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Insegnare: un “fallimento sublime”. La scuola vista da Gaja Cenciarelli

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I confini del discorso pubblico sul mondo della scuola appaiono, negli ultimi tempi, davvero ristretti. Non solo per i temi su cui si concentra il dibattito: ad apparire povero è più che altro il quadro complessivo di riferimento, a partire dal linguaggio e dalle categorie con cui si parla e si ragiona della scuola e dei suoi problemi. Basti pensare alle accuse mosse alla “scuola progressista”, alla retorica sulla promozione del “merito”, alla recente controversia sulla funzione educativa dell’“umiliazione”. Risulta difficile sottrarsi all’impressione che a dirigere il discorso, più che profonde riflessioni, siano nel migliore dei casi delle prospettive interpretative fortemente riduzionistiche, nel peggiore dei semplici luoghi comuni. La scuola insomma, negli ultimi tempi, trova di rado occasioni di discussione adeguate alla sua complessa e delicata funzione pedagogica, civile e sociale.

Ci sono, è vero, le riviste di pedagogia e di didattica, ci sono i convegni e le conferenze degli specialisti, che senz’altro sanno restituire attraverso la prosa scientifica quella serietà di analisi che un tema tanto importante richiede. Tuttavia la discussione pubblica, quella accessibile alla maggior parte di noi in TV, sulla rete e sui giornali, pare ingabbiata in un orizzonte angusto, incapace di uscire da sterili dibattiti sulla meritocrazia o sulle punizioni più adeguate per i bulli.

In questo panorama, il nuovo libro di Gaja Cenciarelli è una ventata d’aria fresca. Il romanzo, che contiene numerosi riferimenti autobiografici, racconta la storia di un’insegnante di inglese, supplente annuale in un liceo della periferia di Roma, e della relazione intensa, appassionata, piena di contrasti e contraddizioni, che la professoressa instaura con gli studenti di una classe quinta, «la classe più ribelle e indisciplinata della scuola» (p. 132).

La sfida pedagogica che viene raccontata nel libro non è soltanto quella di portare James Joyce e Virginia Woolf nei quartieri più difficili della Capitale, San Basilio, Tor Bella Monaca, Case Rosse, Castel Bruciato. La sfida, per quanto venga narrata con ironia e leggerezza, è più complessa: si tratta di comprendere un mondo lontano e difficile, di accostarsi ad adolescenti per cui la violenza, il consumo di sostanze, l’illegalità sono all’ordine del giorno; si tratta, con le parole dell’autrice, di “nominare” il mondo dei suoi studenti, di comprendere la visione del mondo che sorregge i loro comportamenti: senza giustificarli, senza deresponsabilizzarli ricorrendo a una sorta di determinismo sociologico; ma, nello stesso tempo, resistendo alla tentazione di imporre sulle loro vite sregolate uno sguardo giudicante, o di rispondere con l’autoritarismo al loro rifiuto della disciplina scolastica.

In questa scuola di frontiera, l’insegnante si accorge dello scarto che esiste fra il compito istituzionale dell’insegnamento come trasmissione di sapere e il suo concreto dispiegarsi sul terreno accidentato e fragile delle relazioni con gli studenti, con il contesto familiare, sociale e culturale da cui provengono.

Cenciarelli riesce nell’intento di raccontare questa frattura con sensibilità educativa, collocando al centro del suo romanzo la “relazione”, addirittura la relazione “d’amore” con la classe, un amore difficile: «amore, una parola con infinite implicazioni sentimentali che lei detesta» (p.102), un «amore egoista, che salva in primo luogo chi lo prova» (p.103), ma che pare incapace di salvare i ragazzi e le ragazze a cui è rivolto. L’autrice mette in scena una sorta di Simposio alla rovescia, provando a leggere la realtà scolastica attraverso potenti categorie letterarie: amore, morte, tradimento, destino, salvezza, fallimento.

È infatti un’impresa da eroina romantica, quella dell’insegnante, (la prima sezione del libro si intitola “Il Romanticismo”, indicando nello stesso tempo il programma di letteratura inglese del primo quadrimestre e la disposizione d’animo della professoressa) destinata a schiantarsi contro il muro pessimista del “Novecento” (seconda sezione, secondo quadrimestre), che oscura con l’ombra del fallimento e dell’impotenza il desiderio di salvazione e di redenzione che anima la protagonista.

L’insegnante è destinata al fallimento. Non ha il potere di sottrarre gli studenti al destino che, quasi in una sorta di autodannazione, scelgono di assecondare. Questa presa di coscienza, però, non ha come esito quello che potremmo aspettarci: la rassegnazione, il pessimismo verso le nuove generazioni impermeabili alla funzione redentrice dell’inculturazione scolastica. Al contrario, la professoressa si dimostra capace di una consapevolezza più ampia. Capisce che gli studenti hanno personalità, biografie, condizioni materiali, situazioni famigliari molto diverse e non hanno di fatto pari opportunità, pari capitale culturale, uguale accesso alla possibilità di riscatto sociale. Dietro alla disillusione e alla rabbia che porta uno degli studenti a dire che per cambiare “è troppo tardi” anche se ha solo 18 anni, si nasconde una verità scomoda: non basta la scuola a salvarli, perché l’esperienza scolastica, per quanto preziosa, non è sufficiente per uscire dal proprio mondo, dal proprio “quartiere”. Non “per colpa” della scuola, come dice qualche osservatore superficiale; ma “malgrado” la scuola, malgrado quella incredibile istituzione democratica e inclusiva che è la scuola pubblica e “progressista”, con tutti i suoi limiti e problemi.

Questo romanzo è dunque la grande dichiarazione d’amore di un’insegnante verso la scuola, verso il proprio mestiere, verso i propri studenti. Questo amore, per non prosciugarsi di fronte all’insuccesso (apparente) del proprio operare, deve essere sostenuto da una consapevolezza di fondo: la scuola è solo un elemento di una realtà sociale più ampia e sarebbe illusorio pensare che essa, fosse anche la migliore scuola possibile, sia da sola in grado di sanare le diseguaglianze sociali e culturali che condizionano la vita degli studenti:

«ci sono tempi, colori, spazi, posture, tatuaggi, musica, abbigliamenti diversi solo in apparenza, in una classe. Sono i tratti distintivi di una storia, di una casa, di una famiglia, di una comunità d’appartenenza. Spesso, purtroppo, anche di un futuro inevitabile» (p.25).

Il fallimento è dunque inevitabile? No, il fallimento è solo apparente. È vero, non si riescono a “salvare” gli studenti, sarebbe un delirio di onnipotenza pensare di poter piegare alla propria volontà il loro futuro e la vita che si preparano a scrivere. Eppure, c’è qualcosa che gli studenti non dimenticano, c’è un lavoro di relazione quotidiano capace di lasciare alle nuove generazioni qualcosa di prezioso e insostituibile, «un pensiero, una traccia, soprattutto un dubbio» (p. 79). La fiducia che l’insegnante rivolge alla classe, anche quando non è ricambiata, anche quando deve fronteggiare il comportamento scontroso, omertoso, scorretto degli studenti, è qualcosa che resta. Portare dentro di sé lo sguardo e le parole di chi ci ha provato, di chi ci ha creduto, è un’esperienza insostituibile, che cambia davvero la vita delle persone.


Gaja Cenciarelli, Domani interrogo, Marsilio Editori, 2022, 17€, pp. 240.