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Pensieri freddi: Anne Carson, “Glass, Irony and God”

“Non so nemmeno da che parte iniziare” è il pensiero dominante che assale chi ha l’ardire di tentare di mettere per iscritto qualcosa (pensieri, recensioni, una parvenza di analisi) riguardante uno qualunque dei testi di Anne Carson. È una sensazione peculiare, quella di avere in mano un libro che effettivamente sembra un libro (pagine, copertina, c’è tutto), ma che, in realtà, è una porta verso infiniti mondi altri, primo tra tutti, quello della Letteratura Secondo Carson.

Se questo turbamento è mosso da ogni titolo prodotto da questa multiforme autrice, certamente non fa eccezione Glass, Irony and God (New Directions Publishing, 1995), recentemente uscito in Italia per Crocetti Editore con il titolo Vetro, Ironia e Dio. Diviso in sei sezioni, ognuna apparentemente a sé, è un campione esemplare del motivo per cui è così complesso cercare di inserire i testi di Carson in una specifica categoria: semplicemente, non si può, anche se ci si è provato. Nel 1997, John D’Agata e Deborah Tall, in un numero speciale della rivista Seneca Review, hanno coniato il termine lyric essay, specificamente riferito alle opere di Anne Carson (sebbene l’autrice non abbia mai adottato pubblicamente la nomenclatura riferendosi alla sua produzione).

L’immaginario del vetro, a partire dal titolo e, poi, lungo tutto il testo, è usato come riflesso (sia letterale, sia intellettuale), come specchio, come campana sotto cui rifugiarsi, come prisma, come scissione e rifrazione dell’identità. Il viaggio attraverso Glass, Irony and God inizia con The Glass Essay, una poesia, che è anche un saggio, incentrata su questi concetti: il rapporto di Carson con un uomo che ha smesso di amarla (l’ha mai fatto?), ma che lei ha amato molto; con la madre, che sembra non la ami e che lei sembra non amare; e la solitudine che pervade tutte queste relazioni, solitudine che ama Carson e, da lei, è profondamente osteggiata (forse).

«Whenever I visit my mother | I feel I am turning into Emily Brontë, | my lonely life around me like a moor, | my ungainly body stumping over the mud flats with a look of transformation | that dies when I come in the kitchen door». Nonostante ci si trovi appena nelle strofe iniziali, ci si sente quasi obbligati di scendere a patti col fatto che Anne Carson sia una forza travolgente con cui fare i conti: non solo scrive un saggio poetico – una poesia-saggio – mettendosi a paragone con Emily Brontë, utilizzando Wuthering Heights come specchio della sua storia e rendendo il tutto perfettamente credibile, ma cita persino alcune poesie di Brontë, ricamandole all’interno del suo stesso testo, operazione che non dovrebbe essere possibile: un componimento del genere dovrebbe crollare sotto la sua stessa arroganza e autoindulgenza. È una mossa incredibilmente sfacciata, bisogna riconoscerlo, nella quale, però, va letta l’intera concezione letteraria di Carson: a proposito dei classici, ci dice che «it’s more our task to be relevant to them, to go back and see what they were really doing, from their side. John Cage says, “No one can have an idea once he really starts listening,” and I think that’s what’s important about studying the past, to listen to the ancients rather than replacing them with your own ideas of how they are relevant to you». [1]

Perché Carson sa che Wuthering Heights non è (solo) un romanzo: Wuthering Heights usa la rottura delle relazioni per esaminare e analizzare la rottura degli ordini sociali, il conseguente disfacimento dell’identità e tutte le emozioni violente che l’accompagnano. Carson riflette Wuthering Heights sulla propria vita per investigarne l’alienazione, l’isolamento e la disconnessione: il suo ex amante, che,  in questo scenario, assume l’identità di Heathcliff, potrebbe essere considerato una sorta di terzo polo nella triangolazione tra se stessa e il suo rapporto col mondo esterno. Di questa teoria, che poi riguarda fondamentalmente il desiderio, Carson parla nel suo saggio Eros the Bittwersweet (Princeton University Press, 1986 – Utopia Editore, 2021).

The Glass Essay è, allora, un’analisi di ciò che la relazione d’amore ha cambiato dentro di lei e di come la sua fine abbia alterato la percezione di se stessa e la sua interazione con il mondo. Essendo un lungo e complesso componimento, esso affronta molti aspetti della vita relazionale di Carson, tra cui il rapporto spinoso con la madre: «My mother speaks suddenly. | That psychotherapy’s not doing you much good is it? | You aren’t getting over him. | My mother has a way of summing things up».

(La poesia di Carson, e, in generale, la sua scrittura, è molto scarna, fredda e ironica. C’è un’emozione intensa che pervade ogni singola parola, ma è come se fosse rimossa, vista attraverso un vetro.)

I find myself tempted
to read Wuthering Heights as one thick stacked act of revenge
for all that life withheld from Emily.
But the poetry shows traces of a deeper explanation.
As if anger could be a kind of vocation for some women.
It is a chilly thought.

