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Diventare (non)umani, (non) capire Ortese. Su “Divenire drago” di Elisa Attanasio

Se c’è un incoraggiamento che si è chiamati ad accogliere leggendo il recente saggio di Elisa Attanasio, Divenire drago: esplorazioni nell’opera di Ortese (Pendragon, 2023), è che i mondi ortesiani in cui si muovono iguane, cardilli addolorati e visionari di varia estrazione non prevedono un’univoca porta d’ingresso. Il titolo del libro, del resto, rimanda a un sogno in cui Ortese racconta di aver incontrato un drago e di averne così assorbito il divenire: un divenire ramificato che le permetterà di entrare in comunicazione con i ragni della sua stanza e di imparare da loro l’arte di tessere. I suoi, tuttavia, non saranno fili di ragnatela, bensì fili di parole in grado di inglobare città reali e immaginarie (Il mare non bagna Napoli, Il porto di Toledo), protagonisti umani e ibridi animali (L’iguana, Il cardillo addolorato), luce e oscurità (In sonno e in veglia, Il mio paese è la notte, Corpo celeste). Attanasio ricorda che è la stessa Anna Maria Ortese, in una lettera a Gianni Ferrauto del 16 aprile 1971, a descrivere la propria scrittura come del tutto scevra di coordinate fisse e per questo, forse, poco moderna:

Quando entro in una narrazione, non ne so nulla, e generalmente entro dalla porta sbagliata, e perciò faccio tante scale e corridoi e cortili, ed entro in tante stanze, inutili. Ma questa fatica, sentendosi, dal Lettore e da me, è poi la causa di quel po’ di gioia che si prova, credo, raggiungendo la stanza utile. È un modo di narrare non moderno, certo, non frenato e freddo: un modo semplicemente avventuroso, ma ancora, suppongo, può interessare, come l’eterno Labirinto. Io ne ho fatto, dall’Iguana, una specie di sistema.

Potrebbe venire in mente, a tal proposito, la postfazione di Eco al Nome della rosa, in cui l’autore descrive il primo centinaio di pagine del suo romanzo, lente e descrittive al parossismo, come un modo per scremare i propri lettori. Ma c’è in Eco il senso vago di una sfida lanciata a chi legge, dunque di un attrito che invece in Ortese non è programmatico. Il Labirinto evocato nel passo qui sopra non è sfidato, appunto, come invece nel saggio calviniano del ’62. Piuttosto, l’autrice vi si abbandona come a un’anomalia da non decifrare, invitando chi la legge a fare altrettanto – dunque a capire di non dover capire, non dover capirla. In un gioco mimetico ben ponderato e riuscito, è lo stesso saggio di Attanasio a stimolare una simile consapevolezza e a proporre, di un corpus poroso come quello ortesiano, un’analisi ecologica altrettanto porosa e vivace, con cui dialogare e a cui fare afferire ulteriori spunti.

Tra queste aperture potenziali, vale forse la pena di ricordare che, proprio nel periodo tra “La sfida al labirinto” di Calvino e la lettera a Ferrauto di Ortese, i due scrittori intrattengono un confronto pubblico sul modo di leggere il mondo – o meglio, la luna – che dice molto, forse già tutto, sulle forme di pensiero ecologico rispettivamente adottate. Lo scambio ha luogo nel 1967 sulle pagine del «Corriere della Sera», sollecitato dalla mutazione in corso intorno all’aura lunare negli anni “freddi” della corsa allo spazio. Lamentando l’aggressività intrinseca ai lanci spaziali, Ortese ammette di essere stata portata lei stessa, nel tempo, a ponderare l’immensità dello spazio, a porsi domande sui limiti e i funzionamenti di una dimensione «al di là di qualsiasi orizzonte». Tuttavia, non ha mai per questo tentato di opporre un titanismo conoscitivo allo spazio stesso, accogliendo piuttosto le incertezze e i timori da questo suscitati: «per quanto nessuna risposta si presentasse mai alla mia esigua saggezza, gli stessi silenzi che scendevano di là erano consolatori e capaci di restituirmi a un interiore equilibrio». Calvino le risponde vagamente stizzito: «Cara Anna Maria Ortese, guardare il cielo stellato per consolarci delle brutture terrestri? Ma non le sembra una soluzione troppo comoda?». E prosegue poi con una vera e propria dichiarazione di metodo che illumina la distanza polare che lo separa da Ortese: «Quel che m’interessa invece è tutto ciò che è appropriazione vera dello spazio e degli oggetti celesti, cioè conoscenza: uscita dal nostro quadro limitato e certamente ingannevole, definizione d’un rapporto tra noi e l’universo extraumano». Per Calvino dunque la conoscenza, pur votata al ripensamento di un rapporto tra umano e nonumano, passa attraverso l’uscita dai limiti percettivi e l’appropriazione dell’oggetto di indagine. Per Ortese, al contrario, la conoscenza implica la consapevolezza di una costante relazione, a tratti di una fusione, con lo spazio circostante: uno spazio concepito, ma non per questo appropriato, come composto della stessa materia di cui sono fatti i viventi che lo attraversano, da cui proliferano rapporti e si dipanano legami non gerarchici, visibili e invisibili.

