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Le schegge di Bret Easton Ellis. Un elogio del nulla scritto da chi ha tutto

Le schegge è un romanzo che fa grande sfoggio della propria colonna sonora: degli artisti e delle canzoni che i suoi personaggi ascoltano nella propria cameretta, ai party in piscina, e soprattutto mentre guidano le proprie auto di lusso per le vie patinate e le strade panoramiche della Los Angeles del 1981. Una colonna sonora, quella riportata minuziosamente da Bret Easton Ellis, incentrata su new wave e synthpop: generi orecchiabili e altezzosi, che dal punk avevano preso il ritmo e la semplicità mettendo però tendenzialmente da parte i suoi aspetti meno appetibili, il suo spirito trasgressivo ed esagerato. Da Blondie agli Ultravox, dai Cars agli Icehouse, la musica che segna ogni passaggio de Le schegge è una musica accattivante e godibile, a tratti atmosferica ma raramente cupa, intellettuale in modo sbarazzino e autoironico.

Una musica insieme seria e frivola, come l’adolescenza privilegiata dei protagonisti diciassettenni del romanzo più recente di Bret Easton Ellis, pubblicato in Italia da Einaudi e tradotto da Giuseppe Culicchia. Ragazzi ultra-benestanti, figli di professionisti importanti e ben connessi, e tutti membri di un’esclusiva scuola privata, la Buckley School. Giovani così radicati nel proprio mondo di lusso sfrenato da darlo per ovvio e scontato: alle feste in piscina incontrano senza battere ciglio i Duran Duran, Jane Fonda, e innumerevoli altri divi del cinema e della musica. La loro è un’adolescenza fatta di eccessi, di cocaina e champagne e grande promiscuità, senza però che questo stile di vita sia accompagnato da alcun senso di trasgressione. (I loro vizi effettivamente impallidiscono di fronte a quelli dei loro genitori, descritti alla meglio come assenteisti, alla peggio come squilibrati, tossici e predatori). I ragazzi de Le schegge sono bravi ragazzi, o meglio ragazzi bene. Nonostante quanto siano fatti, non si scordano mai di aggiungere por favor quando chiedono alla cameriera di preparar loro la colazione. Una lunga scena nel cuore del romanzo è dedicata al grande impegno con cui cercano di preparare un bel carro allegorico per la festa di inizio anno della Buckley.

Ellis utilizza spesso il termine impero per caratterizzare lo stile di vita dei suoi personaggi. Parola decisamente adatta, visto che questa quotidianità fatta di privilegi indiscussi ricorda un mondo antico, feudale, come l’ancien regime postmoderno della Maria Antonietta di Sofia Coppola, film arricchito anch’esso da una colonna sonora prettamente new wave e “adolescenziale”. Ellis non pare tuttavia interessato a muovere oltre le descrizioni o a offrire qualunque tipo di commento, positivo o negativo, su questo mondo. Al romanzo non interessa chiedersi quali siano i costi o i benefici di questo impero, chi lo comandi o chi sia da esso oppresso: semplicemente l’impero esiste, proprio come il country club in cui i ragazzi trascorrono un pomeriggio è, semplicemente, razzista, inaccessibile ad afroamericani o ebrei. È così che andavano (andavano?) le cose.

Questa stessa mancanza di interesse nell’indagare le contraddizioni in cui il romanzo è immerso ricompare negli altri temi che si ripetono attraverso l’opera: la scoperta, da parte del giovane protagonista, della solitudine e del senso di vuoto che seguono ai suoi momenti di piacere; l’abisso che separa i suoi sentimenti, spesso non corrisposti, da quelli dei suoi amici; la sua ammirazione per il modo blasé e anestetizzato con cui certi suoi coetanei paiono affrontare la vita. Forse l’unico elemento sviscerato a fondo attraverso le settecento pagine del romanzo è il desiderio adolescenziale del protagonista, la nebulosità della sua attrazione per i suoi compagni, gli adulti nella sua vita, e i divi del cinema. Un desiderio associato alla scoperta, mai esplicitamente ammessa, della propria omosessualità. Anche qui però, dove il romanzo dimostra di più il suo coraggio e il suo impegno ad andare oltre la superficie, l’impeto rimane perlopiù descrittivo, limitandosi ad esplorare in ogni loro anfratto i pensieri e desideri più segreti di Bret, spesso come preludio a scene di sesso dettagliate se non quasi cliniche.

