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Livellati dalla luce: “Solo vera è l’estate” di Francesco Pecoraro

Un trio di trentenni romani scappa dalla noia estiva della città, corre in macchina sulla Pontina diretto alla costa. Il programma è banale: cena di pesce ad Anzio, una festa qualunque gonfia di alcol dalla cugina Lavinia a Lavinio, poi a dormire nella casa al mare; magari quella notte o il giorno dopo, orario di sveglia permettendo, si fa il bagno. È un modo come un altro di perdere tempo, far passare il fine settimana e forse l’estate intera, quando l’afa si appiccica su ogni cosa, i movimenti sono difficili e tutto appare immobile. Persino la Storia si è fermata, si dice, anche se ancora per poco: è il 20 di luglio del 2001.

Questo il primo spunto narrativo, apparentemente semplice, da cui prende le mosse Solo vera è l’estate, l’ultimo romanzo di Francesco Pecoraro (Ponte alle Grazie 2023). Per provare a capirlo a fondo, però, forse bisognerebbe leggere per intero almeno i primi due versi della poesia di Vittorio Sereni da cui è tratto il titolo: «Solo vera è l’estate e questa sua | luce che vi livella». Questi tre personaggi appaiono infatti livellati, e rivelati, dalla luce di quell’estate, in due sensi almeno. Innanzitutto, schiacciati fino a farne quasi delle caricature: rappresentanti modello di quello che allora si cominciava a chiamare cognitariato, o più genericamente stereotipici trentenni del «ceto mediolo» di poche speranze, che non credono a niente fino in fondo. Sulla Toyota Yaris diretta al mare viaggiano Enzo l’artista frustrato, grafico freelance; Giacomo il filosofo, assegnista di ricerca che spera in una carriera universitaria; Filippo il belloccio, che per il momento si è tolto dai giochi aprendo un’officina dove ripara biciclette e si contenta di essere irresistibile alle donne. La tentazione di definirli personaggi “da Zerocalcare” è fortissima, anche se forse su questa percezione gioca un suo ruolo il romano – pur ben dosato – dei dialoghi, e i riflessi che attiva in un non-romano coetaneo dei nostri. Livellato appare anche il paesaggio in cui si muovono, il litorale romano plasmato dalla foga edilizia del boom economico: una costellazione di orride «villette in stile geometresco» tutte uguali, quelle stesse «villette geometrili» che ossessionavano anche il Gianni Celati viandante della Pianura Padana negli anni Ottanta. Entrambi – paesaggio e personaggi – sembrano degni figli di quello che Pecoraro ne Lo Stradone (2019) definiva «il Ristagno»: l’arresto di un capitalismo che non ce la fa più, che non produce più né ricchezza né utopie del dissenso, solo paesaggi e personaggi “fatti a cazzo”.

Ma Giacomo, Enzo e Filippo sono livellati anche nel senso che concorrono tutti e tre insieme a formare un’unica entità indistinta, sintetizzabili in una sigla: GEF. Livellati cioè da un’unica e uguale esperienza che racchiude il loro nucleo di verità. In primo luogo, la comune frequentazione di uno dei licei più politicizzati di Roma, il Mamiani, una minima alfabetizzazione militante pur declinata successivamente in forme diverse: intellettualismo per Giacomo, adesione estetica per Enzo, genuina propensione etica per Filippo. Ma, soprattutto, accomunati da Biba, il centro di attrazione del trio: Biba che è fidanzata e convive con Giacomo ma che scopa anche con Enzo e Filippo senza che nessuno sappia dell’altro; Biba presenza costante nelle teste dei tre ma assente in quella macchina che è la sua e che ha prestato per andare a Lavinio; Biba che non si sa dove sia finita quel giorno. Livellati dunque da un segreto di cui non conoscono neanche l’esistenza.