Il caso della luna è emblematico di una postura, quella di Ortese, che accetta e rivendica la precarietà, l’ambiguità e la disorganizzazione come modo di stare al mondo e di cercare, non utilitaristicamente, di comprenderlo. Il saggio di Elisa Attanasio accompagna la lettrice sulla strada di questa passività creativa, lontana tanto dall’estrattivismo conoscitivo quanto dal nichilismo. La consapevolezza ortesiana di appartenere a un mondo che ha preceduto l’uomo e che all’uomo seguirà è rassicurante, invita anche chi legge (tanto Ortese quanto Attanasio) a sentirsi di questo mondo parte non necessaria, a scrollarsi di dosso un’autoimposta importanza che, a ben vedere, schiaccia le menti piuttosto che sollevarle. Se «è la vita a non essere chiara, a contenere contraddizioni e assurdità più o meno verosimili» (p. 103), la narrazione che cerca di raffigurarla – ed è proprio questo il caso della narrativa, ma in parte anche della saggistica di Ortese – non può che essere sfocata e paradossale. Un impianto così instabile, secondo Attanasio, rende poi necessaria una lingua personale in grado di sorreggerlo, senza per questo irrigidirlo. Gadda scriveva, a margine della Cognizione del dolore: «Il grido-parola d’ordine “barocco è il G[adda]!” potrebbe commutarsi nel più ragionevole e più pacato asserto “barocco è il mondo, e il G[adda] ne ha percepito e ritratto la baroccaggine”». Qualcosa di simile potrebbe dirsi di Ortese: non tanto confusa, quanto intenta a ritrarre la confusione del mondo, la scrittrice crea un procedere sintattico fatto spesso di suoni e canti, balbettii e melodie che mettono in discussione qualsiasi pretesa logocentrica, senza tuttavia rinunciare a comunicare.

Il pregio principale di Divenire drago deriva dall’abilità di Attanasio di presentare simili caratteristiche della scrittura di Ortese come tasselli di una riuscita narrazione ecologica. Un pensiero ecologico che non si limita, tematicamente, a dar vita a iguanucce e cardilli che attraversano con disinvoltura i confini di umano e nonumano, bensì si estende alla sostanza di un linguaggio e di una forma tanto personali quanto potenzialmente universali. Attanasio entra nel vivo della produzione di Anna Maria Ortese attraverso una serie di teorie ecocritiche che, a loro volta, trovano in Ortese un caso di studio ideale e un terreno di convalida fertile e ricco – un’humusità, per dirla con Donna Haraway, di forte presa. Questo stesso mutualismo tra testi critici e opera creativa è, di per sé, pratica ecologica, volta alla dissoluzione di confini netti tra discipline al pari di quanto sia intenta a decostruire, nel tragitto, i confini dell’«ego umano, umanista, antropocentrico e androcentrico» (p. 65).

Da Gilles Deleuze arriva il divenire inumano, il disfacimento dell’organizzazione umana del corpo che emerge potente nei testi di Ortese, in linea con l’accezzione spinoziana del corpo come un fascio di affetti e capacità che superano i limiti dei singoli esseri, umani e non. Viene a questo proposito chiamata in causa la categoria harawayana di kinship, fatta di parentele impreviste e inventive, ma anche quella di entanglement discussa da Karen Barad, che è al tempo stesso alleanza di punti di vista e apprezzamento delle relazioni materiali tra alterità di ogni tipo, temporalità passate e future, potenzialità e im/possibilità. L’agency che, secondo Bruno Latour, l’essere umano condivide con i soggetti nonumani, può così interagire con un racconto ortesiano come “Solitario lume”, in cui la protagonista femminile si innamora in modo viscerale di un lampione prima, di una pianta poi. E ancora, la molteplicità prospettica di Maurice Merleau-Ponty, secondo cui «le lacune dell’altro non si trovano mai là dove sono le mie, per questo ciò che l’altro dice ha significato» (p. 115), getta luce sul complesso intreccio di visibile e invisibile nell’opera tutta di Ortese.

