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“Everything Everywhere All at Once”: Il bagel è tutto.

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A mettere tutto su un bagel, il peso del formaggio cremoso spalmabile affosserebbe.  A mettere tutto su un bagel, una madre si avvicinerebbe a scrutare, disapprovazione a strabordare, direbbe, bambina mia, come mi pari inciccita. Perché, a mettere proprio tutto su un bagel, il centro sfalderebbe, the centre cannot hold secondo l’adagio del Secondo Avvento di W.B. Yeats, e un nugolo di bacon cetriolini uova strapazzate semi di papavero occluderebbe la visuale, altro che cinema. Un nuovo mondo vedrebbe la sua alba, e uno ancora, aspetta, lasci anche questo che, si sa mai, alla fine il multiverso è questo, una che al banco salumi ha pensato di volerne un attimo di più, e nel mucchio ci è finito pure un cosmo in cui le persone hanno wurstel al posto delle dita e Jamie Lee Curtis suona il pianoforte con le dita dei piedi. Insomma, un secondo, terzo, quarto Avvento, e così via. Se tutto questo non ha senso, è perché non ne ha. A prescindere. Perché, quando guardi attraverso il buco di un bagel che è stato caricato di tutto, la domanda sul senso diventa inessenziale. Tutto è quello con cui devi fare i conti. Questo è Everything Everywhere All at Once dei Daniels. Letteralmente, fine della storia.

Eppure a voler trovare il pelo in quelle uova strapazzate da bagel, dacché in fondo perfetti non si è, il film dei Daniels (Daniel Kwan e Daniel Scheinert, al loro secondo lungometraggio dopo la bro-com assurdista del 2016, Swiss Army Man) una trama, una storia ce l’ha. Comincia in una lavanderia automatica degli Stati Uniti, dove Evelyn Wang (Michelle Yeoh) e il marito Waymond (Ke Huy Quan) litigano e stanno in silenzio mentre cercano di pagare correttamente le tasse. Sono immigrati cinesi di prima generazione, e, proprio nei giorni in cui si preannuncia un importante appuntamento con lo IRS (Internal Revenue Service, tra Fisco ed Equitalia) che decreterà la morte o la sopravvivenza della loro attività, l’anziano, esigente, criticone padre di Evelyn, Gong Gong (James Hong), è in visita dalla Cina per il suo compleanno. A complicare le cose, lo spinoso rapporto di Evelyn con l’unica figlia della coppia, Joy (Stephenie Hsu), esistenzialmente spaesata e in una relazione con Becky (Tallie Medel), legame che la madre fa fatica ad accettare. Insomma Evelyn, dove ti saresti vista tra quindici anni, quindici anni fa, quando hai lasciato la tua casa per seguire i sogni e l’amore? Perdinci, mica qui. E non ne posso più. Chissà, forse, a esser rimasta, avrei imparato il kung-fu e sarei diventata la nuova Bruce Lee, ma, in questo mondo, sono solo la moglie di Waymond, curioso personaggio tra Jackie Chan e Charlie Chaplin. Vabbè, è andata così. Potessi ricominciare.

Proprio come nei vortici yeatsiani, secondo cui le epoche storiche altro non sono che spirali ascendenti/discendenti e, con un bang!, invertono corso una volta mature, palingenesi e rivoluzione, così i Daniels immaginano questo punto di non ritorno per l’universo di Evelyn & parenti: un frullato di tutto, ovunque, tutto insieme, un cosmico grido “Sono pienah” sulla superficie di un bagel farcito di tutto, a tracciare la parabola di una storia di formazione, e riconciliazione, famigliare. Scelgono di farlo accreditando – chi scrive crede, perdonate l’intrusione, indirettamente – la metafisica multi-mondo del filosofo americano David K. Lewis (1941-2001), il cui pensiero si concentrò attorno alla costruzione della teoria del Modal Realism (realismo modale), secondo la quale il sintagma “mondo parallelo” è da intendersi alla lettera. In altre parole, Lewis strutturò un reale composto da più universi indipendenti, creati dai sentieri multi-forcanti delle scelte individuali e della Storia. Queste le proposizioni: i mondi possibili esistono; i mondi possibili non sono diversi in specie dal mondo effettivo; i mondi possibili sono entità irriducibili; il termine “effettivo” (actual) nella seconda proposizione è da intendersi in modo indexicale, ovvero, chiunque si trovi in un universo lo potrà definire “effettivo”. Argomentazioni che, pare, nessun collega riuscì a confutare. Tanto meno Evelyn, quando, visitata da Alpha Waymond – suo marito, ma nell’universo Alpha – viene introdotta alla non-unicità del mondo. C’è di più: Alpha Waymond le rivela il motivo del suo accidentato legame con Joy. In ogni universo, infatti, la figlia è la diversa manifestazione di una stessa mente malvagia, che tutto vede e prova, istantaneamente. È Jobu Tupaki, che in un bagel ha riassunto il cosmo, la sua interdipendenza e punto di fuga (ripetendo, se prendi un bagel e ci butti sopra tutto, cibo o sentimento, non finisce bene) ed è in cerca di lei, Evelyn, ultimo tassello nel percorso di compimento del suo piano malefico: l’annichilimento attraverso il centro. Allora saltare, da un universo all’altro – c’era questo teen movie con Hayden Christensen, Jumper (2008), sballonzolatori di tempo e spazio –, creando ponti con il metodo della social challenge: per attivare il trasferimento, fai la cosa più stupida che ti può venire in mente, e falla con convinzione, altrimenti l’universo, che sa, se ne accorge. Saltare per sfuggire a Jobu Tupaki che tutto vede e sente e abita all’unisono, everything everywhere all at once, decifrarne la mente e salvare questo coacervo di glorioso casino, gigazilioni di universi mai tangenti. Accettarlo. Validare, in primis, il proprio mondo, superare lo stallo.

Tra metatesti filmici – gli omaggi intramediali si sprecano, da The Matrix a Ratatouille, da 2001: Odissea nello spazio a In The Mood For Love – e citazioni di domani – vogliamo mettere i googly eyes, già in cima alla lista dei Best Halloween Costumes 2022? – i Daniels cuciono il miracolo della risata sguaiata ma mai demenziale, della tecnica al tritolo e dei riferimenti popolari, e, infine, pure pure della lacrima. Perché, a una certa, le persone, indipendentemente dall’universo di appartenenza, si suddividono in due categorie: quelle che esperiscono almeno una volta al mese una certa qualità di sopraffazione psico-fisica, tanto da chiedersi Che cosa sarebbe successo se…? (e, come tanti supercattivi, Jobu Tubaki è, in fondo, solo triste perché, per lei, la domanda si completa con …non fossi mai nata); e quelle che fanno finta di niente. Perciò, in una storia di accettazione e conciliazione, ultimo nodo da svolgere rimangono i Daniels. Provvidenzialmente, l’etichetta di Postmoderno non si applica al cinema. Però possiamo parlare di canoni, generi, futuro, e di come il duo registico abbia abbondantemente messo in chiaro il je m’en fous situazionista, ma soprattutto cosmico, che accompagna l’azione della loro mano. Extra-genere per programma, acerbi per l’acclamazione, impossibile divinare ulteriori evoluzioni dai lapilli di Everything Everywhere All at Once. Però possiamo parlare di bagel su cui poggiare tutto, e, addentandoli, portare il cosmo alla bocca, impastarsi la voce, liberarsi. E anche così, è una certezza. Quindi è OK, Daniels. A noi, questa asticella vertiginosa, sta sempre un po’ meglio.