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#Mappe. Percorrere Parma

Parma è antipatica a un primo sguardo, respingente, si fa odiare volentieri: altezzosa, provinciale, arrogante e ricca. Nel corso del tempo è l’immagine più comune che mi è capitato di leggere riflessa negli occhi di chi è venuto da fuori: studenti, lavoratori, stranieri, italiani, del sud o sopra il Po, poco importa. L’immagine che Parma dà a chi vi arriva è quella che ti guarda dall’alto in basso mentre sorseggia l’aperitivo nei locali di via Farini, una ricca e bella signora bionda che fa finta di non conoscerti per non prendersi la briga di farti un saluto.
Onestamente mi ha sempre irritato quest’immagine, perché in effetti ho avuto la fortuna di conoscere un’altra Parma rispetto a quella di copertina, perché questa è una città bifronte, come immagino tante se non tutte, di contraddizioni stridenti, di conflitti a volte inconciliabili.
Questo in tanti anni ho provato a ribattere agli studenti fuori sede o a chi a Parma ci è arrivato a lavorare: a tutti quelli che si sono sentiti respinti ho cercato di spiegargli la strada per abbracciarla e farsi abbracciare, di non fermarsi alla vetrina, di avere a curiosità di esplorare anche il retro.


Se arrivi a Parma in treno ed esci dalla stazione in Piazzale dalla Chiesa, la prima cosa che si vede è la statua di un esploratore in abito coloniale mentre si erge altezzoso su un cocuzzolo di pietre puntando lo sguardo verso nord. Ai suoi lati, come atterriti e sconfitti stanno due indigeni seminudi a completare il trittico in bronzo che emerge innaturalmente da una specie di vasca di cemento che dovrebbe contenere acqua e invece raccoglie solo qualche rifiuto. L’invasione del cemento ha significativamente dissecato l’acqua ma ha risparmiato l’esploratore parmigiano, il cui monumento è rimasto nella stessa piazza dove fu posto nel 1907 dieci anni dopo la sua morte, avvenuta in Africa, ovviamente. A Parma quasi nessuno sa chi è Bottego, ma in realtà è stato forse il più importante esploratore del periodo coloniale, di certo fu il più feroce e spietato. Descritto come un eroe africano da numerosi apologeti, per lo più locali, Bottego è stato uno dei protagonisti della tragica epopea coloniale italiana dell’Ottocento, finita rovinosamente ad Adua e di cui la sua morte è un effetto collaterale. Dai diari dei militari che lo accompagnarono in quelle spedizioni si evince che più che la sete di conoscenza e la curiosità erano la conquista e l’arricchimento ad animare le sue ambizioni esplorative. Dopo più di un secolo Bottego è ancora lì, l’ultima marea di cemento gli ha solo cambiato la prospettiva, non guarda più a est ma a nord. Nessuno se ne ricorda più, nonostante dia il nome a una scuola, a un viale e a un museo in città, il nostro è sconosciuto, come se una nebbia lo avvolgesse e non permettesse a nessuno di accorgersi realmente di lui, nonostante sia letteralmente sotto gli occhi di tutti. Solo un destino ironico si ricorda di lui, lasciandolo in perenne compagnia di quegli africani che tentò invano di sottomettere. Ora è costretto a vederseli sotto il naso ogni giorno, dal suo piedistallo, forse chiamati dai due africani, che simboleggiano i due fiumi che ha esplorato/conquistato, la piccola vendetta dei suoi prigionieri. Oltrepassiamo lo sguardo smarrito di Bottego e proseguiamo verso sud.
Passata una serie di semafori nel traffico arrivi in via Garibaldi, una strada sospesa tra il San Leonardo, il vecchio quartiere industriale a nord della stazione e oggi al centro di campagne elettorali giocate su poveri e migranti, e il salotto buono della città. Ci stiamo dirigendo nel centro storico da cartolina, sulla strada troveremo la Pilotta e il Teatro Regio.
La Pilotta è un complesso monumentale costruito dai Farnese, sede della Biblioteca Palatina e del Teatro Farnese. L’atmosfera è quella da bomboniera ma sotto il trucco sono ancora visibili alcune vecchie ferite. Nel maggio 1944 infatti il complesso della Pilotta venne bombardato, danneggiando gravemente il Teatro Farnese, bruciando circa 15 mila volumi della Biblioteca Palatina e causando crolli parziali dell’ala occidentale e meridionale del complesso. Il Teatro ligneo fu ricostruito, mentre esternamente l’architetto Guido Canali optò per un restauro innovativo, che ha cercato di valorizzare quella ferita senza nasconderla, ancora oggi sono visibili le tracce di quello sfregio.

