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Il pensiero perverso di Ottiero Ottieri – Di retro al sol del Sessantotto

“Il piacere del dovere o il dovere del piacere?”. Da questo interrogativo prende le mosse Il pensiero perverso di Ottiero Ottieri, originariamente edito da Bompiani e recentemente ripubblicato per Interno Poesia. Nato nel 1924 e morto nel 2002, Ottieri ha rappresentato una delle tante figure indefinibili del Novecento letterario italiano: si è sempre mosso in un solco minoritario e liminare, al confine tra i generi e i registri, senza mai assurgere al rango di “classico” tout court. Cresciuto e formatosi tra Roma e Milano, fra figure del calibro di Valentino Bompiani, Adriano Olivetti ed Elio Vittorini, fu troppo maturo – e troppo cupo – per vivere appieno il Sessantotto tra i contestatari, ma ancora troppo giovane per non assorbirne le suggestioni, come Il pensiero perverso dimostra ampiamente.

Il pensiero perverso rappresenta qualcosa di imprevisto nella poesia italiana del Novecento, sorprendentemente immune da ogni rimando a qualunque possibile tradizione letteraria. Come ricorda anche Demetrio Marra nella sua nota filologica in appendice al volume, Ottieri, che già aveva manifestato una certa attenzione anche teorica per le interiorità morbose e i disturbi psichiatrici in alcune precedenti pubblicazioni, scrive Il pensiero perverso a seguito di un ricovero in una clinica junghiana di Zurigo. Non c’è bisogno di ricordare quali autentici capolavori della poesia del Novecento, italiana ed europea, siano sorti al margine di analoghi ricoveri – Il pensiero perverso resta sospeso a metà strada tra documento psicopatologico e avventura letteraria, ma tutto si può dire se non che abbia una rilevanza unicamente storica. Tra i suoi versi c’è, per dirla con Artaud, una certa “felicità di linguaggio”: la fascinazione della lingua e del verso ugualmente piegati a esprimere l’irrazionale, il patologico, il morboso, tratteggiati con una franchezza ironica e una perturbante chiarezza.

Ottieri “cerca di scrivere del pensiero ossessivo nel pochissimo tempo | lasciatogli libero dal pensiero ossessivo”, come dice già l’esordio della prima poesia, ripetuto qua e là lungo tutto il volume. Il male psicologico al tempo stesso nutre e sconvolge l’attività di letterato, le dona materia narrativa ma al tempo stesso le toglie il tempo materiale per esprimersi. Forse è proprio da una defaillance che questo pensiero perverso, confuso e denso si è trovato a sorgere:

quando a un letterato la letteratura come rimovente non dura
timido o altero s’affaccia il rimosso e lo intride
Non si sa bene cosa avviene
Può scatenarsi il pensiero perverso

Il pensiero perverso è peraltro (circostanza tutt’altro che secondaria) il primo libro di versi di Ottieri, che a lungo si era creduto placidamente confinato alla prosa. Pensiero perverso, pensiero per-versi, la poesia di Ottieri sgorga dichiaratamente anche dalla prassi analitica, dal metodo delle libere associazioni, forse anche dall’ambizione di tradurre mimeticamente il martellare del pensiero ossessivo, della compulsione depressiva, in versi caratterizzati da frequenti enjambement e rotture di frase. Come Marra osserva nella sua nota filologica, trovando conferma nella ricerca di archivio su manoscritti inediti di Ottieri conservati presso l’università di Pavia, il nucleo del Pensiero perverso era stato originariamente concepito in prosa, sotto il titolo ipotetico de L’ossessivo. Una estate completamente nudo, poi subito si era tramutato in un elenco aforistico, fino a sgorgare spontaneamente in un poemetto.

