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L’architettura invisibile della realtà. Su Le città e i giorni di Filippo D’Angelo

Che Filippo D’Angelo tenga i piedi nell’ipermoderno e la testa nella più “classica” modernità letteraria (in particolare l’Ottocento francese) lo suggerivano La fine dell’altro mondo, esordio del 2012, e l’attività di studioso e traduttore su voci come Sade e Huysmans; lo conferma il secondo romanzo Le città e i giorni, giunto dopo dodici anni di movimentato silenzio. Legata a un’idea per certi versi desueta di letteratura, perché esclusiva e totalizzante, è la cifra utopica del romanzo, che racconta un breve tratto di vita adulta di due fratelli genovesi nel presente dell’Italia pre-Expo 2015 (Maurizio, architetto a Milano; Emanuele, il minore, volontario nella Repubblica Centrafricana), ma che su un piano nascosto disegna le loro parabole come partite perse in partenza, che non di meno vanno giocate per ridurre lo sfacelo del mondo a un disegno tollerabile. Già ossessione tematica di La fine dell’altro mondo (attraverso la quête di un inedito seicentesco di Cyrano di Bergerac incentrato su una curiosa società lunare, che Ludovico, il dottorando protagonista, rinviene e poi smarrisce), l’utopia si annida qui nell’insistenza sull’architettura: la forma del sapere che sopra le altre presuppone il non-luogo, e propone, più del romanzo, l’alternativa integrale «di un linguaggio semplice che liberi dal peso abrasivo della Storia». Come un parassita, nelle teste dei due fratelli s’insinua la vocazione architettonica: dapprima in Maurizio, che sogna di dissotterrare e riqualificare un Naviglio milanese a prezzo del suo crollo umano e professionale; poi nel volontariato di Emanuele, al quale, camminando per Parigi, sembra finalmente di intuire nei luoghi urbani l’abbozzo di uno scampo esistenziale, «come se la minaccia del nulla evocata dallo scorrere dell’acqua potesse essere esorcizzata dai prospetti di architetture celebrate per secoli o millenni». Non solo per questo motivo simmetrico, in più punti del libro si ha la curiosa impressione di venire a conoscenza, piuttosto che della storia di due fratelli (fino alle ultime pagine, fra loro non si dà alcuna interazione), di uno stesso destino che si compie due volte; una moltiplicazione degli stessi incontri, attributi e dilemmi, ma in geografie e occasioni diverse. Se il rapporto tra fratelli serve – insegnano I fratelli Karamazov – a ragionare sulla scissione feconda del doppio senza ricorrere al fantastico, e offre la strada di una registrazione non meccanica dell’io (guardando se stessi attraverso gli occhi di un quasi-identico in carne e ossa), anche Le città e i giorni sdoppia i suoi eroi in un sistema di riflessi di voluta imperfezione, con una «sfasatura temporale» sottolineata nella Nota dell’autore.

Il desiderio utopico si concretizza anche su un livello meno atteso: quello stilistico. La quarta di copertina presenta una metafora scacchistica della vita come gioco in cui al massimo si può pareggiare, non vincere. Sin da questa citazione si prefigura l’intricata rete di tropi e spostamenti semantici che regge Le città e i giorni, in nome di una concezione idiosincratica della metafora che si rifà a Proust e all’idea di stile come qualità della visione. In un passo del Tempo ritrovato Proust nota che la metafora, facendosi largo in ciò che siamo abituati a chiamare realtà (nei termini del narratore, «un certo rapporto fra quelle sensazioni e i ricordi che ci circondano simultaneamente»), stabilisce un nuovo rapporto di verità fra le sensazioni, liberandole dalla loro essenza comune e sottraendole alla contingenza del tempo. Scegliendo a caso due fra i tanti pesci della rete tesa in Le città e i giorni, troviamo giri di frase come, parlando di un risveglio equatoriale: «L’umidore della notte di pioggia è come la vasca di una camera oscura: le lenzuola si trasformano in una sindone, trattengono l’impronta del corpo per impedirgli di reincarnarsi altrove, difendendolo dal sortilegio dell’ubiquità». Di una conversazione con una donna sconosciuta al bar, si legge: «lei lo mette a suo agio esibendo interesse per frasi banali e riverberando come un prisma i moti dei suoi occhi, delle sue mani, della sua bocca». Ovunque, il segreto sta nell’uso insistito delle metafore non convenzionali, che ribattezza le situazioni più banali possibili al centro dei libri di D’Angelo: progetti, tradimenti, separazioni, scatti e arresti di carriera, tutto schiacciato sul punto di vista della classe media espansa che coincide quasi alla perfezione con chi produce romanzi oggi. Quasi D’Angelo ci suggerisse che solo attraverso un metaplasmo mentale il mondo può non solo apparirci, ma diventare diverso da ciò che, tautologicamente, è. Perciò la metafora acquista utilità nel momento in cui serve a innescare la tensione verso un altro mondo, mentale, autentico a differenza di quello che ci è inflitto.

