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“Le perfezioni” di Vincenzo Latronico: la morte del desiderio

In Menzogna romantica e verità romanzesca René Girard scrive che «soltanto i romanzieri denunciano la natura imitativa del desiderio».[1] Ma cosa può fare il romanziere in un periodo storico in cui il mediatore, figura cardine del triangolo girardiano, non è più un cavaliere d’altri tempi o un’eroina romanzesca, bensì è stato sostituito in toto dal «discorso del capitalista», per rifarci ad un’espressione lacaniana del 1972?[2] Nella società occidentale ipermoderna le nuove leggi del consumo, trasformando la ricerca della felicità e del piacere in un dovere inconscio, producono nel soggetto un’estrema coazione al godimento, per cui l’individuo perde la facoltà di desiderare autonomamente, o, ponendola in una prospettiva contigua ma leggermente differente, il desiderio, che nel suo nucleo fondante dovrebbe essere sempre desiderio dell’Altro, diviene ora desiderio attraverso l’Altro. Ma cos’è questo Altro?

Ne Le perfezioni, pubblicato da Bompiani qualche mese fa, Vincenzo Latronico riprende esplicitamente, nella costruzione formale, nella postura narrativa adottata e nell’intento sociologico che soggiace al racconto, il modello perechiano de Le cose (1965) per rivisitarlo ed aggiornarlo alla fase più recente della società dei consumi ipermedializzata. Ecco forse uno dei motivi per cui si ha l’impressione che Le perfezioni sia un romanzo prima meticolosamente “studiato”, nelle sue componenti interne, nella sua grana atmosferica, nella sua resa linguistica, e poi scritto, senza dubbi o ripensamenti, all’interno di un laboratorio in cui si è rientrati dopo tanti anni passati a girare per le capitali d’Europa, con in mano righello e goniometro e diversi campionari di tessuti e scale cromatiche appese alle pareti. Un romanzo di stampo sociologico, si può ben dire allora, a costo di ripetersi, nel quale il lavoro di cesello sulla lingua e sul lessico portato avanti da Latronico diventa veicolo per ampliare in verticale lo spazio mediano della lingua standard letteraria, per impreziosirla col fine di far risonare l’impronta simil-saggistica che si propaga nel sottobosco del discorso propriamente narrativo, garantendo una certa distanza autoriale dal materiale diegetico, restituito con la puntualità espressiva e terminologica di un referto medico. Molto attento, però, a non far scadere la storia in un somma di capitoli “a tesi”, Latronico radiografa le manifestazioni più evidenti ed estremizzate del contemporaneo – globalizzazione, gentrificazione, gig economy – filtrandole attraverso l’esperienza-tipo di una coppia di millennial – Tom e Anna, creativi di professione (vedi alla voce: web developer, graphic designer, online brand strategist), trasferitisi da Milano a Berlino –, emblemi privilegiati di una generazione che ha creduto che la felicità si dischiudesse improvvisa nell’atto di corrispondenza ad un’immagine di perfezione auto-proiettata su di sé e all’infuori di sé, ricamata negli anni sul calco di tante altre immagini patinate depositatesi tra le pieghe dell’inconscio collettivo. In un periodo storico in cui siamo sottoposti, nel doppio ruolo di vittime e carnefici, «a un’inflazione di immagini senza precedenti»,[3] il romanzo di Latronico, che tenta di aderire al nostro presente senza omettere alcun sintomo, s’inscrive nell’iconosfera che ogni cosa sovrasta interrogando innanzitutto le sfasature che si vengono a creare tra la realtà e l’ideale impraticabile di una realtà quotidianamente edulcorata mediante le immagini che invadono in maniera torrenziale i social networks.

Non sempre la realtà era fedele alle immagini. Lo era spesso di prima mattina. Al risveglio, la vista delle pareti intersecate dai tratti sfocati di luce che filtravano dalle tende li metteva di buon umore. I vestiti del giorno prima erano stesi sui servimuti. […] Controllavano la mail e i social dal letto, i volti azzurrini per la retroilluminazione dei touchscreen, e sembravano una coppia di giovani professionisti a Berlino, che era esattamente ciò che erano. Ma non appena mettevano piede in soggiorno quella certezza si sfilacciava, come il suono prima nitido di un cellulare che va perdendo il segnale.[4]

La realtà, del resto, è condannata ad essere sempre peggiore delle aspettative, perché nel mezzo s’interpone la vita, che tutto scombina, confonde, sporca, distrugge. La vita è fatta di disordine, accumulo, imperfezione, un inno irriducibile a tutto quello che uno vorrebbe restasse fuori dal quadro o celato sotto al tappeto. Quali sono allora le conseguenze di una perfezione che si scopre falsa e posticcia, incapace di riempire i vuoti che costellano l’esistenza di ciascuno di noi? Che cosa succede quando l’incrinatura nel calco comincia ad allargarsi e non si è più in grado di sovrapporre l’immagine che si ha di sé a quella percepita dall’esterno o, almeno, di tenere nascosta l’amara consapevolezza che ciò, in fondo, non è mai stato possibile se non a costo di un prolungato e cosciente autoinganno?