A prima vista documento generazionale sotto forma di dialogo, Solo vera è l’estate in realtà vuole parlare del G8 di Genova. Come anticipato, quell’estate è l’estate del 2001, e quel giorno in cui i protagonisti filano verso la festa a Lavinio è il 20 di luglio. Pecoraro – o almeno, il narratore onnisciente che dall’osservatorio di vent’anni dopo proclama: «Oggi, 20 luglio dell’anno globale 2001, fatale e ormai perso nel tempo» – lo mette in chiaro sin dall’inizio. Con un’irruzione della voce saggistica nel racconto che tornerà nelle pagine successive, passa infatti dalla descrizione del clima atmosferico dell’estate a quella del clima storico di quell’estate: non solo raccontando l’aria che si respirava, ma spiegando perché è lì che va ricercata la radice di ciò che siamo diventati. A debita distanza, non solo dagli eventi, ma anche dal clamore e dal chiacchiericcio degli anniversari, compie cioè una operazione di una lucidità che non si trova in tutti i racconti del G8 degli ultimi vent’anni (da Il giro di boa di Andrea Camilleri passando per I segni sulla pelle di Stefano Tassinari negli anni immediatamente successivi fino al recente podcast Limoni con Annalisa Camilli e all’antologia a cura di Michele Vaccari Circospetti ci muoviamo): mette in fila i fatti storici, stabilisce nessi di causa ed effetto, prende fiato e comincia a raccontare ad ampio respiro quello che è successo – quello che ci è successo. Storicizza, costruisce un senso narrativo, pur senza illudersi in quanto all’esistenza di un senso fuori dalla narrazione. Per esempio: «Da qui a due mesi il mondo sarà sconvolto da qualcosa di ancora più grosso, da cui deriveranno la seconda guerra in Iraq e l’Afghanistan e l’Iran e la Siria e Guantanamo e l’ISIS e Londra e Atocha e Charlie Hebdo e Bataclan e centinaia di bombardamenti e migliaia di missili e attentati, di atrocità, morti, ferimenti sgozzamenti decapitazioni, migrazioni di massa, in una catena di conflitti che ancora dura e che è difficile lasciare fuori dai libri che si stanno scrivendo, anche se molti ci riescono lo stesso». La presa in carico di un problema civile è chiara.

Non da ultimo, chi narra inserisce un fondamentale elemento di complessità nel ritratto dei no global, nella stessa definizione di “no global” sulla cui ambiguità ci si è interrogati ancora troppo poco. E sul dirsi no global di un mucchio di giovani tra i quali fondamentalmente, come sempre, «la vince l’essere cool del movimento». Com’è possibile definire, senza senso del ridicolo, come invisa al nuovo che avanza e alla globalizzazione tout court una generazione che, per dirne una, per prima cominciava a scoprire le potenzialità della nuovissima rete di comunicazione globale? «Ok», pensa Enzo, «siamo alla mercé del capitale globalizzato, stiamo distruggendo er pianeta, ma io vado a Milano più o meno in quattr’ore, vado a Londra con Go a duecentomila lire, vado a Berlino tanto per andare a Berlino, lavoro con programmi grafici che migliorano continuamente, non so esattamente cosa sia, sarà la rete, ma la connessione diventa sempre più efficiente, ci sono i forum, le chat e tutto il resto, sono cose nuove, mai viste prima». Anche in quel caso sappiamo poi com’è andata a finire, e che cosa è rimasto dell’utopia del primissimo World Wide Web; e sappiamo quanto inquinino i voli low cost e cosa significhi per un territorio il passaggio di una linea ad alta velocità. Ma allora la contraddizione era viva, il problema era vivo e tutto a uso e consumo dei giovani come GEF, che pure «non sono in grado di dirselo». E finiscono dunque livellati dalla luce di un ampio e generale “Consenso”, dalla luce di quell’estate del 2001, da quella di molte altre estati venute dopo.