“Caratteristica del pensiero ossessivo è non potersi distrarre | mai”: “di natura infinito”, “esso impone che non si pensi che ad esso | non alla sua gran forma ai cartesiani comandi | ai suoi contenuti poveri | spezzanti sulla polvere | della povera terra”, si legge tra i versi della raccolta di Ottieri. La descrizione che traccia del suo male interiore è di una precisione straniante, clinica e lirica al tempo stesso: “il pensiero | ossessivo pensa sempre più dentro | e sempre più fuori del mondo”, e “troppo corta è sempre la notte | per il pensiero ossessivo, di natura | infinito”. Invano l’io poetico “scongiura il risveglio”: fatalità della coscienza, la luce sorge nuova ogni giorno.

Nel Pensiero perverso non manca un vero e proprio prontuario per casi clinici, differenziati a seconda della reazione che il proprio male riceve dal pubblico ipotetico:

la crisi di nervi non deve
essere vista. Né da parenti
né estranei
Assomiglia troppo al coito e alla svista
La depressione può essere ammirata
come profonda sonda nell’esistente
con incoraggiamenti e svaghi
col sommo collettivo richiamo
alla buona volontà
ma la crisi dei nervi non è ammessa
il pubblico interviene
con manovre subito
perciò chiude la porta.

Edoardo Albinati, nella sua ottima postfazione (Dieci ipotesi su Ottiero Ottieri), si chiede se l’esperienza raccontata dallo scrittore e poeta vada letta come caso clinico o una “pura” testimonianza letteraria, e ritrova nella sua figura di autore “l’immagine di un paziente che deve stilarsi da solo la sua diagnosi, obbligato a farlo in quanto scrittore”. Questo paradosso veniva ben espresso dallo stesso Ottieri in un’intervista: alla domanda “la comprensione del male serve?” il poeta rispondeva tranchant “no, perché la coscienza della sindrome fa parte della sindrome”.

In quest’autentica fenomenologia del male psichiatrico tracciata con i suoi versi perversi, Ottieri si guarda bene dal darsi una diagnosi netta, al di là dell’evocativo ma vaghissimo titolo: nelle varie poesie che compongono Il pensiero perverso, si parla indifferentemente di depressione, di crisi di nervi, di ossessione. L’autore stesso, non sembra avere le idee molto chiare sulla natura e sull’esatta concatenazione dei mali interiori che lo affliggono: Ottieri, per rifarci alle sue stesse parole, “ancora ignora | se il dubbio produce l’ansia | o l’ansia il dubbio”. Qua e là si riaffaccia anche l’“attesa del paradiso inconcepibile | immaginazione inimmaginabile e fissa”, si parla di un Uno molto teoricamente epekeina tes ousias, al di là dell’esistere, ma salvo questi rari, rarissimi sprazzi di spiritualità, l’io poetico non esita a confessarsi del tutto calato nella realtà mondana del suo tempo.

Sospeso nel “rondò tra sintomo e problema” in un mondo dove l’obbligo è “l’unico nemico dell’ansia”, Ottieri “teme la vitale occasione perduta”, tant’è che “l’ansietà del vivere gli impedisce | di scrivere”. Nel mondo che Il pensiero perverso vuole descrivere – nient’altro e nientemeno che la Milano degli anni Sessanta, all’indomani del boom economico:

è sempre bifida
la faticosa festa
deve essere nei posti
due, tre, quattro, di corsa

occorre, occorre, come corre
da una festa all’altra
con la testa occupata da altra festa
l’escalation sale a spirale
senza donna
prima nazionale, poi internazionale
il climbing, lo swinging, il male.

Ça va sans dire che in un simile contesto “l’identità di sé s’è perduta per via”, cedendo il posto al vuoto.

Un dettaglio artistico biografico a proposito di Ottieri in parte sorprende, in parte conferma decisamente la sua appartenenza a uno specifico milieu: nel 1962, Ottieri fu, assieme a Tonino Guerra, co-sceneggiatore dellEclisse, tassello conclusivo della cosiddetta “trilogia esistenzialista” di Michelangelo Antonioni, interpretato da Alain Delon e Monica Vitti e vincitore del Premio speciale della Giuria a Cannes. Del resto, lo riconosce anche uno dei componimenti de Il pensiero perverso che la “nevrosi ossessiva” “ama tanto il narcisismo | del mondano mondo del set | onnipotente che s’intriga e s’ama” – come rileva Albinati, “la nevrosi di Ottieri è in verità sempre estroversa, estroflessa, famelica, in caccia di interlocutori, di sponde su cui far rimbalzare colpi sbilenchi, partiti per errore”. Descrizione che si addice perfettamente anche ai protagonisti dell’ultimo bianco e nero di Antonioni.

