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Un amore di plastica. “Barbie” di Greta Gerwig

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La Balena Bianca è ufficialmente in vacanza, ma non potevamo rimanere fuori dal dibattito sui due film che stanno rianimando le sale cinematografiche. Così, solo per questa settimana, ci siamo tolti pinne e boccaglio per offrirvi la nostra personale visione di “Barbie” di Greta Gerwig, visto in sala dal nostro Davide Spinelli, e “Oppenheimer” di Christopher Nolan, raccontato in anteprima dall’invidiatissima Elisa Teneggi. Poi ci si vede a settembre, per davvero.

Camera a plongée e Barbie-stereotipo (Margot Robbie) ogni mattina apre gli occhi nella sua Barbieland. Si fa la doccia, indossa gli abiti del giorno, i tacchi, prepara la colazione, cucina il toast, beve il latte, dalla sua abitazione saluta barbie-presidente, barbie-fisica, barbie-Proust, barbie-senatrice. Salta sulla decapottabile rosa, va in spiaggia, saluta Ken (Ryan Gosling), gli altri Ken, e alla sera, ogni sera, dà una festa, prima del pigiama party solo al femminile. In una di queste sere, però, Barbie-stereotipo ha paura di morire, l’irrequietezza “di una notte bianca”, allora corre da Barbie-stramba (Kate McKinnon), emarginata, in cima alla collina, per sapere che fare: deve recarsi nel mondo reale per scoprire chi sta giocando con lei ed eliminare quei brutti pensieri – una diegesi furbescamente “in cerca d’autore”. Il coming of age collodiano porterà Barbie, e l’imbucato Ken, a scoprire che il mondo reale non rispecchia il matriarcato di Barbieland, tutt’altro, sono gli uomini (e i cavalli sostiene Ken) a comandare dall’altra parte.

Greta Gerwig, alle prese con un’operazione di per sé “adultera”, una regista indipendente che confeziona un blockbuster promosso da una campagna pubblicitaria planetaria, torna dietro alla macchina da presa dopo Lady Bird (2017) e l’adattamento di Piccole donne (2019), per firmare regia e sceneggiatura, assieme al compagno Noah Baumbach, di Barbie, ossia la ricerca escatologica delle cause e concause – sociali, politiche, culturali, estetiche ecc. – dell’invenzione della bambola di Mattel, l’unico giocattolo che, forse, detta alla Preciado di Sono un mostro che vi parla, è a tutti gli effetti un “archivio politico vivente”, o, in questo caso, di plastica.

La critica, riassume il New York Times, è spaccata in due: Gerwig ha centrato le aspettative, Gerwig è rimasta in superficie. Ecco, senza scomodare Aristotele, credo che il motto nicomacheo “il mezzo è la cosa migliore” valga anche per l’operato della regista, che si riflette nella pellicola, una prima parte frizzante, irriverente, impegnatissima nel world building, nella costruzione del “piano associativo” barthesiano, riassunta nella scarica di primissimi piani con cui Gerwig educa un’inquadratura oltremisura deittica (l’azione “a cascata” è usata anche altrove nel film, per esempio nella scena del telefono senza fili nella sede di Mattel); una seconda parte costretta nella necessità esasperata di risolvere pedagogicamente la metafora, rompendo l’invito all’interpretazione con cui il film citava la venuta kubrickiana della babydoll. Insomma, da un lato, l’approccio pop di Gerwig al femminismo, al sessismo (ecc.) era forse il miglior (unico?) strumento per trasformare il brandmovie in un prodotto fruibile, godibile, accattivante e incisivo, dall’altro lato persiste il retrogusto amarognolo di una manovra commerciale anti-aging un po’ “paracula”, seppur pungente, sferzante, a tratti sorprendente, conscia delle sue contraddizioni, ma annacquata sul finale da un didascalismo giustificazionista oppressivo e diffuso. La figura di Allan (Michael Cera) ne è l’esempio “plastico”: un personaggio iper stereotipato che, apposta, cozza e di conseguenza sottolinea senza che ve ne fosse bisogno lo stereotipo della narrazione macista.

