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Da “Argh” a “Pfui”: gli scarabocchi di Maicol & Mirco

In virtù della propria singolarità, dovuta a caratteristiche cui nessuno si avvicina nemmeno lontanamente, Gli scarabocchi di Maicol & Mirco sono ad oggi una testa di serie all’interno dell’universo fumettistico italiano. Che se ne parli al plurale è il frutto di una volontà ben precisa, tramite la quale Michael Rocchetti ha scelto di rendere omaggio – attraverso un memorandum permanente – al sodalizio consumato con il collega Mirko Petrelli (benché si legga, nella Biografia che chiude ogni album, che «le persone invidiose dicono che Mirco non esiste»). Non che l’autore non abbia avuto modelli cui riferirsi o una tradizione della quale è entrato – anche suo malgrado – a far parte: sono però temi secondari rispetto all’originalità dei contenuti. Si potrebbe, certo, ragionare sulla possibile collocazione di Maicol & Mirco in termini di intertestualità o di storia del fumetto, ma a parte prevedibili scenari che condurrebbero a linee del tempo “dalla nascita di Cannibale ai giorni nostri” – e fatti salvi leziosismi sovrainterpretativi al servizio di collegamenti semplicemente “non impossibili” (p. es. le affinità con il Mr. Wiggles di Neil Swaab; il minimalismo grafico che può ricordare il videogame Among Us) –, l’esito dei ragionamenti condurrebbe verosimilmente alla stessa conclusione: si è di fronte a un unicum.

Oltre ad essere parola-guida alla base del progetto in questione, lo scarabocchio individua un genere e un formato: ogni vignetta ha valore a sé, come storia-lampo conchiusa in non più di un paio di passaggi; va detto, d’altra parte, che l’antologizzazione di più sketch in una silloge (qui si parla, ad ogni volume èdito, di opera omnia) dà ai lavori un nuovo senso, includendoli in una continuità potenzialmente infinita. Di tutto ciò va dato il merito a Rocchetti – che di Michele Rech non condivide soltanto le iniziali, ma anche la casa editrice (Bao Publishing) –, a nome del quale è da qualche mese uscita Pfui, la più recente tra le raccolte scarabocchiate.

Su alcune (oziose) questioni varrà ancora la pena insistere, ma solo cursoriamente, dal momento che un ulteriore pregio dell’operazione compiuta dal fumettista consiste nell’averle oltrepassate in partenza: (1) la “dignità” riconosciuta al lavoro, da intendersi anche come il livello di complessità che lo renda oggetto di analisi e critiche, non deve necessariamente essere un’implicazione garantita dalla letterarietà del prodotto; (2) a proposito dello statuto di “letterarietà”, su cui si è dibattuto alla nausea, è ormai pacifico come esso non sia in alcun modo compromesso dalla compresenza di un supporto grafico (né serve a qualcosa la volontà di scovare un requisito minimo, quale una parte testuale); (3) per quanto lo schematismo insito nella distinzione tra underground e mainstream sia d’aiuto alle classificazioni, è spesso un discorso riducibile a dinamiche di distribuzione, per cui – anche ammettendo una crescita esponenziale della fama de Gli scarabocchi per visibilità e tiratura – il progetto non corre il rischio di “snaturarsi” come le musiche di una band che dalla label indipendente si cimenti con il grande salto nella major.

Ben definito è il formato, la cui brevità è resa appena meno sentenziosa dall’ausilio dei disegni (tratto nero, sfondo rosso); il testo è di frequente un dialogo a due voci (e in presenza di non più di tre o quattro personaggi), ma non di rado consiste in una battuta per voce sola, a metà tra soliloquio e monologo. Su figure dai contorni apparentemente non curati, a loro volta componente integrante del risultato atteso (così come le episodiche cancellature, quando presenti), si innesta il pretesto per riflessioni lapidarie: talora si tratta di vignette singole, con una sola, spietata battuta pronunciata dal personaggio che di volta in volta anima un microcosmo creato ad hoc; nel caso invece di pensieri “bipartiti”, l’illustrazione è articolata in due momenti, identificabili per comodità in una premessa – quasi una protasi –, che spiana la strada ad una mordace arguzia finale, e un’apodosi fatta di realismo e violenta rassegnazione. Per entrambe le tipologie è prevista, di norma, una didascalia a segnalare la “fine” (ma non sempre, cosa che non è sfuggita a Silvia Ballestra nell’Introduzione di Crack); all’occorrenza, alla vignetta è premesso un titolo. Tali elementi strutturali concorrono a porre gli scarabocchi sul piano degli epigrammi, di cui – grazie all’inserimento della pointe – sembrano rappresentare un’evoluzione contemporanea tramite una variazione del medium. E oltre che di genere epigrammatico, è lecito parlare – vista l’invasiva presenza di lapidi e a fronte della centralità del tema della morte – di moderni epitaffi.