Le feste, questi recalcitranti eventi mondani di rappresentanza ed esibizione che proprio dopo il boom ricevettero un eclatante escalation in termini di immaginario e influenza simbolica, sono il comune sfondo del mal di vivere dei protagonisti di Antonioni e dell’io lirico a cui dà voce Ottieri – e lo stesso potrebbe dirsi di certi personaggi dei romanzi di Moravia di quegli anni, a cominciare dalla Noia. Nell‘Eclisse, a dire il vero, un ruolo particolare lo giocava anche l’ambiente della Borsa di commercio, simbolo palpabile della vacuità di quegli anni, del ruolo che il caso gioca nelle vite e negli equilibri globali, di una vita vissuta per scommessa e lasciata incompiuta.

Come rileva lo storico italiano Carlo Ginzburg in un saggio contenuto nel recente La lettera uccide, il finale del film di Antonioni aveva un sottofondo apocalittico tout court, segnalato dall’allora recente escalation tra USA e URSS dopo la fallita occupazione di Cuba. Dopo il Sessantotto, Antonioni espliciterà la sua pulsione apocalittica con il suo film più favolistico e sperimentale, Zabriskie Point, girato negli Stati Uniti. Tra i due film, si era svolta la tragedia privata del più grande antropologo italiano, Ernesto de Martino, morto prematuramente di tumore mentre stava lavorando a un saggio, La fine del mondo, che doveva collegare miti e rituali apocalittici di ogni terra ed epoca alla coeva letteratura esistenzialista dei vari Sartre, Camus e Moravia, nonché a casi clinici ed episodi psicopatologici che esprimevano la fine del mondo, la fine di un mondo, o il crollo indifferenziato del linguaggio.

Un’opera come Il pensiero perverso di Ottieri sarebbe stata senza dubbio elencata da de Martino come un fenomeno liminare tra un’“apocalisse psicopatologica” e la sua rielaborazione artistico-narrativa in chiave esistenzialista. E uno dei motivi di maggior interesse del testo sta proprio qui, nella sua collocazione artistica, culturale e storica. Antonioni si affrettava sempre a dire ai critici che l’alienazione provata dai suoi protagonisti non era la sua: si atteggiava a distaccato, ci teneva a ribadire una distanza tra gli stati spesso psicopatologici da lui ritratti e la propria persona. Lo stesso si può dire di un Moravia, e, in misura minore, di Sartre e Camus – che riconoscevano l’importanza dell’angoscia e di certi stati morbosi per acquisire una prospettiva più ampia sull’umano, ma al tempo stesso trovavano, l’uno nel marxismo l’altro in un più sfaccettato e vago “pensiero meridiano”, dei margini di trascendimento, uno scopo positivo e teleologico da assegnare alla crisi.

Ottieri no. Non sa decidersi a lasciarsi alle spalle la crisi, a sublimarla attraverso la composizione di un’opera narrativa, come accade, per fare un esempio banale, a Roquentin al termine della Nausea, o ancor di più a Mathieu, persona loquens di Sartre, lungo il ciclo dei Cammini della libertà. Sfruttando al meglio le potenzialità di frammentazione concessegli dalla recentissima scoperta del verso, Ottieri lascia volutamente la sua vicenda umana e poetica interminata, interminabile, e con fare caparbio si oppone a ogni guarigione, a ogni normalizzazione. Apertamente mondano, pur mantenendosi ossessivamente rivolto all’interiorità, il suo sguardo riesce a restituirci al tempo stesso un ritratto genuino e selvaggio degli anni in cui scrive.