Una lezione purtroppo non interiorizzata dalla città, che nelle sue scelte urbanistiche più recenti ha optato per un trucco pesante e stucchevole, una colata di cemento sotto cui si è cercato di sotterrare tutto. Intorno alla Pilotta c’è un grande prato, l’ultimo intervento urbanistico significativo in città, e su quel prato c’è un altra traccia del periodo della guerra: il monumento al Partigiano, all’ombra di un grande cedro del libano. La Resistenza al fascismo è una parte importante nell’identità della città sia prima, sia dopo l’occupazione nazista nel biennio ‘43-45. La statua infatti fu oggetto di un attentato fascista nel 1961, quella che vediamo coricata dietro il partigiano vittorioso è una copia mentre l’originale, squarciato da una bomba, è al cimitero monumentale della città.
Se proseguiamo dritto su via Garibaldi si arriva di fronte al Teatro Regio, il tempio dell’Opera parmigiana, un luogo simbolo della città e del culto dell’onnipresente Giuseppe Verdi, un’icona una volta oggetto di un vero e proprio culto popolare e oggi plastificata a uso e consumo dei turisti. Negli anni d’oro il Teatro era un luogo temuto dai cantanti, il suo loggione, che ospitava il popolo del borgo ded’la da l’acua (a ovest del torrente Parma) era spietato. Il Teatro è stato uno dei rari luoghi di incontro tra due parti inconciliabili della città, quella popolare dell’Oltretorrente e quella borghese della città storica. Una contraddizione che nel tempo è sfumata anche se ha lasciato segni evidenti ancora oggi, proseguendo lo scopriremo, e vedremo che la pretenziosa signora con la puzza sotto al naso è solo una faccia di una città bifronte.
Via Garibaldi finisce su via Mazzini, di fatto siamo sulla via Emilia, la strada che taglia diagonalmente l’Emilia-Romagna. Qui la guida turistica vi dirà di andare a sinistra, verso est, dove troverete i principali monumenti, il Duomo, il Battistero, la Basilica di San Giovanni, insomma i luoghi “da vedere”, ma non siamo qui per questo, siamo qui per provare a scoprire un volto diverso. E allora andremo verso ovest, in salita sotto i portici di via Mazzini e ci dirigeremo verso il Ponte di mezzo, per andare in Oltretorrente, il vecchio quartiere popolare della città. Di sfuggita sulla destra potete dare un’occhiata a una vittima eccellente della marea di cemento degli anni duemila, il mercato della Ghiaia. La copertura in vetro e acciaio vi farà pensare a una pensilina degli autobus, in realtà si tratta di un maldestro e costoso intervento su quello che è stato per decenni il mercato popolare della città ma che fu considerato dalla giunta di centro-destra poco europeo (sic!): Parma doveva tornare ai fasti di capitale europea, come al tempo del Ducato. A chi non è di Parma tutto questo potrebbe suonare estremamente ridicolo ma è stato quello che effettivamente è stato venduto e che ha funzionato. Oggi la Ghiaia è un luogo triste, assediato dalle telecamere di Rete 4 alla ricerca delle baby gang e del degrado urbano che chiama esercito, legge e ordine. Il centro di Parma è sempre meno un luogo da vivere, è un luogo da fruire, da vendere ai turisti, diviso tra street food e affitti brevi.


Il Ponte di Mezzo è il nome che è stato dato nel dopoguerra al ponte DUX, che ha sostituito il vecchio ponte a schiena d’asino, che impediva anche lo sguardo tra le due parti della città, tra le due città. Il ponte è uno dei tanti interventi del piccone risanatore fascista che ha cercato di vendicarsi dell’affronto del piccolo quartiere popolare che si è sollevato in armi e per cinque giorni ha tenuto vittoriosamente testa alle migliaia di camicie nere guidate dal ras di Ferrara, Italo Balbo. Il reticolo di strade contorte fu un luogo ideale per la resistenza degli arditi del popolo organizzati da Guido Picelli e il fascismo al potere demolì interi isolati aprendo strade dritte e ampie e deportando gli abitanti ai margini della città, sostituendoli con persone più ricche e tranquille.
La storia di quegli abitanti sradicati dallo storico quartiere popolare meriterebbe un racconto a parte, quello dei Capannoni. Ma ci porterebbe forse troppo lontano e noi invece dobbiamo guardarci intorno. Appena arrivati sull’altra sponda ci accoglie quello che i parmigiani chiamano irrispettosamente “l’inculato”. Si tratta di uno dei pochi monumenti fascisti rimasti nel quartiere, sebbene opportunamente scalpellato nei punti giusti, dedicato a Filippo Corridoni, leader sindacalista rivoluzionario marchigiano, interventista e volontario durante la prima guerra mondiale, immortalato nel bronzo nel momento in cui un proiettile lo colpisce. La statua costituisce un tentativo del regime di fare la pace con il terribile popolo dei borghi, una sorta di antenato comune, sebbene la camera del lavoro corridoniana di Parma si fosse rivelata impermeabile al fascismo.

