sempre era ineccepibile ma dotato di una forza rara – Amores Perros, 21 grammi e Biutiful su tutti – e la vittoria agli Oscar ha di fatto canonizzato Iñárritu e il suo stile, sebbene già in Birdman si avverta un’eccessiva cura per il dispositivo tecnico a scapito del lirismo.

The Revenant esce quindi con l’onere del film della conferma e la scelta del soggetto è la prima cosa a sorprendere: le leggendarie vicende di Hugh Glass, guida e cacciatore di pelli nel Nord Dakota di inizio ottocento, tra feroci tribù indiane e natura ostile: la ben nota Wilderness. Il cinema ha una vera e propria tradizione di film dedicati al tema dell’uomo solo contro una natura ostile. Basti pensare al recente Into the wild di Sean Penn, L’urlo dell’odio (The Edge) con Antony Hopkins e Alec Baldwin o 127 ore di Danny Boyle. Iñárritu non fa altro che proseguire su questo filone, recuperando il tema romantico della natura sublime senza nemmeno troppa originalità: la storia di The Revenant era già stata portata sugli schermi negli anni 70 con l’esplicito titolo Man in the Wilderness (qui il trailer), in Italia giunto con il titolo Uomo bianco, va’ col tuo dio!. È chiaro quindi che Iñárritu abbia concentrato gli sforzi altrove. The Revenant è infatti un film-affresco, che si presenta, dalle prime battute, come un’opera dal sorprendente tasso di coinvolgimento visivo. Con uso di gru, per ottenere immagini telescopiche, Steadicam e cineprese manuali, il regista getta lo spettatore in mezzo alla scena, tra frecce sibilanti e colpi di fucile. Senza uso di tecnologie 3d e sfruttando unicamente la luce naturale, l’immersione nella finzione è completa. L’effetto è però sterile, simile a quello che si proverebbe indossando un Oculus Rift o un qualsiasi casco che simula realtà virtuale: credi al mondo che vedi, ma non vi partecipi.

Le maestranze rischiano di rubare la scena alla storia stessa: Emmanuel Lubezki firma l’ennesima fotografia da premio Oscar, restituendo tutta l’aspra bellezza di un nord-ovest americano ancora incontaminato. Gli attori sono impeccabili e tutti ben posizionati sulla x tracciata sul terreno da  Iñárritu che ruota, s’alza, zooma e s’appiattisce con la cinepresa. DiCaprio, nel ruolo del protagonista Hugh Glass, si esibisce in una performance quasi atletica: per una buona parte del film lo vediamo strisciare. Letteralmente. Non è il primo film in cui si esibisce in una performance di questo genere; per molti la scena in The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese in cui DiCaprio tenta di raggiungere la sua Lamborghini dopo aver ingerito del quaalude, valeva da sola l’Oscar. Ma in The Revenant non si limita a strisciare, qui la gamma di smorfie farebbe impallidire un attore del cinema espressionista tedesco. DiCaprio digrigna, sputa, sbava, e all’occorrenza mangia carne cruda. Una prova muscolare che però trascura proprio l’unico elemento essenziale per rendere una performance partecipabile: la caratterizzazione. Hugh Glass risulta un personaggio piatto, svuotato di ogni personalità ancora prima di perdere tutto a causa di un orso e di compagni egoisti. Non ne conosciamo i sentimenti, ma solo la spaventosa voglia di sopravvivere alimentata dal desiderio di vendetta. Glass resta quindi un personaggio  “cavo”, al contrario del villain Fitzgerald, interpretato da Tom Hardy, che si conferma attore camaleontico, in grado di fare luce su un personaggio con pochi essenziali tratti.

Il film,dopo 15 minuti iniziali al fulmicotone, mostra la pochezza della trama e procede stanco mentre Iñárritu indugia fin troppo su albe che sanno di National Geographic. Il regista sembra tentare continuamente di far dialogare uomo e natura, ma l’unico risultato è restituirci l’enorme sofferenza patita dal protagonista. Siamo lontani dallo sguardo divino che ha saputo imprimere Terrence Malick in Tree of Life – altro film in cui ritorna il tema di una Natura infinitamente grande e potente – nonostante tecnicamente possa risultare persino superiore all’opera del regista americano.
La sensazione che si avverte alla fine del film è quella di aver assistito a un colossale esercizio di stile, in cui spicca esclusivamente un orso, guest star da action movie che irrompe brutale sulla scena, tentando di ridare linfa al film con il sacrificio più antico: quello del tragico eroe Leonardo DiCaprio.