Il nome del protagonista, Bret, rivela una delle caratteristiche chiave dell’opera. Le schegge è infatti uno scaltro gioco di autofiction: un romanzo costruito come se fosse una confessione da parte di Bret Easton Ellis, futuro scrittore maledetto, riguardo l’Autunno del suo ultimo anno di scuole superiori. (Ellis è stato effettivamente studente alla Buckley School). Nel mondo fittizio del romanzo, il giovane Ellis è uno scrittore in erba alle prese con i suoi dubbi e dilemmi adolescenziali, preso da un’ossessione sempre più forte per un serial killer noto come il “pescatore a strascico” che terrorizza l’area di Los Angeles torturando e uccidendo adolescenti e animali.

Leggere Le schegge suscita due sensazioni opposte. Da un lato quella che questo romanzo, seppur lontano tredici anni dal precedente Imperial Bedrooms, non abbia beneficiato di un esteso lavoro editoriale, e sia anzi semmai stato scritto con un impeto da beat generation. Le sue frasi sono spesso appesantite da dettagli superflui. Ogni giro in macchina per i quartieri di Los Angeles, giri spesso privi di destinazione e intrapresi da Bret solo per tenersi occupato, è riportato con puntigliosa precisione topografica. Concetti e ragionamenti sono spesso ripetuti quasi parola per parola in varie parti del romanzo: sottile eco stilistica o scarso impegno in fase di revisione?

Allo stesso tempo, Le schegge appare un’opera scaltra, ben calibrata, e soprattutto estremamente conscia di ciò che sia il “personaggio” di Bret Easton Ellis, oggi noto, forse anche più che per i suoi romanzi, per il podcast in cui intervista celebrità spesso controverse. Le schegge è un Meno di zero più corposo e piacione, presentando in modo più appetibile il mondo di lusso estremo e vizi infiniti della Los Angeles glamour. È un American Psycho più digeribile, con i momenti di violenza estrema limitati a pochi passaggi, e soprattutto ben più lineare. Le schegge si apre con una dichiarazione dell’Ellis narratore in cui la scrittura di un romanzo è paragonata all’innamoramento, una forza alla quale non si può resistere e che spinge ad agire indipendentemente dai migliori propositi. Eppure è difficile scrollarsi di dosso l’idea che Ellis difficilmente avrebbe potuto pubblicare un romanzo che capitalizzasse più di così la sua immagine e l’eco dei suoi lavori anni Ottanta. Le edizioni anglosassoni del libro sono perfino accompagnate da una foto dello scrittore adolescente, sorridente e sornione, a infondere ulteriormente nel romanzo tutti i significati aggregati attorno alla figura del suo autore.

La freddezza compositiva de Le schegge non si ferma al suo packaging, ma si estende agli eccessi che caratterizzano la sua trama. Nonostante il grande impatto viscerale delle scene di sesso e violenza, Le schegge non risulta affatto essere un romanzo trasgressivo, bensì una storia già vista, in cui adolescenti privilegiati vengono presi di mira da serial killer appartenenti a culti hippie. Il lato oscuro del mondo fatato in cui sono immersi i protagonisti (promiscuità, dipendenze da droghe e medicinali, ipocrisia, crisi di panico) non incrina l’immagine di questa gioventù imperiale dorata, ma semmai contribuisce a rendere questo mondo appetibile, in chiave borghese-hollywoodiana, a un pubblico che può ammirarlo e disprezzarlo nella misura in cui più lo aggrada.