I protagonisti de Le perfezioni, o sarebbe meglio dire, la protagonista – ossia la coppia, che sostituisce il consesso familiare come nucleo cellulare della società ipermoderna – insegue tutto sommato un’utopia minima: essere cosmopolita, plurilingue, acculturata ma con certa rivendicata superficialità (riviste internazionali, inaugurazioni di mostre, retrospettive nei festival considerate principalmente come indicatori di un prestigio sociale da raggiungere e poi salvaguardare), impegnata politicamente e civilmente ma più per forma che per convinzione, lavoratrice ma senza l’ossessione del posto fisso e del cartellino da timbrare, latrice di una sensibilità estetica raffinata ma ampiamente conforme al gusto di gran parte dei coetanei. Essa coltiva, del resto, l’illusione di stare dalla parte giusta delle barricata, di “aver vinto” la battaglia con i propri genitori, di essere riuscita ad emanciparsi da un sistema lavorativo alienante e costrittivo, ma quella che si trova a vivere è un’esistenza, in fin dei conti, vacua, poco tangibile, formatasi all’insegna di un narcisismo debole, appagante solamente nel processo di autoconvincimento e di autonarrazione che ogni giorno la coppia è costretta a reiterare per dotarsi di un insperato baricentro identitario. Più che vivere per sé, Tom e Anna vivono, infatti, per corrispondere ad un archetipo, ad un modello mediatico, per riconoscersi alla luce di un ideale generazionale costruito inizialmente come risposta e protesta alla società tardocapitalistica, ai suoi meccanismi soggioganti, ma da essa poi ampiamente reintegrato nelle successive dinamiche di controllo e generazione del desiderio. Conseguentemente, così come accadeva ne Le cose di Perec, anche ne Le perfezioni, gli oggetti, i luoghi, i “momenti”, vengono erotizzati perché su di essi viene proiettato il significato ipotetico e volatile di un segreto altrove imperscrutabile, un segreto che si presume comune, quello di una felicità immaginata come prêt-à-porter, che deve necessariamente disvelarsi dall’aderenza pedissequa a una certa tipologia di lifestyle, ricreata seguendo le tracce di un afflato già divenuto standard globale. Nell’economia di un discorso geometrico di ambizioni incerte e vocazioni problematizzate, la realtà circostante smette di essere il fine per trasformarsi nel mezzo per un fine imprecisato e comunque sempre irraggiungibile, pena il malessere spleenetico che si prova quando si raggiunge il traguardo tanto a lungo agognato.

Avevano ritrovato l’abbondanza di tempo, ma in qualche modo quel tempo risultava sprecato. L’entusiasmo sembrava essere sempre un filo più in là, irraggiungibile.[5]

Per capirsi meglio, poi, bisognerebbe intendersi sul significato dell’espressione “realtà”. La realtà è quella che viviamo o quella che vorremmo vivere? Forse, dal momento in cui il quotidiano ha iniziato a subire passivamente la dittatura ipertrofica dell’immagine, dovremmo parlare di para-realtà, basata su fenomeni peculiari e caratterizzanti come la vetrinizzazione sociale, il livellamento del gusto, l’omogeneizzazione dei consumi e delle mode. Motivi in parte tipici della società massificata contemporanea, certo, ma esacerbati dai processi di virtualizzazione sviluppatisi negli ultimi quindici anni all’ombra del capitalismo mediatico,[6] che ci hanno reso innanzitutto spettatori delle nostre stesse vite, ispessendo il divario tra apparenza e verità. Pur credendo di star ridisegnando una nuova piramide valoriale in cui termini un tempo focali – come solidità, stabilità, sicurezza economica – vengono rimossi e sostituiti da nuovi bisogni maggiormente aderenti alle proprie vocazioni esistenziali, la generazione dei millennial, quella di Tom e Anna, si è poi rinchiusa volontariamente entro le griglie fascinose ma opache di una mitologia che si autoalimenta mediante le immagini ingannevoli che proliferano sui social; mitologia subìta a livello esogeno e poi introiettata inconsciamente.

Se in Le metropoli e la vita dello spirito Simmel scriveva che «siamo esseri differenziali, perché a stimolare la coscienza umana è ciò che distingue l’impressione presente da quella che l’ha preceduta»,[7] è altrettanto vero che oggi l’anestetizzazione delle differenze – evidente in tutti i settori di produzione e del commercio (vestiario, arredamento, alimentare) e soprattutto nei progetti di gentrificazione e riqualificazione urbana (destinati a brandizzare le città) – lavora in direzione opposta, con l’obiettivo di alimentare e poi difendere una visione rassicurante perché ovunque provvista di sembianze simili, così come una bellezza normativizzata, aderente ad un canone etereo, globale ed epidermico. Anche la creatività e l’arte, intesa nelle sue più variabili forme, si fanno, in questo costante processo di ottimizzazione, monodirezionali, strumenti preferenziali per alimentare e coltivare quella che risulta essere una falsa individualità (o “diversità di massa”, per usare un’espressione cara a Walter Siti), adeguata a determinati input per essere meglio spendibile sul mercato, in un più ampio movimento in cui l’universale finisce per erodere tutto il particolare.

