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Rapino e la sua squadra (di calcio) di racconti

Di squadre improbabili e formazioni sgangherate è piena la letteratura italiana: spetta un posto d’onore, tra le imprescindibili, alla Compagnia dei Celestini che Stefano Benni iscrisse al mondiale di pallastrada (echi della quale, per i cultori dei reception studies, restano nella celebre scena in libreria di Santa Maradona e in un murale che campeggia ad un’uscita del minorile di Bologna, in via del Pratello) e all’Atletico Minaccia assemblato, oltre che da mister Vanni Cascione, da Marco Marsullo per Einaudi circa dieci anni fa. Fubbàll di Remo Rapino (minimum fax, 2023) va idealmente a completare il triangolare, cui partecipa – con ottime probabilità di giocarsela – in qualità di raccolta di racconti alimentata da un’aneddotica al confine con il pop: grazie all’abilità antologistica dell’autore, ora nei panni di un moderno “selezionatore” o di un temerario Romeo Anconetani, si è attinto con accuratezza al contenitore dell’epica post-bellica per estrapolarne alcuni tra i personaggi più suggestivi per etica sportiva e bontà d’animo. Sembra il tributo al calcio di qualcuno che di calcio abbia letto, masticato e chiacchierato parecchio, qui capace di radunare un’atipica dozzina – undici titolari e un allenatore – che ha il solo difetto di non poter contare su un bomber di peso. Si tratta, per il resto, di un libro che si adegua ai dettami della più genuina narrativa calcistica e che molto bene si sarebbe adattato all’atmosfera del blog Lacrime di Borghetti: in campo internazionale si può pensare alle prose brevi del collettaneo Il mio anno preferito (che a sua volta si affidava, tra gli altri, a Irvine Welsh, Nick Hornby e Roddy Doyle); in ottica nostrana, ritorna attuale l’insuperato gioiellino Sforbiciate, a firma di Fabrizio Gabrielli. Fubbàll è anche un libro giunto alla sua seconda vita e al suo secondo titolo, trattandosi di una riedizione di Quaderni. Storie di calcio quasi vere, pubblicato nel 2015 da Carabba: la riemersione dello stesso aveva del resto già avuto inizio nel 2020, vale a dire con il “botto” delle avventure di Bonfiglio Liborio.

Benché la natura del volume implichi l’assenza di una trama unitaria, vi si può cogliere un andamento lineare che viene, in qualche modo, riassunto nei pensieri del mister cui è dedicata la dodicesima storia. Concepiti quasi in forma monologica, tutti i racconti sono condotti in prima persona e propongono la retrospettiva di una carriera, ripercorsa con gli occhi di un anziano o di un ex-professionista. In apertura di ogni scritto, a compendio delle umane passioni di cui volta per volta si cerca di rendere conto, è collocata una breve citazione d’autore – un grande della letteratura o della cultura occidentale – che servirà a sintetizzare alcuni tratti del giocatore di turno. Tra i nomi altisonanti di Camus, Borges, Platone, Gramsci e Bob Marley, sembra perfetto l’inserimento in esergo di una riflessione di Sandro Veronesi: «raccogliere scritti sul calcio è un po’ come raccogliere conchiglie in riva al mare: ne trovi sempre, ogni mareggiata ne porta di nuove, e ciascuno se ne può sbalordire come fosse la prima volta».

A livello linguistico – per cui è impossibile non prendere a riferimento, ancora, la parlata di Bonfiglio o delle genti di Scarciafratta – Rapino gioca in termini diastratici: nonostante l’autore ami e sappia perfettamente servirsi del dialetto e di registri bassi, i suoi personaggi sono rappresentativi di uno spettro sociale più ampio e sfaccettato rispetto al sottoproletariato culturale cui spesso il calcio è ridotto. A tal punto che i calciatori più colti, per estrazione o per percorso personale, fanno sfoggio di una padronanza retorica rara: questi atleti leggono Sartre e i romanzieri francesi, ascoltano De André e Piero Ciampi (quando non ne sono direttamente amici) e, se meno brillanti o più insofferenti all’istituzione scolastica tanto da non uscirne “sgrezzati”, hanno comunque nutrito una passione giovanile per Salgari. Qualora tentino la via della politica, sentono il bisogno di riferimenti ideologici chiari.  Non che tutto ciò non sia realistico – si pensi al percorso di Vialli o alla parabola professionale di Rivera –, ma certo nobilita il mondo del pallone elevandolo, in sostanza, come solo la letteratura è in grado di fare. È in questo, più che nell’uso delle immancabili ripetizioni “formulari” spesso spia di una provenienza umile, che si ritrova il sigillo del Rapino selezionatore, abile a pescare nella storia contemporanea l’anticonvenzionalità, le lotte di classe, le mode estetiche e qualche vizio di contorno.