Senza gridare all’emergenza (in primis poiché è fin troppo ovvio come il romanzo flirti con un’attitudine pacatamente provocatrice) è impossibile non menzionare il vuoto edonistico che domina il testo. In un passaggio indicativo Bret ammette candidamente come la politica sia qualcosa che non lo abbia mai interessato: l’impressione qui non è tanto che Bret – giovane o maturo, personaggio o autore – sia disilluso o disincantato, quanto ignaro del privilegio estremo che gli consente di disinteressarsi dell’attualità in modo così cinico. Altrove nel romanzo la violenza sessuale subita da Bret da parte di un potente uomo di Hollywood è ridotta a poco più di un inconveniente, qualcosa che a malapena infastidisce il giovane scrittore.

In un mondo in cui le disuguaglianze si fanno sempre più esacerbate, in cui il razzismo endemico delle nostre società trova sempre più supporto nelle politiche governative, e in cui le voci che osano denunciare soprusi sono sistematicamente soggette a scrutini e controffensive, presentare questi fatti – disuguaglianza, razzismo, violenza sessuale – come naturali, ovvi, o addirittura permissibili è un atto di forte impatto politico. Non è una scelta scusabile in nome di qualsiasi naturalismo, di una volontà di raccontare il mondo “così com’è”: il naturalismo vero è tanto più disgustato e arrabbiato quanto più è clinico e schietto. La scelta di Ellis è invece una scelta fortemente conservatrice, volta a presentare la realtà de Le schegge come naturale e, di conseguenza, indiscutibile, bella o brutta che sia. Emblematico a tal proposito come Le schegge sia pubblicato in Inghilterra dalla famigerata Swift Press, il cui imprint Forum pubblica titoli del calibro di Liberal Bullies: Inside the Mind of the Authoritarian Left e Transsexual Apostate: My Journey Back to Reality.

Attraverso il romanzo Ellis celebra l’evasione concessa dall’arte e descrive i romanzi, la musica, e i film come alcune delle poche cure al senso di vuoto che contraddistingue la sua vita. Ma un romanzo come Le schegge non è la cura a niente, e non è nemmeno buona evasione: non tanto per le sue mancanze “tecniche”, come l’eccessiva lunghezza o l’ineleganza di certi escamotage narrativi, quanto perché invece di offrire un antidoto, un sollievo dalle brutture del mondo, le abbraccia e implicitamente le giustifica.

Non è neanche, quella di Ellis, la scrittura schietta e menefreghista dei romanzieri beat, che il suo stile per altro evoca. I romanzi di Jack Kerouac catturano, spesso in modo problematico, stili di vita eccessivi e misogini senza mostrare alcun desiderio di indagarli. Ma questi romanzi sono anche un prodotto dell’America conservatrice degli anni Cinquanta. Le vite in essi descritte, tese alla ricerca di sé tramite sessualità, droghe, vagabondaggio, e spiritualità, erano in netta trasgressione con una società ancora incentrata su modelli e traiettorie chiare, fatte di lavoro duro, vita famigliare e fede agli ideali di nazione e cristianità. Cosa c’è di trasgressivo, nel 2023, nello scrivere scene di sesso esplicito? Nel raccontare gli eccessi di droga e alcol commessi da ragazzini viziati e altresì ben educati? O nel catturare l’efferatezza pornografica del true crime, genere che, con la sua implicita visione del mondo come insicuro e pericoloso, è forse il più conservatore tra quelli oggi in gran voga?

Niente trasgressione quindi, ma un elogio dello status quo mascherato da romanzo senza filtri. Nel bene e nel male, Le schegge è la rappresentazione dei suoi protagonisti: superficiale e narciso, perverso in tutti i modi più prevedibili, conscio del proprio privilegio senza per questo esserne minimamente interessato. Un romanzo in chiave new wave: un’opera che cerca di apparire atmosferica e anche meditabonda, apparentemente provocatrice, ma che strizza continuamente l’occhio al piacere più immediato.


Bret Easton Ellis, Le schegge, traduzione di Giuseppe Culicchia, Torino, Einaudi, 2023, 23 €, 752 pp.