Latronico, mentre decostruisce con una scrittura osservativa, denotata ma mai neutra né giudicante, questa mitologia dalle fondamenta fragili, tratteggia al contempo, rifuggendo da vaticini moraleggianti, un segmento socioeconomico centrale dello spirito di questi nostri tempi, lasciando presagire la fisionomia sfuggente del malessere esistenziale che nasce e si afferma quando viene ad esaurirsi «l’illusione dell’infinità»,[8] quando cioè ci si accorge che la ricerca del benessere non traghetta verso alcuna serenità, che invecchiare non vuol dire per forza diventare adulti (soprattutto nel passaggio dai venti ai trenta) e che la novità minimale delle esperienze impallidisce di fronte al susseguirsi sempre identico delle stagioni (d’altronde, nell’epoca moderna «il volto del mondo non muta mai proprio in ciò che costituisce il nuovo, che il nuovo, anzi, resta sotto ogni riguardo sempre lo stesso»).[9]

Se le stesse premesse fondative, sedimentatesi alla base di un certo “ideale” di esistenza, iniziano ad entrare in crisi, ad apparire instabili, mal poste sin dall’inizio, la volontà a lungo difesa di autoescludersi dal resto, di serrarsi entro una supposta comfort zone (la famosa “bolla”), lascia trasparire la sua speculare zona d’ombra, provocando un progressivo sentimento di asfissia, di arbitrarietà e, come nella più classica eterogenesi dei fini, di paradossale disappartenenza e solitudine. Anche l’idea di cambiare tutto, tornare in Italia, dedicarsi ad altro, si rivelerà allora insoddisfacente perché il gioco a cui si è costretti a partecipare è, in fine dei conti, a somma zero. Il desiderio non ci appartiene più, è diventato un fantasma dalle fattezze irriconoscibili. Tuttavia, e qui sta in parte il pregio del romanzo, il graduale moto di smontaggio del connubio apollineo di un amore  perfettamente equilibrato nel gioco di intimità ed estroflessione, viene effettuato da Latronico con passo cadenzato, millimetrico, inclinando impercettibilmente il piano sopra il quale a poco a poco Tom e Anna cominciano a rotolare.

Del resto, in un romanzo in cui la trama è pressoché assente e in cui l’oggettivazione dei caratteri chiede in cambio la rinuncia ad uno scavo psicologico approfondito, è necessario lavorare sulla disposizione dello sguardo narrativo, sulla narrativizzazione della graduale presa di consapevolezza dei protagonisti e, in particolar modo, come insegna Perec, sull’utilizzo delle forme verbali. L’alternanza dei tempi verbali – imperfetto, passato remoto, futuro – assume, infatti, un ruolo fondamentale perché scandisce le tappe della traiettoria narrativa, restituendo strutturalmente la parabola frustrata del percorso dei protagonisti, soprattutto quando il condizionale sostituisce l’indicativo per segnalare la sovrapposizione mai collimante tra il piano ideale e quello effettivo delle vite narrate. Così facendo, Le perfezioni, da rappresentazione fedele di una coppia irrisolta, intrappolata suo malgrado in un reiterato esercizio performativo del vivere, si tramuta in epitaffio di un intero immaginario generazionale, nato in seno alla società dei consumi ipercontemporanea e destinato ad implodere a causa delle contraddizioni che ne hanno minato, sin dall’origine, lo sviluppo.


[1] R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, Milano, Bompani, 1981, p. 17.

[2] J. Lacan, Du discours psychanalitique, in Id., Lacan in Italia 1953-1978, Milano, La Salamandra 1978, p. 48.

[3] J. Fontcuberta, La furia delle immagini. Note sulla postfotografia, Einaudi, Torino, 2018, p. 3

[4] V. Latronico, Le perfezioni, Milano, Bompiani, 2022, p. 17.

[5] V. Latronico, op. cit., p. 114.

[6] F. Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Roma, Fazi, 2015, posizione Kindle 306 di 10085. 

[7] G. Simmel, Le metropoli e la vita dello spirito, Roma, Armando Editore, 2012, p. 36.

[8] V. Latronico, op. cit. , p. 45.

[9] W. Benjamin, I «passages» di Parigi, vol. II, Torino, Einaudi, 2010, p. 609.


Vincenzo Latronico, Le perfezioni, Bompiani, Milano 2022, 144 pp. 16,00€