Più di dieci anni fa sul «Corriere della Sera» Daniele Giglioli aveva parlato per La fine dell’altro mondo di nichilismo «monocromo, ossessivo, convinto delle proprie ragioni». La molla delle azioni di Ludovico, dietro la realizzazione accademica, era in effetti il sogno di un mondo diverso, votato al piacere regressivo e alla deresponsabilizzazione, che si coagula nel desiderio di un ricongiungimento impossibile con ciò che storia e natura hanno infranto nell’unità del soggetto. Questo desiderio di tornare a un’unità perduta passa, soprattutto, per l’incesto solo sfiorato da Ludovico con la sorella Umberta. E non a caso la scoperta finale dell’impossibilità dell’incesto arrivava subito dopo la repressione violenta dei movimenti antagonisti al G8 di Genova, giusto mentre fratello e sorella guardano, in diretta, le Torri Gemelle crollare assieme al Novecento. Su un piano squisitamente stilistico, è dubbio tuttavia che la tesi di un’attitudine nichilista dell’autore calzi anche a questo romanzo. In Le città e i giorni resta vivo e inseguito quel desiderio di armonia ricomposta che l’incesto in La fine dell’altro mondo suggeriva con più sfrontatezza. Tuttavia, il pre-finale del nuovo libro ospita quanto dodici anni fa mancava, ossia il passaggio incompleto alla maturità e alla qualità bifronte che contraddistingue questa soglia: la resa ragionata, che illustra che non c’è rimedio al crescere, anche se vuol dire restare soli. Con le parole di Maurizio, che riflette in presa diretta sulla fine del suo matrimonio con la moglie argentina: «La coppia era l’eterno ritorno a un’infanzia senza più innocenza, a un passato senza più avvenire».

Il transito all’età adulta di Maurizio ed Emanuele è sottolineato per contrasto dal ritratto di molti personaggi maschili di contorno: di morbida, infantile maniacalità, affetti da qualche convincimento utile per difendere la propria esistenza che li porta ad attaccare in maniera scomposta bersagli immaginari. Su di loro svetta il partner di studio di Maurizio, Ariel, figlio di una archistar israeliana e per questo oppresso, fino all’autodistruzione alcolica, da un terrore di magnitudo biblica, analogo a quello di Isacco minacciato dalla volontà schiacciante del padre-patriarca. Ma qualche traccia di crescita è disseminata qua e là, oculatamente. Su tutte, con uno scarto secco dal precedente romanzo, l’esperienza della paternità in Maurizio: i colloqui muti con la figlia neonata sono le sue sole tregue psicologiche.

Contraltare a questo insieme sparso di elementi, che potremmo leggere come una rigorosa ricerca di ordine imposto al mondo dall’immaginazione artistica, preme far risaltare in Le città e i giorni un elemento di segno opposto, e più difficile a individuarsi: un certo nebuloso ma – se così si può dire – strutturale disordine del libro, che lo allontana di parecchio dalla media di ciò che si legge (chissà se in bene o in male). Mi riferisco all’indulgenza verso la casualità. Si respira in Le città e i giorni la strana sicurezza che si possa raccontare una storia senza indirizzarla troppo in gabbie di senso. Non s’intende dare l’impressione, errata, che il libro di D’Angelo sia oscuro, ellittico, per pochi – all’inverso, l’autore vede queste scelte come scorciatoie e si pone come principii sintesi e chiarezza, soprattutto nel momento in cui affronta certi ambiti perigliosi senza intrusioni intellettualizzanti (sessualità, razzismo, violenza tribale e scientifica, controversie familiari e di genere).

Se essere naturali, nella vita fuori dalla pagina, è lapalissiano, riprodurre nella convenzione narrativa una perfetta condizione di naturalità, con i suoi punti morti e le sue coincidenze, è un risultato impossibile. Congedandosi dal romanzo, alla fine di Lunario del paradiso l’alter ego di Gianni Celati lo (dis)imparava a sue spese («La vita è una cosa che succede, non si sa cosa sia, è soltanto uno stato della mente»). L’impressione, però, è che D’Angelo insegua questa naturalità con una tenacia in via d’estinzione, sapendo segretamente che a rendere insostituibile il romanzo moderno, strumento principe della rappresentazione della vita comune, è la capacità di restituire l’aspetto inspiegato e caotico dell’esistenza. Nel concreto: ignoriamo tutto della madre di Maurizio ed Emanuele, anche se la sua scomparsa precoce per un cancro ha forse indirizzato il loro distacco; che sorte abbia Jeanne, l’abulica ragazza che tormenta la coscienza imbiancata di Emanuele, non lo scopriremo; che cosa significhi l’enigmatico finale su un incidente d’infanzia di Maurizio ed Emanuele, non è chiaro. Un altro scrittore avrebbe illustrato l’episodio conclusivo coi colori traumatici di una spiegazione retrospettiva. D’Angelo non soddisfa questo bisogno fisiologico di spiegazioni, limitandosi a instillare in noi lettori il sospetto di un parallelo (ma tutto nostro, arbitrario, vuoto) fra ciò che avviene nella diabolica coda e alcuni eventi del libro.

C’è una proporzionalità diretta fra quanto un romanziere si fida del suo oggetto di lavoro e quanto potere assegna alle capacità ermeneutiche dei lettori. Le città e i giorni, al di là di quello che se ne possa pensare, irradia una fiducia molto alta: il che, può darsi, non aiuterà il suo successo. Sempre meno cartacei, i romanzi di oggi sono in media ben inquadrabili nella forma interiore di castelli di carte a vario tasso di complicazione, nei quali tout se tient nel senso più pratico e compensativo che si possa attribuire a questa espressione. È il ritorno farsesco e immemore di una vecchia nozione di totalità, tale per cui ogni pezzo, ogni figura, caratterizzazione, conflitto, visione sta dove sta perché deve reggere l’ultimo piano di carte: la tesi d’arrivo, il sugo della storia. Le città e i giorni richiama invece l’immagine mentale di un castello di carte crollato, con i pezzi sparsi per terra davanti al nostro sguardo. Resta il compito di ricostruire con l’occhio della mente uno fra tanti possibili castelli che, intuiamo, prima del crollo potevano esistere. E mentre si cerca di compiere quest’operazione fallimentare, si fa strada anche in noi una vocazione architettonica, insinuantemente.


Filippo D’Angelo, Le città e i giorni, nottetempo, Milano 2024, 336 pp. 18,00€