Mentre GEF in macchina cazzeggia, dice tante cose eccetto quelle che sarebbe necessario dirsi, mentre spreca fiato, tempo e parole sull’esistenza di Dio, della felicità, della verità, da un’altra parte «Il vero esiste, è Carlo Giuliani che muore attinto da un colpo di pistola». Verrebbe da dire che Pecoraro riesce a spiegare il G8 raccontando di un trio di trentenni che quel giorno hanno deciso di andare al mare – come Giuliani, che indossava il costume da bagno sotto i pantaloni. Ma questo prima di scoprire dove diavolo è finita Biba quel giorno, e cioè: proprio a Genova, nel corteo festante, poi travolta dalle cariche di via Tolemaide e raggiunta dall’eco dello sparo di Piazza Alimonda. Ecco allora che fin dalle prime pagine Solo vera è l’estate vuole condurci proprio lì, nel mezzo dell’evento, pur inserito nell’ampio respiro di un affresco apparentemente divagante. Dichiaratamente: «Dire la Storia così come la sto dicendo ha il puro scopo di evocare un clima, un grande caldo di sangue e l’incredibile violenza dello Stato, mai davvero punita nei suoi reali responsabili». Il nodo cruciale di ogni narrazione del G8, inevitabilmente, è infatti l’uso della violenza sui cittadini da parte di chi detiene il monopolio della forza. Una violenza che è stata spesso raccontata come eccezione, anche perché, in letteratura almeno, vista attraverso la lente del noir o del poliziesco, con poliziotti integerrimi, sinceri democratici, “di sinistra”, che si ribellano al comportamento inaudito dei loro colleghi (Montalbano su tutti). Ma anche, da un altro punto di vista, come la sconcertante epifania di una regola, politica o antropologica – cioè costitutiva dello Stato o dell’essere umano nelle sue pulsioni più profonde. Ecco, una forza del romanzo sta nel tenere insieme queste due interpretazioni: da un lato Pecoraro inserisce quella violenza in una catena di necessità storiche, e dall’altro mostra Biba ipnotizzata dalla visione di un massacro ricondotto a istinti primordiali, alla «natura sadica della specie».

È un piacere fisico quello provato dai poliziotti, comprende improvvisamente la ragazza, e nel complesso la macelleria di Genova è «una cosa quasi sessuale». «Infliggere dolore, subire dolore», cioè la stessa cosa che gioca a fare lei con GEF, dosando esercizio di potere e sadomasochismo con le diverse emanazioni dell’entità tripartita: Giacomo per praticare la violenza, Filippo per subirla, Enzo «per farci l’amore-amore». «Una sofferenza che è anche piacere», come è descritta pure l’estate nelle prime righe del libro: tutto si tiene. Quello a cui ha assistito, si dice Biba, era «sesso torpido, sorgivo»; «era una cosa sessuale, molto parzialmente sessuale, ma molto fortemente—cioè per te, cretina lurida pervertita, lo era guardare». È un piacere fisico, insomma, anche quanto provato da lei a quello spettacolo. In questo rispecchiamento perturbante il romanzo tocca l’apice, impietoso: il potere e la violenza sono qualcosa che ci attraversa e ci dà forma, né più e né meno del desiderio sessuale ­– strettamente legati a questo desiderio. Prima di tutto il resto che ci diciamo siamo corpi, raccontati dalle nostre relazioni intime così come dai referti delle autopsie, alla cui terminologia Pecoraro attinge recuperando una modalità tipica delle scritture militanti degli e sugli anni Settanta.

Ma se davanti all’omicidio di Carlo Giuliani Biba scopre in un attimo che morire non vale la pena, non può essere un atto politico, «è solo morire», cosa significa che «c’è da mettere a frutto l’essere vivi»? Per i trentenni di Pecoraro evidentemente vuol dire scegliere di continuare a galleggiare nel loro privilegio, livellati dalla luce, di continuare a non dirsi le cose che sarebbe opportuno dirsi. Perché, per quanto variamente consapevoli di essere parte del gioco, cioè portatori di un potere, non sanno né come usarlo né cosa farsene. L’importante è vivere, e possa la gioia del corpo nascondere l’ombra del suo annientamento.


F. Pecoraro, Solo vera è l’estate, Milano, Ponte alle Grazie, 2023, 208 pp., € 16.