L’opera di Carson è densa di pensieri freddi (estremamente appropriato per The Glass Essay, che, dopo tutto, parla di una donna la cui vita emotiva si è fatta gelida come la brughiera), ma rende decisamente più complesso l’accesso ad altri suoi scritti, soprattutto per quanto riguarda TV Men e The Fall of Rome: A Traveller’s Guide (le settanta brevi sezioni che lo compongono sono una riflessione a tutto tondo sull’essere straniero, sulla paura, la santità e il desiderio di dominio): qui, la sua tendenza all’intellettualizzazione la rende talvolta talmente opaca da essere frustrante (in questi passaggi, il vetro è intenzionalmente annebbiato), tuttavia, l’acutezza del linguaggio, l’ironia e la sua inclinazione alla metafora bilanciano la densità dei suoi pensieri. In particolare, TV Men, diviso a sua volta in cinque sezioni (l’ultima delle quali intitolata a Saffo, poetessa di fondamentale importanza per la bibliografia di Carson), rappresenta una notevolissima critica nei confronti dei media: «TV is hardhearted, like Lenin. | TV is rational, like mowing. | TV is wrong, often, a worry. | TV is ugly, like the future. | TV is a classic example […] A classic example of what. |A classic example of a strain of cruelty».

Così inizia la prima sezione, intitolata TV Men: Hektor: dunque, la crudeltà è percepita come un elemento che dà voce alle gesta degli eroi e delle eroine classici del passato e del presente, prima e dopo la TV, così come è stata vista come un andare alla deriva (il concetto di floating è un topos all’interno della produzione di Carson) per le crepe della romantica Emily Brontë.

Glass, Irony and God è (anche) un’opera estremamente femminista, a volte in modo molto esplicito, come è possibile notare in The Truth About God:

Are you angry at nature? said God to His woman.
Yes I am angry at nature I do not want nature stuck
up between my legs on your pink baton
or ladled out like geography whenever
your buckle needs a lick.
What do you mean Creation?

Carson si addentra in un linguaggio che si addentra nell’essere, ma non smette mai di essere, allo stesso tempo, uno scherzo. Questo è più chiaro in The Book of Isaiah, che racconta la particolare triangolazione tra Dio, l’uomo e la donna: «Notice whenever God addresses Isaiah in a feminine singular verb | something dazzling is | about to happen».

(Anne Carson è una poetessa che non solo affronta, ma trae la sua stessa forza dagli stereotipi e dai prototipi accumulati in millenni di violenza, di uomini contro uomini e di uomini contro donne).

Il culmine della peculiare e disfunzionale relazione tra Dio e Isaia viene raggiunto quando quest’ultimo viene trasformato (ridotto?) allo stato femminile attraverso l’inizio della lattazione. La parodia comica di un uomo condannato da Dio ad allattare, si trasforma in una celebrazione dell’autogeneratività della natura:

Isaiah sank to a kneeling position.
New pain! said Isaiah.
New contract! said God.
Isaiah lifted his arms, milk poured out his breasts.
Isaiah watched the milk pour like strings.
It poured up the Branch and across history and down into people’s lives and time.
The milk made Isaiah forget about righteousness.
As he fed the milk to small birds and animals Isaiah thought only about their little lips.
God meanwhile continued to think about male and female.

Il risultato è una raffinata trappola, tragica, eppure comodissima, all’interno della quale l’essere umano si rinchiude (in)consapevolmente, alla continua ricerca di un significato che spera sia nascosto, perché l’alternativa sarebbe la sua inesistenza. «Religion calls the pressure piety and the smashed thing a sacrifice to God».

Il vero apice di questo percorso intrinsecamente femminile e femminista, però, si raggiunge al termine della raccolta: essa si conclude con un saggio, The Gender of Sound, che esamina le antiche idee patriarcali greche sulle voci maschili e femminili. Le voci maschili dovevano essere, secondo la tradizione, profonde, misurate, controllate, adatte a impartire ordini e a esprimere autorevolezza (e autorità). Le donne e gli uomini effeminati, per contro, possedevano voci intrinsecamente malvagie, malsane e pericolose: secondo Carson, l’acutezza e la loquacità delle voci femminili erano insopportabili e quasi terrificanti per i grandi intellettuali greci, oltre a essere la prova dell’impossibilità, da parte di una donna, di potersi dedicare alla vita intellettuale, giacché  per natura obbligata a riversare all’esterno ciò che dovrebbe stare all’interno (pensieri, parole, riflessioni, ma il discorso vale anche per il suo stesso corpo). Voce e intelletto si specchiano a vicenda, essendo l’uno l’espressione dell’altro. Carson segue gli strascichi di questa convinzione fino a Freud, Gertrude Stein ed Ernest Hemingway, analizzando e sottolineando quanto essa abbia influenzato il giudizio (sociale, intellettuale) rispetto alle donne che prendono parola.

È un saggio affascinante e articolato, posizionato come conclusione della raccolta in una maniera tipicamente carsoniana, per dare una chiave di lettura (ma solo alla fine del viaggio) di ciò che la scrittrice sta facendo nel suo lavoro. Con il suo linguaggio spartano e ironico, l’autrice rivolge l’ideale patriarcale del controllo contro se stessa: la sua poesia è allo stesso tempo intellettualmente rigorosa ed emotiva, in grado di fondere scene di vita appassionate con un certo sguardo di distacco.

L’opera di Carson, dunque, può considerarsi un tentativo di smascherare la frode dell’(auto)controllo maschile: un controllo alimentato dal terrore della donna e di tutto ciò che le è associato.

Glass, Irony and God non si lascia leggere e comprendere al primo tentativo, perché ci si trova di fronte a strati su strati di parole, significati, concetti che, però, valgono la pena di essere scavati: leggetelo una prima volta per il linguaggio, l’arguzia e l’immaginazione, e tutte le successive per apprezzare le profonde riflessioni che nasconde: «Every sound we make is a bit of autobiography. It has a totally private interior yet its trajectory is public. A piece of inside projected to the outside».


[1] Wachtel E., An Interview with Anne Carson, https://brickmag.com/an-interview-with-anne-carson/


Anne Carson, Vetro, Ironia e Dio, Crocetti, 2023.