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Esercizi di distanza: su “Atlante di chi non parla” di M. Lotter

Iniziando a leggere Atlante di chi non parla, l’ultima raccolta di Maddalena Lotter – sotto al titolo della prima sezione, “Migrazioni”, subito dopo l’esergo, tratto dai salmi («Dominus custodiat introitum tuum et exitum tuum», “Dio custodisca il tuo ingresso e la tua uscita”) – mi sono annotata: «la promessa, la caduta». Dopo l’invocazione al divino, infatti, l’autrice si butta a capofitto nel corpo, che è naturaliter corpo mortale, corpo che soffre. Si propone di esplorare la morte – «che ci riguarda da subito, da prima | che qualcuno ci lasci» – «in amicizia ed esattezza, da veri scienziati e uomini di fede». Dal corpo umano, simbolo per antonomasia dell’antropocene, si passa girando pagina, in un batter di ciglia, all’esperienza della farfalla, in forma di prosa lirica. Nella morte di questo insetto, che si fa bambino rannicchiato, sembra celarsi il coleottero di Libera nos a Malo, di Luigi Meneghello, veneto come veneta è Lotter; che come un soldato ubbidiente si inerpica su per il monumento, per poi cadere giù, spogliato del mito di Sisifo.

Dalla farfalla si passa a un uccello della Carinzia, che migra, perché deve. In questo semplice dato si raccoglie tutta la spontaneità dell’istinto, di ciò che è necessario. Ci si chiede: necessario per cosa? Per sopravvivere. Il cadavere, invece, è «fermo come un luogo | un lido, un parco un tempo | frequentato». Il corpo morto diventa paesaggio, immobile eppure rigorosamente significante, su cui proiettiamo i nostri sentimenti. Eppure questa è la stessa carne morta di cui abbiamo fame. «Carne! Carne! Cameriere! | Me la porti, presto, sugosa e crepitante | perché ho tanta fame | se non mangio adesso, muoio!». Ma poi l’esperienza si trasforma in un momento disturbante, in «un pezzo | di qualcuno in centro al piatto», «odorante d’intero e di ematomi». La sofferenza emerge dalla forma, livida, si fa colore, odore, immagine. Il desiderio, la voglia, la fame, il dire sì alla vita appaiono in tutta la loro violenza, nella loro istintiva sopraffazione dell’altro, e l’unica cura sembra essere il non avere più fame, fermare il desiderio che di continuo ci spinge e ci porta a compiere il male.

In questa prima sezione ritorna la domanda sul dolore, la stessa di Buddha, la stessa dell’umano da almeno tre millenni. «Non possiamo fingerci esterni, | guardare flutti e gorghi come da un faro», sostiene Lotter. «Tutto si potrebbe allargare verso la morte | e non basta vigilare su di voi | ammonirvi quando vi trascurate, | sperare che resistiate». La tensione spontanea dell’esistenza è quella del degradarsi e infine morire, pur proliferando, moltiplicandosi. Non basta vegliare sulla salvezza degli altri, intesa come una sorta di minuscola “prevenzione” alla morte, in cui sembra essersi sempre più tradotta l’ontologia umana dal dopoguerra a questa parte. Un’artificiale sopravvivenza, l’allungarsi la vita, sognando una sorta di immortalità, che inverte il movimento spontaneo della creazione e della distruzione delle cellule organiche.

A questo fa da contrappunto, come in alcune poesie di Boris Pasternak, il coro degli alberi, del bosco, che più che selva immagino campo di silvicoltura, così caratteristico della pianura veneta prossima ai letti dei fiumi. Eppure gli alberi, per quanto coltivati e organizzati, parlano, si fanno portavoce dell’ombra, del buio, suggerendo una rinuncia, il passaggio a un altro mondo, qualcosa che non deve essere visto, quasi un canto delle sirene. «Vieni via da lì | dove di notte passando si annunciano | più nere del cielo | le sagome remote degli alberi | e dal fondo, in un ultimo prato d’ombra | chiamano a un’altra vita, | puoi vederla». In questo scenario la “meditazione” che tematizza Lotter nella sua poesia non è una tecnica per scavalcare i nostri confini percettivo-cognitivi e “scamparla”, ma diventa il riattivarsi di un dialogo con il proprio sé più vivo e autentico e dimenticato, grazie all’epifania mediatica della morte («ma oggi stancamente guardavo | la televisione in una luce verde, | era morta una persona famosa»). La meditazione dal latino meditari, iterativo di medēri “curare”, pare essere un sovrapporre e riunire le proprie diverse identità («non abbiamo più parlato tra noi | in questi anni»), le varie forme che abbiamo preso nel corso della nostra vita, tornando a essere presenti a noi stessi e avere una netta percezione dell’esistenza: salvarsi, dunque, più che liberarsi. Eppure, la mente dell’autrice, in chiusura di sezione, resta lontana, scollata dal suo ambiente, proiettata in altri luoghi, forse per poter sopravvivere al conosciuto, al ripetuto, all’uguale, che pure la protegge e la nutre. Non ha bisogno di «fugg[ir]e lontano».