Oggi la statua di Corridoni è grottescamente incapsulata in fioriere di legno di recente costruzione, per impedire il sostare di un gruppo di migranti somali, la comunità di MogaBixio, ed infatti sulla sinistra si apre una delle due arterie principali dell’Oltretorrente, via Bixio appunto, che tortuosa si insinua tra i palazzi verso su, mentre via D’Azeglio prosegue sul tracciato della via Emilia verso ovest. Piazzale Corridoni è un angolo tra queste due strade e qui si respira un’atmosfera decisamente diversa, cambiano i colori, gli odori e persino le facce che incontri per strada. L’Oltretorrente ospita sei scuole superiori e una sede universitaria, è uno dei due quartieri con la più alta concentrazione di stranieri della città, ingredienti che rendono il quartiere decisamente più speziato del compassato giallo Parma che ci siamo lasciati alle spalle. Proseguiamo per via D’Azeglio stando sul lato sinistro della strada, dove si affaccia la mole della Chiesa dell’Annunziata, sorta di cattedrale plebea della città, dietro cui si apre il Piazzale dedicato alle Barricate, dove si svolge un mercato molto frequentato di prodotti a chilometro zero. Anche molto caro, in realtà. Segno che l’Oltretorrente è un quartiere che resiste all’assedio di una gentrification sicuramente più gentile del piccone risanatore fascista che l’ha sfregiato, ma molto più determinato e subdolo.
Da tempi immemori chi si stabilisce a Parma da fuori trova casa qui, da sempre si sono stratificate qui ere di migrazioni, dalle campagne della provincia, dal sud Italia e dal sud del mondo. Lo si sente chiaramente nei suoni delle voci, qui può capitare di sentire parlare ancora il dialetto più schietto, accanto all’arabo e a cadenze pugliesi e siciliane. Ci addentriamo da Piazzale delle Barricate in via Imbriani che punta dritto a un grande piazzale, realizzato durante gli sventramenti del periodo fascista, ma che oggi è proprio piazzale Picelli: proprio sotto i suoi tigli che si fanno largo nel selciato c’è un busto del comandante degli arditi del popolo, che dopo la vittoria sulle barricate di Parma con le brigate internazionali per combattere il fascismo in Spagna, morì in quella guerra nel 1937.


Qui e nei borghi limitrofi si trovano locali, birrerie, associazioni, enolibrerie, macellerie halal, market indiani. In meno di un chilometro quadrato l’Oltretorrente conserva una biodiversità sociale che non esiste nella monocoltura turistica della Parma ufficiale. La primavera è la stagione migliore per vederla, verso sera si può sentire il profumo dei tigli, che ti fa dimenticare che siamo in pianura padana, con l’aria più inquinata d’Europa, potremmo sederci ai tavolini di un locale in piazzale Inzani, una piazza a cul de sac chiusa tra via D’Azeglio e via Imbriani, per avere la piacevole sensazione di essere molto distante dai dehors chiusi di via Farini, ti può persino sembrare di non essere a Parma, e a volte per noi parmigiani è davvero un toccasana. Ma per allontanarsi davvero occorre fare un centinaio di metri ancora e da Piazzale Picelli risalire verso via D’Azeglio percorrendo borgo Bernabei. Sulla sinistra troverete l’insegna giallo fosforescente del circolo Arci Pedale Veloce, se la porta è aperta vedrete un corridoio che vi condurrà in uno di quei circoli in cui potrete farvi un bicchiere senza farvi spennare, se siete coraggiosi potrete anche ordinare il mitico macchiato del Pedale.


Alle pareti Verdi e Picelli, qualche gagliardetto del Parma di quando vinceva le coppe europee e poteva far tremare Milano e Torino, calcetto, biliardo e un cortiletto interno che non ti aspetti. Attenzione, non stiamo facendo un safari alla ricerca di un tempo perduto, è un luogo vivo, questo, che vede anziani, giovani e a volte perfino bambini condividere la torta fritta, la cucina curda o quella barese, perché la lezione imparata è che la diversità è l’arma migliore per non scomparire.