Dunque, quello che in Barbie non torna – non molto, lo ribadisco, più che nel contenuto profilmico nella descrizione, tarata, ça va sans dire, per un target il più ampio possibile, e il taglio pressappochista e sentimentalista del monologo di Gloria (America Ferrera) lo dimostra (di tutt’altra pasta, sia quello scritto da Baumbach in Marriage Story per Laura Dern come sottolineato da molti, sia quello scritto dalla stessa Gerwig in Lady Bird per il personaggio interpretato da Saoirse Ronan) -, non va cercato nell’illegittimità, per alcuni, del product placement (ormai citarlo è d’obbligo, “cool”, direbbe Ken), né nell’overdose rosa che, per molte, avrebbe paralizzato orde di uomini (etero cis) preoccupati che Barbie fomenti l’instaurazione di un matriarcato distopico, né, nell’intenzione di combattere il pinkwashing – per quanto possibile: il discorso paternalistico dell’inventrice di Barbie, della serie “hai fatto anche cose buone” oltre, per esempio, ad aver imposto degli standard estetici irreali, non aiuta a capire se il film critichi il simbolo o l’icona -, né, infine, nell’ipotesi, a mio avviso pretestuosa, secondo cui Barbie sia anti-man. Tutto il contrario: la parabola narrativa in cui il personaggio di Gosling – a suo agio nel ruolo come il miglior attore di Broadway in un musical –  è (“patriarcalmente”) costretto, è tra le migliori intuizioni del film, assieme alla scenografia e alla geometria andersoniana.

In Barbie non funziona anzitutto il confronto semiotico società-individuo: il titolo, monolitico referenzialmente, un nome proprio appunto, non segue la direzione del film, che cerca in tutti i modi di scrollarsi di dosso le definizioni al genitivo, in funzione “di qualcosa”, “di qualcuno” senza riuscirci, basti vedere l’epilogo in cui Barbie si reca dalla ginecologa una volta compiuta la trasformazione da burattina a umana. Ripenso, nuovamente, a Preciado, “l’identità non esiste se non come ‘illusione politica‘”: può, quindi, essere un punto di (ri)partenza quello di Barbie? Ma forse, così facendo, si commettere l’errore denunciato, prendere Barbie troppo sul serio. Eppure, anche a livello “superficiale”, il discorso con cui termina la pellicola, la dicotomia straordinario-ordinario è vittima del confronto semiotico a cui accennavo: non si può prescindere dal fatto che ogni “algebra della relazioni”, per citare la famosa immagine di Peirce (in Selected Writings), sarà sempre contestuale, rizomatica, ramificata (curioso a riguardo, chissà se voluto, che in barbieland manchino gli alberi, anche stilizzati, e il respiro) ancor più in una società in base due (cit. Gli Spiriti dell’isola) come la nostra. L’opposizione ordinario versus straordinario non ha alcun fondamento, la seconda si erige etimologicamente sulla prima. Il discorso di Barbie puzza di quella retorica – tutta italiana, ma a quanto pare non solo – per cui l’ambizione sa d’arroganza, non solo, finge di annullare un’ipotetica scala di soddisfazione esistenziale che invece alimenta, per la sua stessa ontologia. “Le mamme si fermano per permettere alle figlie, guardandosi indietro, di vedere quanta strada hanno fatto” dice Ruth, l’inventrice di Barbie. Ma perché questa necessità di misurarsi se basta l’ordinario? Forse Barbie si perde – o non si può ritrovare – nello spazio di un messaggio che lancia a metà, a distanza di sicurezza, nell’attesa di guardare quanto lontano sarebbe potuta arrivare; non sbatte nulla di nuovo in faccia, consolida, che, per carità, come è stato scritto, in un paese come il nostro (e non solo, siamo onesti) è tutt’altro che inutile, come lo è altrettanto, scrive Rudi Capra, pretendere che Barbie diventi Hannah Arendt. L’amarezza, però, credo derivi dalla sensazione che mancasse poco per seguire la spontaneità della scena in cui Margot Robbie dice “sei bellissima” alla signora accanto alla fermata dell’autobus a Venice Beach. È che “non si può essere innamorati delle idee senza essere stati innamorati delle persone” ha detto Chiara Valerio l’altro giorno al centro sperimentale di cinematografia. Gerwig, mi sa, si è fidata dell’idea e Barbie l’ha un po’ tradita, ed è rimasto, canta Carmen Consoli, “un amore di plastica”.