Dall’umano si salta poi alle “Storie di animali grandi”. La voce poetica si fa spettatrice di un percorso attraverso le teche e le ricostruzioni museali, ancora una volta di corpi morti, ricreati, mantenuti integri chimicamente ed esposti, appesi, inchiodati, imbevuti. Eppure, anche se ormai è chiaro che «l’era degli uomini è finita», «nulla vieta di immaginare | quel ciondolo tutto fatto di luce | centro la sua conchiglia | a miglia e miglia dalla vita, | sul fondale | una cosa piccola che brilla | e non ci salva | e tace». La natura viene spogliata da tutte le incrostazioni ontologiche che nel corso dei secoli le abbiamo affidato. La bellezza non ci salverà. Forse perché per noi è solo un simbolo, un ciondolo, forse perché non ci riguarda, forse perché siamo noi a darle voce, ma lei non parla, la sua voce è una nostra illusione.

Da spettatrice Lotter si cala nelle vesti di “testimone”, parola che intitola la terza e ultima sezione dell’Atlante. Qui le poesie appaiono etichettate con numeri ordinali, in caratteri romani, quasi come nello schedario di un anatomopatologo, o nell’archivio di un museo. Non ci sono più maiuscole, come nella poesia di Lutz Seiler, che le strappava addirittura al tedesco, abbassando ogni enfasi nominale. «scrivo perché il primo valore | è la testimonianza | ma non so dire con esattezza quello che vedo, | se qualcuno leggerà | sappia che anche la mia è una traduzione | non è questo quello che ho visto. | quello che ho visto prima di parlare | non viene centrato da nessun linguaggio». La poeta denuncia i limiti del suo stesso strumento, confessa, depone la tecnica, mostra la distanza insanabile tra sensi e linguaggio, tra realtà e narrazione. Riapre le porte a una distanza, stavolta spogliata da qualsiasi giudizio morale. «Un altro nome della distanza è mutamento | ciò che muta non coincide | così da solo s’apre a un ventaglio d’altri». Lotter sembra comprendere chi non ha accettato di assumere una e una sola forma e si sentono gli echi della voce che parla nell’Iris selvatico, di Louise Gluck. In un lampo appare la necessità di strappare istanti dalla nostra esperienza per fermarli, come unica possibilità di sopravvivenza, stavolta intonata dalla voce di un demiurgo dalla psiche organica.

In questi versi riverbera il messaggio degli asceti asiatici, ma pure del cristianesimo primitivo, sanando il fraintendimento alla base delle religioni, che hanno sempre, politicamente, lavorato per sostenere la tendenza dell’umano al proliferare. «mancare, in fondo, è stato il mio unico gesto | ma non è stato visto: | mi si ringrazia per il mondo | mentre il mondo sgorgava dal niente, | ridondante. | il mio dono invece | era la negazione. è la negazione che costa». Parla un demiurgo incompreso, a cui sono stati messi in bocca messaggi umani, quando il suo esempio era proprio quello di ritirarsi, di non guardare, più che non farsi vedere, di non prendere parte a, anche se in questo “costo” finale, si riflette ancora una volta l’educazione cattolica che ci contiene come una seconda pelle, che finiamo per confondere con la nostra. ll demiurgo creando da soggetto diventa oggetto, il suo mondo inizia a parlare e con la parola si allunga e ricopre tutto, soverchiante. La penultima poesia del libro si chiude con una citazione di Simone Weil:«Il existe une force “déifuge”. | Sinon tout serait Dieu», che sembra proseguire il messaggio messo per iscritto da Patañjali nei suoi Yogasūtra, in cui si proponeva una tecnica di liberazione (dismettiamo almeno in chiusura il termine “salvezza” che porta con sé un ambiente semantico per forza di cose fuorviante), che non contemplava l’esistenza di Dio, ma faceva ricadere tutto il potere e la responsabilità sull’essere umano. Se la visione “nirīśvara”, ateista, di Patañjali avesse prosperato, al posto della consolazione del divino, oggi ci troveremmo probabilmente in un ambiente molto diverso.

Lotter, in chiusura, si e ci concede un’attrazione gravitazionale, tra pianeti e quindi tra masse. Immagina un incontro ravvicinato del terzo tipo. La distanza, necessaria per esistere e per liberarsi, «dopo miliardi di anni di nulla», di vuoto siderale a un tempo metaforico e letterale, viene colmata, l’essere umano incontra un’altra forma di vita, tra sabbia e roccia. Tabula rasa è stata fatta. La forma di vita, di cui lui non sa niente, lo guarda commossa, «in un amore incomunicabile | come spesso e ovunque è l’amore», un segreto indicibile, il primo limite a cui forse potremmo rimetterci.


Maddalena Lotter, Atlante di chi non parla, Torino, Aragno, 2022, pp. 63, € 12.