Il registro linguistico è volutamente basso, asservito a una resa aforistica di amari e incontestabili aspetti dell’esistenza adulta. Sdoganato è il turpiloquio, come anche la bestemmia: non può essere diversamente, nel contesto di istantanee constatazioni sul dolore – nel percepirne l’inutilità – della condizione umana («Un lontano cugino di mia madre una volta ha sorriso. È l’eroe della famiglia.»). In questo cupo susseguirsi di battute e prese d’atto, c’è un ricorso al lessico del mondo dei comics, come si vede dai titoli delle diverse raccolte: si tratta di esclamazioni, onomatopee ormai settoriali che passano dal sofferente argh al disilluso bah, dall’eloquente crack all’intristito sob, per finire con il perentorio no (con punto esclamativo) e con l’ultimo pfui, al colmo del disprezzo. Una menzione speciale per il blam, in gergo rumore dello sparo, che ha dato il nome ad un album in cui Rocchetti riuniva i suoi lavori nel 2012 ed è – senza tema di smentita – il suono in assoluto più presente nei vari volumi, soprattutto alla luce dei moltissimi suicidi trasposti su carta. Il ventaglio delle tematiche – non privo di rimandi autobiografici – è comunque variegato, fatto non propriamente scontato: posta una irreparabilità rispetto alla mortalità, si deridono l’arte e i discorsi sull’arte, come anche la gloria e i sogni di gloria. E se nulla salva – neppure l’amore, perché poi si muore –, vale lo stesso per la psicoterapia e il denaro. E in nessun caso – è una tesi centrale – è salvifico Dio (disegnato, in continuità con una ben nota tradizione, come un triangolo).

Quanto al lato più schiettamente esegetico, il fruitore di scarabocchi potrà agilmente cogliere, nella poetica sottesa ai disegni, (inconsapevoli?) echi leopardiani (Rocchetti, dalla sua, è marchigiano e da non molto è stato premiato come “Grottammarese dell’anno” per il 2022). Se ad onore del vero l’accostamento era già stato azzardato (lo aveva proposto nel 2012 Adriano Ercolani), può avere una qualche utilità ribadirlo attingendo al profilo del Leopardi tracciato da Sebastiano Timpanaro, più che alla prospettiva divulgativa e “per le scuole” veicolata da Il giovane favoloso. Se cinismo e realismo paiono spesso sovrapporsi, ma ancor più spesso sono sinonimi, ciò cui Michael Rocchetti si avvicina è, dal punto di vista del disinganno, addirittura peggio: ha i caratteri del materialismo, o di un sensismo che si ancora al quotidiano e che ha portato qualcuno ad avvalersi della definizione di “leopardismo”. Non ci sono l’Islandese né Teresa Fattorini, ma è ben presente l’elaborazione di atroci lutti di cui la natura (cui i protagonisti delle strisce si rivolgono spesso tramite apostrofe diretta) è ritenuta la sola responsabile e di cui la voce di Maicol & Mirco chiede rabbiosamente conto, senza successo. Il lettore non può sapere se sia una natura degna della maiuscola (che l’autore, di contro, negli anni si è attribuito); certo è che si tratta di una natura più che crudele, qui interpellata come unica alternativa al dio cristiano. Emblematico è a tale proposito uno degli ultimi sketch di Pfui, la cui persona loquens è una non meglio identificata prostituta: «Sono ʼna mignotta. C’ho certi clienti…Ce ne ho uno che per incularmi vuole che mi vesta da “madre natura”. È un marchigiano tutto storto. Si chiama Leopardi Giacomo». Né manca il pessimismo storico, che subentra quando l’umanità, di cui si dichiara la sconfitta, si dimostra non soltanto limitata e fallibile, ma debole di fronte a vizi e tentazioni quali arricchimento, notorietà e reputazione. Di un certo peso sono, a loro volta, la condanna di ogni illusione e della scuola intesa come istituzione, denigrata in quanto mai davvero formativa (e dunque «Figliolo, il mondo è una merda. Studiare serve solo ad assicurartene di persona. Ci sputtaniamo i risparmi per la tua università? Dai!»). Con Pfui, che è tappa di passaggio e non certo punto d’arrivo, tutto ciò si perfeziona e prende forma con sempre maggiore chiarezza.


Maicol & Mirco, Pfui, Bao Publishing, Roma 2022, 192 pp. 14,00€