I temi trasversali sono di argomento extra-calcistico, coerentemente con l’idea che lo sport sia, per chiunque ne narri i risvolti, solo un pretesto per divagare. Si delinea dunque, per necessità materiali, un universo esclusivamente al maschile che si dipana per centri di provincia e metropoli, conosciute con la timidezza di ragazzi che non vi si sentiranno mai pienamente a casa; si racconta di soprannomi che invecchiano assieme a chi li porta fino a svuotarsi di significato. Con alcune affinità rispetto alle peripezie familiari descritte da Vázquez Montalbán, si illustra la complessità di rapporti padre-figlio che passano attraverso la condivisione di amarezza, rassegnazione, malinconia e sguardi regolarmente più eloquenti di ogni parola, in un Novecento fuori dal tempo ma in realtà pienamente al passo con la storia. Il tutto – ed è un virtuosismo – senza mai nominare il giocatore al quale il racconto si ispira.

I profili scelti sono certamente affascinanti, a partire dal portiere in fissa per le rossonere. Il giovane Milo, che dagli esordi in C2 chiuderà al Nizza, diverrà addirittura un lettore di Stendhal: non c’entra il Milan, ma il Foggia di un boemo che non può rinunciare alle MS. Non bastassero i chiarissimi rimandi alla Zemanlandia cara a Giuseppe Sansonna, ha un certo peso il dettaglio della passione per la musica: la mente corre a Francesco Mancini, scomparso prematuramente nel 2012 e uomo di fiducia dell’allenatore praghese. Il personaggio della fiction è per giunta un puro di cuore, tanto da fratturarsi volontariamente una mano pur di non partecipare a una combine. Anche tra i difensori non mancano ritratti ad effetto. Il numero 2, Glauco “il Bagnino”, pare coniugare i caratteri istituzionali di  Tarcisio Burgnich e la brutalità di Pasquale Bruno: deve la propria ascesa a Nereo Rocco e teme – riconoscendone la bravura sul campo – le giocate di Meroni, Riva e Boninsegna; il finale, con il sopraggiungere della distrofia muscolare, apre una voragine sulle malattie indotte dal doping a cui, a suo tempo, aveva dedicato centinaia di pagine Carlo Petrini, nei brevi intermezzi di pausa dai resoconti sulla corruzione (per esempio in Nel fango del dio pallone). Non meno amara, ma con un’apertura ottimistica, è la storia di “Nilton”, altrimenti conosciuto come “Osso”: un tempo, nel bergamasco, l’etichetta era di norma affibbiata a fantasisti in grado di mantenere il pallone attaccato ai piedi – prima Donadoni, poi Tomas Locatelli – ma allude in questo contesto alla durezza ed è un’idea del mister, a sua volta detto “il Mago” (Herrera?). Questo numero 3 fin troppo gentile, che in cuor suo si sente però un 11 e sogna di sgroppare in libertà sulla sinistra, avrà la disavventura di infortunarsi gravemente all’apice della carriera e si riciclerà nei settori giovanili. È invece un libero il 6, ai più noto come “Wagner” (il che fa riemergere, sinistramente, i gloriosi trascorsi del brasiliano Mozart alla Reggina), esperto di classica e punto di contatto tra il Genoa e il Boca Juniors, secondo una sinergia che ha dato origine in primis al più antico club italiano (il Genoa Cricket and Football Club fu fondato nel 1893), quindi all’unica squadra argentina mai retrocessa: si ricorda con ragione come Xeneizes, termine che identifica i tifosi del Boca, significhi di fatto “genovesi”. Sulla linea di centrocampo ci si imbatte poi in “Treccani”, un Socrates in minore dall’eloquio ricercato e temprato dal ginnasio: accanto alle menzioni di Tiresia e dell’Odissea, anch’esse parte del flusso di coscienza del centrale con il 4 sulle spalle, sono rilevanti quelle degli uruguagi del Cinquanta, in particolare Ghiggia e Varela. Da qui Rapino rende il giocatore nientemeno che il capitano del Palermo finalista di Coppa Italia contro la Juventus, aderendo parzialmente ad avvenimenti realmente accaduti: se ne discosta però nel riassunto del match, finito sì 2-1 dopo i supplementari, ma con un andamento diverso; va inoltre segnalato che il capitano di quel Palermo fu in realtà il catanzarese Fausto Silipo, compagno di squadra di Claudio Ranieri. Ad ogni modo è per bocca di Treccani che si allude a Soriano, tramite la giustapposizione dei tre aggettivi («triste, solitario e finale») che, da mezzo secolo, fanno pensare allo strano caso che indusse Philip Marlowe a indagare su Stan Laurel e Oliver Hardy. Completano il reparto il mediano senegalese – con indosso idealmente la 8 – che diventerà assistente allenatore (il quale, per mantenere alto il livello, legge i versi di Léopold Sédar Senghor) – e il collega con la casacca numero 5, che sulle prime parrebbe un Furino ma poi si trasforma inequivocabilmente in Giovanni Lodetti. A suggellare l’identificazione ci pensa l’episodio di Ceramica al parchetto, vale a dire il racconto del prosieguo della carriera di Lodetti che, dopo il ritiro, ebbe da quarantenne una seconda vita in incognito, come pilastro di una compagine amatoriale composta da soli giovani che non lo riconobbero mai. Sulle ali si dispiega il massimo potenziale di sregolatezza, dal momento che hanno licenza di sganciarsi – per lasciare sfogo alla fantasia – il pittoresco Ezio Vendrame, amico di Piero Ciampi e cultore di Pasolini, e il militante Dino Pagliari: entrambi curiosamente accomunati da capelli lunghi e dalla permanenza a Vicenza, ma con alcune differenze sostanziali. Di Pagliari, in particolare, colpisce l’esultanza durante la quale scandisce – tutto attaccato – il nome di Pietro Nenni, più per effetto di una filastrocca dal sapore familiare che per reale identificazione con il socialismo italiano; dello stesso giocatore, poi allenatore in categorie minori al pari del fratello Giovanni (come lui centrocampista offensivo), sono rimaste famose gesta non sempre arrivate alla cronaca nazionale: da ultimo, il sostegno fornito da Pagliari al Progetto “Rebeldia”, esperienza collettiva pisana che portò all’occupazione di un ex-colorificio e, dopo anni di iniziative rivolte alla cittadinanza, all’inevitabile sgombero. La formazione si completa nella maniera ideale, dato che il 10 è un maestro nel colpo di tacco e un lupo di mare della serie C pugliese, prima di essere candidato come sindaco quasi per acclamazione: il fantasista sembrerebbe rivelare posizioni più vicine alla visione di Fabio Rustico (e ovviamente di Damiano Tommasi) che a quella di Carlo Nervo. Il 9 è Paolo Sollier, ovvero il pugno chiuso più celebre del calcio italiano, da decenni punto di riferimento del pallone anti-istituzionale e oltranzista nell’opporsi alla deriva capitalistica del gioco, ad oggi inarrestabile: lo chiamano Pablo, come il protagonista de Il compagno di Pavese.

