L’uomo che non voleva piangere, uscito per Iperborea nel gennaio del 2025 con traduzione e postfazione di Fulvio Ferrari, raccoglie sedici racconti di Stig Dagerman dati alle stampe in Svezia tra il 1941 e il 1953 e ancora inediti in Italia. Nove di essi fanno parte dell’unica raccolta di racconti pubblicata in vita dallo scrittore, nel 1947, e solo parzialmente tradotta nella nostra lingua (I giochi della notte, Iperborea 1996); i restanti sette sono usciti su riviste e giornali e, in un caso, in una raccolta a firma di diversi autori.

Il giornalista e attivista anarchico svedese, morto suicida a soli trentuno anni, è ormai considerato un classico del Novecento; la sua produzione letteraria, poetica e teatrale (citiamo ad esempio, sempre pubblicati in Italia da Iperborea, Autunno tedesco, La politica dell’impossibile, Il serpente e I giochi della notte) sorprende non solo per originalità stilistica e profondità di indagine psicologica, ma anche per la varietà di esiti, proprio come testimonia L’uomo che non voleva piangere. L’ampio arco cronologico di stesura (soprattutto se si considera che Dagerman nel 1941 era appena diciottenne) e le differenti collocazioni editoriali offrono a chi legge racconti ora più realistici ora più apertamente simbolico-visionari; anche le parentele e i debiti verso altri grandi scrittori del Novecento (citiamo almeno Friedrich Dürrenmatt, William Faulkner e Franz Kafka) sono talvolta sotterranei, talaltra più esibiti (basti pensare che uno dei titoli è Il processo). Tuttavia i sedici testi sono accomunati da una prospettiva coerente e lucidissima: quella di un autore capace di narrare con maestria esistenze messe ai margini da una certa idea di modernità, che al contrario premia gli individui coerenti con i suoi meccanismi: economico-produttivi, certo, ma anche sociali e addirittura morali.

Emblematico è in questo senso il racconto più lungo della raccolta, e forse il più struggente: Dov’è il mio maglione islandese? Il protagonista, Knut, è uno spazzino disadattato, incline all’alcol e malvisto dai familiari, che nemmeno alla vigilia del funerale del padre sa trattenersi dal bere oltremisura. Rincasato male in arnese, viene assistito dalla sorella Lydia, che lo aiuta a spogliarsi e a mettersi a letto. Lì, in preda alla sbornia, Knut ricorda il maglione del titolo, regalo del padre, e in uno slancio di affettuosità desidera averlo con sé come ultimo, vivido ricordo del genitore. Allo stesso tempo, lo spazzino riporta alla mente il giorno del funerale della madre, dove una volta di più era ubriaco. E Dagerman riesce a mantenersi in un prodigioso equilibrio, mostrandoci non solo gli abissi di un derelitto, ma anche l’umanità che nonostante tutto palpita ancora in lui:

E mentre sprofondo sempre di più, penso che domani sarà la stessa cosa. Ma non proprio la stessa. Perché non c’è più papà a portarmi in camera e a parlarmi come un essere umano. Non c’è più nessuno che non sia qui per imbrogliarmi e che non mi voglia male. Domani sarò solo. E non c’è da meravigliarsi se poi uno, sdraiato in camera e svestito dalla propria sorella, si mette a piangere e sprofonda in un sonno da ubriaco. E non c’è da meravigliarsi se uno vorrebbe il suo vecchio maglione islandese da accarezzare sotto le coperte (p. 121).

Altrove i reietti di Dagerman precipitano in situazioni grottesche, dove paradossalmente è la loro diversità – e più precisamente l’incapacità a uniformarsi all’assurdità circostante – a essere interpretata come un’anomalia. In atmosfere che quasi inevitabilmente viene da definire kafkiane, essi si trovano al cospetto di un potere informe, ottuso e coercitivo, che pretende di sottomettere l’individuo per il puro gusto di irriderlo e sperderlo. Come nel racconto che dà il titolo alla raccolta, il cui protagonista – il signor Storm – non riesce a piangere alla notizia della morte di Lei, che con ogni evidenza è una personalità di spicco benvoluta da tutti. Il Capo dell’azienda dove lavora Storm prima si limita a esecrarne l’insensibilità, poi passa all’azione:

Siccome la cosa più opportuna da tutti i punti di vista è che lei pianga, dovrebbe farlo. Non siamo implacabili nella nostra azienda. Non pretendiamo da lei un dolore violento. Quello che desideriamo è che lei sparga qualche lacrima, che pianga anche solo per un breve istante in presenza di testimoni. Passerà il pomeriggio da solo con il signor Jockum, nella stanza dei rappresentanti che al momento è libera. Non appena le lacrime scenderanno, il signor Jockum me lo comunicherà al citofono e io verrò a verificare insieme al capufficio (p. 16).

In altri racconti la critica al potere assume connotazioni politiche più evidenti, che fanno pensare a opere come Autunno tedesco o Il serpente: è il caso de Il condannato a morte, dove un uomo condannato ingiustamente viene all’improvviso assolto, e l’opinione pubblica che in un primo momento gli era ostile ribalta come nulla fosse il giudizio, al punto che lo stesso condannato si ribella a tanta leggerezza: «Io ormai l’avevo accettato. Non si può essere condannati a morte alla mattina e condannati a vivere la sera. Non è possibile scambiare l’esistenza sicura del condannato a morte con quella incerta del condannato a vivere con la stessa facilità con cui ci si cambia d’abito» (p. 219).

Altrove l’assurdità che inghiotte gli esseri umani è slegata da ogni dinamica sociale, sembra prescindere da qualunque logica ed essere condizione innata, come possiamo leggere nell’attacco di Mio figlio fuma una pipa di schiuma: «Certo, è vero che mio figlio fuma una pipa di schiuma, ma non capisco perché questo debba essere così riprovevole da farmi ritrovare senza amici, senza confidenti, addirittura senza inquilini. Questa solitudine che all’improvviso mi avvolge tutto come un fumo acre sarebbe la conseguenza di un’abitudine relativamente così innocente?» (p. 189).

In un certo senso accoglie questa domanda la protagonista di un altro memorabile racconto, Apri la porta, Rickard!, che mentre il marito fa baldoria con alcuni amici suoi ospiti, si chiude in camera da letto alla disperata ricerca di attenzioni: «Quanto devo rendermi sola perché qualcuno si accorga finalmente della mia solitudine e mi salvi? E butti giù la porta?» (p. 134).

Viene allora da pensare, riflettendo sulla sua intera e proteiforme produzione letteraria, che Stig Dagerman abbia in fondo scritto una sola opera, declinando in vicende pur assai diverse tra loro per stile e ambientazione la tremenda solitudine dei contemporanei, persi in un mondo senza senso né direzione ma ancora tenacemente ancorati a ciò che, per citare il titolo di un suo celebre volume, potremmo chiamare il nostro bisogno di consolazione.


Stig Dagerman, L’uomo che non voleva piangere e altri racconti, traduzione di Fulvio Ferrari, Milano, Iperborea 2025, € 19, 320 pp.