Attanasio dedica pagine molto evocative anche all’armonia rintracciabile tra l’opera della scrittrice italiana e una serie di cosmologie e ontologie solo apparentemente distanti, come quelle amazzoniche studiate da Philippe Descola o Eduardo Kohn. A legarle, la capacità di ascolto dei sogni come porte verso una dimensione sacra non trascendente. «Come il sogno del drago serve a Ortese per mettersi in contatto con le piccole creature – ma anche con le forze del fuori e l’ingiustizia umana – così ci si connette con i pensieri della foresta attraverso i sogni» (p. 68), scrive l’autrice, chiamando in causa il Kohn di Come pensano le foreste. Si vorrebbe aggiungere a questa produttiva apertura cross-culturale anche la potenzialità di un dialogo con le filosofie buddhiste, particolarmente calzante, ad esempio, in relazione ad alcune riflessioni di Ortese del 1984, dal titolo “La libertà è un respiro”. Ortese scrive:

Una coscienza decapitata, ecco la nostra coscienza “umana”, oggi. Il Momento è tutto! Il Corpo (privato) è il suo altare. Si dimentica che non esiste un Momento senza tutti gli altri Momenti, un corpo senza tutti gli altri corpi – compresi la Tigre e l’Uccello –, compreso il corpo celeste della Terra. Manchiamo dunque di memoria storica, ma più ancora manchiamo di memoria biologica, di visione e di coscienza del momento prima come del momento successivo.

Sembra quasi di leggere una glossa esplicativa alla nozione buddhista di paticca samuppāda, o origine co-dipendente degli esseri, così come ad alcuni scritti di Dōgen Zenji, fondatore della scuola Sōtō di Buddhismo Zen che, nel tredicesimo secolo, invitava a riflessioni molto simili con specifico riguardo alle questioni temporali (in particolare in Uji). Secondo Dōgen l’illuminazione, l’esperienza della vera natura interconnessa della realtà e di tutti gli esseri, è sempre già presente, pur offuscata da strati di concettualizzazione che da un lato facilitano la comunicazione ma, dall’altro, reificando il sé in opposizione alla realtà circostante, inibiscono un’esistenza armoniosa. Proprio come Ortese, Dōgen esorta ad esperire come il tempo sia già nient’altro che (nel)le cose, e che le cose non siano altro che (nel) tempo. Sarebbe interessante indagare quale fosse la contezza di Ortese in materia buddhista, ma in fin dei conti una sua estraneità a quel pensiero renderebbe l’affinità ancor più notevole, proprio perché intuitiva.

La genealogia che si dipana dall’opera di Ortese, nel saggio di Attanasio, raggiunge poi figure come Clarice Lispector e Antonella Anedda: la prima per via della comune capacità di scrivere l’impensato, di dare forma all’incontro con l’alterità irriducibile; la seconda soprattutto in ragione di temporalità che similmente «collidono, che continuamente si aprono e si richiudono» (p. 175). Dopo tutto, la non appartenenza rigida a circoli politici e culturali che, in vita, ha portato Ortese a una solitudine talvolta estrema – soprattutto dopo la pubblicazione di alcuni scritti sulle contraddizioni interne alla rivista «Sud», nei tardi anni ’40, e di un reportage non ideologico di un difficile viaggio in Russia del ’54, concausa dell’uscita dal PCI pochi anni dopo – permette oggi esplorazioni tentacolari che dalla sua opera si aprono in direzioni molteplici. La stessa storia personale della scrittrice è multifocale e apolide, come ricostruito nel capitolo introduttivo di Divenire drago, dedicato alle sue “Case”. Se nella lettera citata in apertura Ortese parla delle tante stanze e cortili e corridoi e scale che costituiscono molte sue narrazioni, Attanasio ci accompagna attraverso gli spazi concreti che hanno costituito l’identità plurima della scrittrice. Tra questi, occupa un ruolo cruciale la «lezione dell’Africa» (p. 17), più precisamente della Libia, dove Ortese ha vissuto da bambina: lezione di familiarità e prossimità a piante, animali e creature metamorfiche di vario tipo, in grado di aprire un’ulteriore finestra caleidoscopica verso le atmosfere levantine di Fausta Cialente, altra autrice italiana la cui voce ha acquisito colore e pastosità grazie ad alcuni anni africani, in quel caso egiziani.

Si comprende così, una volta di più, che un’opera come quella di Ortese, in grado di mettere in discussione i concetti stessi di “Persone”, “Visibile e Invisibile” e “Temporalità” (rispettivamente al centro dei tre capitoli del saggio di Attanasio), non può che far esplodere dall’interno anche etichette di genere e stringenti affiliazioni letterarie. Evitando gli scontri frontali previsti da poetiche cristalline e perciò stesso rigide, una tale opera si insinua silenziosa nella tradizione letteraria italiana aprendovi crepe, squarci e scorci produttivi. Il non-senso può così respirare, finalmente, e un saggio come Divenire drago riesce a pieno in quest’opera di ossigenazione creativa e multifocale, eppure puntuale e molto lucida. Un paradosso, forse. Ma il paradosso – Ortese dovrebbe ormai avercelo fatto capire – è di casa in tutte le espressioni del reale.


Elisa Attanasio, Divenire drago: esplorazioni nell’opera di Ortese, Bologna, Pendragon, 2023, 25€, 191 pp.