Non per nulla la collana di Interno Poesia in cui Il pensiero perverso viene ripubblicato si intitola Interno Novecento. Se c’è “una vasta depressione che investe | l’area occidentale tutta”, Il pensiero perverso si colloca in una costellazione storica pericolosamente sessantottina e post-sessantottina, a livello di date di composizione e di pubblicazione. “Dicono che è nasconditrice del vuoto | vero è che non molti altri sensi (pieni) | propone la società (occidentale)”, si legge senza mezzi termini ne Il pensiero perverso, che a questo punto può essere letto anche come il diario interiore di un’individualità particolarmente sensibile e fragile, travolta negli anni a cavallo del Sessantotto da una crisi psicologica e anzi psichiatrica che gli toglie ogni certezza ma non un briciolo dell’usuale ironia.

“Vinta la battaglia della perduta guerra”, tutt’al più, Ottiero Ottieri parla candidamente del “sesso vissuto come salto | defenestrazione”. Parlando di sé stesso in terza persona ammette che “fra Paolo VI e Maurizio Arena | ancora non scelse | la via di mezzo”, non sa decidersi se “il dubbio letterario è un riflesso | del dubbio emotivo o del sesso”. L’unica certezza è proprio il dubbio: “dal dubbio deve essere | occupata la mente | altrimenti che pensa la mente?”.

Il punto è proprio qui. Mosso dalla nuova convinzione che “la poesia può essere un intermediario tra la vita e la filosofia”, Ottieri scrisse i versi del Pensiero perverso esprimendo in maniera lampante uno status generalizzato di crollo delle certezze. Il suo caso clinico non è che la radicalizzazione di una condizione esistenziale che coglie più di una generazione tra il boom economico del ’58-’62, il Sessantotto e gli stravolgimenti politici degli anni Settanta. Il pensiero perverso è una vera e propria cartina di tornasole in cui riecheggia continuamente la domanda: tolte tutte le certezze, ripudiati tutti i padri, cosa resta?

Albinati vede nel Pensiero perverso di Ottieri l’introduzione, o piuttosto il materiale dimostrativo, o meglio ancora il libro di esercizi pratici da abbinare ad Al di là del principio di piacere, il rivoluzionario saggio di Freud del 1920 in cui per la prima volta si introduceva il concetto di pulsione di morte. Non sarebbe però sconveniente leggere nel titolo dell’esordio di Ottieri alla poesia anche un riferimento sardonico a Il pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss, instant cult dell’antropologia strutturalista datato 1962. Antropologizzare, piuttosto che psicoanalizzare, l’estraneo interiore, quanto di morboso c’è nella civiltà occidentale, nella propria stessa individualità: non era proprio questa la sfida, lasciata incompiuta, anche da de Martino che, come dimostrato dal già citato Carlo Ginzburg, con gli appunti preparatori a La fine del mondo evocava e forse esorcizzava i fantasmi della sua epilessia giovanile?

Non c’è conclusione, non c’è guarigione e non c’è espiazione. Il pensiero perverso è un’opera inclassificabile, che come poche si presta benissimo a una contro-interpretazione, a una mossa à la Derrida che, scoverchiando le intenzioni dell’autore, denudi il testo per scoprire l’extratesto, il contesto, il sottotesto. Certo è che Ottieri, dalla sua ottica morbosa, ha interpretato meglio il suo tempo di tanti poeti laureati: e se nello stesso 1971 del Pensiero perverso arrivò anche la Satura dell’imminente premio Nobel Eugenio Montale, ci si potrebbe tutt’a un tratto trovare a pensare che solo l’accostamento tra queste due opere in versi ci permettere di comprendere, attraverso la poesia, quell’irripetibile frangente storico, politico, culturale e antropologico che l’Italia si trovò a vivere di retro al sol del Sessantotto.


O. Ottieri, Il pensiero perverso, postf. di E. Albinati, nota filologica di D. Marra, Latiano, Interno Poesia, 2022, 192 pp., €15,00.