Per l’amministrazione di un patrimonio di tale entità, era necessario che il gruppo fosse affidato a un gestore di polso. Si va quindi a Bologna, luogo ricorrente nelle opere di Rapino: non per riesumare Fulvio Bernardini, ma per chiamare in causa un alter ego di Baccilieri, allenatore-giocatore a più riprese di passaggio a Lanciano. Il riferimento a Bernardini è comunque presente nello striscione affisso in curva dai tifosi dell’ultima squadretta diretta dal coach, che recita «così si gioca solo in paradiso». La frase, dedicata al Bologna degli anni Sessanta, rimanda al 7-1 inflitto dai rossoblù al Modena nel ’62.

Riletta nei giorni in cui impazza il mercato saudita, la silloge di Rapino suona come l’atto simbolico – e ribelle – di un custode di memorie e tradizioni. E nel pathos riservato dall’autore all’argomento, va registrata una componente di predestinazione che non può passare inosservata: non solo questi è figlio, come ha più volte fatto presente, di un portiere che parò un rigore a Tontodonati della Roma, ma ha addirittura lo stesso cognome (almeno per omofonia) di quella Megan, fuoriclasse della nazionale statunitense, oggi tanto famosa per il proprio impegno civile. E che è originaria – divergenze anagrafiche permettendo – proprio di Lanciano.


R. Rapino, Fubbàll, Roma, minimum fax, 2023, 16€, 148 pp.