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“La luce che mi sorveglia”. “Quinto quarto” di Alessio Verdone


Una versione ridotta di questa nota è apparsa come postfazione a Quinto Quarto (Ensemble, 2023).


Il gusto della sospensione indefinita del significato convertito in dramma della perdita del senso vivo: è quanto, sintetizzando, Alessio Verdone sembra essersi trovato a confrontare nel suo secondo libro, Quinto quarto (Ensemble 2023), uscito a tre anni (e quali) di distanza da Le contraddizioni (Transeuropa 2020).

Questo ultimo lavoro, sorta di sberleffo al primo, uscito sul solco di un transito epocale come testimonianza quasi archeologica di un “prima”, è intenzionato sin dal titolo a fare di un’esuberanza trattenuta la sua cifra. Ed è un tentativo quanto mai dimesso di ricognizione e sollecitazione dei problemi che ogni espressivismo deve prima o poi affrontare.

Nelle quattro sezioni di Quinto quarto si parla infatti della lingua, inesauribile riserva privata di ogni presa, con enfasi sulla costrizione quasi coloniale del termine (Iperstizione). Oppure della persona, poco più di un operatore sintattico qualsiasi, e nemmeno dei più buoni (Pronomi personali).

Ma anche dell’ora del tempo e l’invero poco dolce stagione, cui l’autore dedica anche meno di uno sguardo, ma gettato persuasivamente (Quinto quarto (diario)), così come del gesto di far collimare il pronunciabile con l’esperibile, alludendo ai loro rispettivi limiti. Verdone sembra insomma muoversi tra ciò che non si può tacere e ciò che non si può avere, nel cui novero spicca l’amore, massimo di conversione nel privato, che conchiude il libro (Gli otto ricordi).

I primi due testi di Quinto quarto recano le tracce di questo attraversamento. L’insistenza è su una visceralità tanto negata quanto più si mostra, sulla sovrabbondanza di esperienze, ma sempre più depotenziate. L’analogia più evidente è quella metrica, che nel testo d’apertura è dell’endecasillabo “avvantaggiato” (“continuare a spostarsi e non lasciarsi coinvolgere”, p. 16) e in Interoggettività di quello ridotto in forza di dieresi e di iati (“se la risacca richiama il ciottolo | nel gorgo in cui la nave affonda”, p. 17).

Queste due ouverture, peraltro, contemplano i fantocci inerti del soggetto e della versificazione, “ritti per miracolo” come burattini collodiani sullo sfondo di un’altrettanto precaria spaziotemporalità geologica o verbale (il “tempo del sasso” e quello “del verso”, Interoggettività, p. 16).

In quest’epoca ulteriore, fatta di definizioni sempre più qualitative ma scorporate fino alla tautologia o all’equivalenza, l’infinita inventariazione dei significati sembra aver definitivamente dissolto l’enigma naturale che portava pressoché naturalmente alla parola. Verdone, di fronte a ciò, sembra dibattersi tra forme espressive in bilico tra il lirico-sublime e il caotico-mimetico. Ma non è così.

Se Sanguineti (qui omaggiato con Numero 110, pp. 53-4) convive con la filastrocca, lo sforzo ragionativo con quello figurale, è perché la poesia è, tutta intera, una forza del passato, un’arte da museo. Verdone lo sa benissimo, e non ha dunque motivo di porsi il problema dell’aggiornamento formale o dell’espressione “liberata“. Più semplicemente, dei luoghi o dei momenti come gli altri di una falsificazione senza più aggettivi, la poesia è ancora quella che gli è più familiare. “Alla distanza | si oppone soltanto la lingua” (p. 39).

Quello che Verdone tenta di fare sta al fondo di ogni tentativo di rivendicazione integrale dell’esistenza. Quinto quarto reclama una “quantità” integrale, fosse anche in forma di residuo. La «traccia-macchia», il disavanzo, il resto è, appunto, questo. L’eccedenza, nuovo metro di misurazione, colta nell’atto di darsi un diverso indirizzo. Colta cioè nell’atto di accettare anche la perdita di ogni possibilità di rivendicazione, se questo può servire a fingersi in un orizzonte di senso minimo ma vero. E, fingendosi, inverandolo.

questa parte di te non più ti appartiene
se la rendono oggetto
ospedaliero appendice opaca organo di carta
o la riducono a funzione che riceve trattamenti 
non è più anatomia se la osservi come ingranaggio 
anaerobico inerte minerale che subisce alterazioni 
temporali consunzioni o logoramenti meccanici
sei congegno significante depurato di te
se ti arruoli nella legione dell’uguale
o metti il piede dove lo spazio è preso
sei l’inchiostro della parola annotata 
quando non si vede da lontano e la lineetta 
amorfa di un alfabeto scandito male
la sostituzione di te ha già operato a tua insaputa

(Obsolescenza, p. 49)

Così andranno letti i tentativi a imbuto di cercare, in fondo alle categorie di storia e di persona (e delle loro “manifestazioni”) quanto vi si dibatta ancora; l’insistenza su un diarismo memoriale come forma ironica al quadrato di un notevole rimosso collettivo (il più recente, almeno, quale forma di premonizione oscura della consistenza del presente prossimo venturo); la conversione nel privato e anzi nell’intimo che chiude il libro.

Quest’ultimo è un intimo “veduto con la mente”, dal momento che l’addendum, forma ultimativa di recupero delle frattaglie di una soggettività (Emotional intelligence) sopraggiunge quando ciò che si poté dire del “cuore” è ormai già stato fatto a fette. Nessuna nostalgia, comunque: “Tout est changé, perdu a sa couleur” (“e il sole perdeva il suo colore”, “Goccia d’inchiostro”, p. 28), eppure si prosegue a oltranza, con ostinazione, a pezzi, senza nemmeno più anelare a un’anima né una salvezza

c’è la luce che mi sorveglia di un led malandato
impastato nel verdastro che sembra speranza
da quel tanto di luce mi invidia e mi disprezza
(p. 54)

Quanto di meglio va scrivendosi oggigiorno si situa ineludibilmente a lato delle ragioni che, di fronte all’inoperabilità (all’inessenza?) del mondo, portano a insistere su durevoli significati, o a crogiolarsi in sempre nuove logiche del senso. E contro razionalità e realismo di quest’epoca in cui tutto è, al meglio, effigie di sé stesso. Non si cura della credibilità perché nostalgica dell’incredibile. Si finge ancora nel pensiero, cioè nell’invisibile, perché è laddove forse alberga ancora ciò che tanto a lungo si è negato. Ciò che Carlo Michaelstaedter nominava “persuasione”, e Giorgio Cesarano (da cui variamente traggo le categorie di questo breve scritto) “vita abolita”. 

specchiati nella rugiada
vedi la rugiada – non fermarti
al riflesso in te della rugiada.

(V., p. 63)

A. Verdone, Quinto quarto, Ensemble, Roma 2023, 66 pp., €13.


In copertina: foto di Ta Z su Unsplash.