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Diario dal Lido: vedere, leggere e ascoltare il White Noise di Noah Baumbach

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La nostra inviata alla 79ª Mostra del Cinema di Venezia Jessica Puliero racconta l’atmosfera che si respira alla kermesse in un diario a puntate. Si parla di “White Noise” di Noah Baumbach, “Princess” di Roberto De Paolis e “Blue Jean” di George Oakley

Al suo spettacolo teatrale sulla vita di Dostoevskij, ricordo che Paolo Nori esordì con un’allusione alla sua risposta preferita, non lo so; una formuletta che opponeva molto spesso a interlocutori di ogni tipo, senza timore di ostentare che lui, se una cosa non la sapeva, beh, pazienza.

Sto seduta sulla gradinata del Palazzo del Casinò; davanti, il piazzale di pietra bianco sporco che in molti avranno intravisto nei servizi alla tv: è semideserto ora, impreziosito da una dozzina di monoliti semisferici che paiono dischi alieni abbandonati, invece sono panchine. Al mio fianco c’è un ragazzo sconosciuto in calzoni da lavoro; aspira da uno stiletto d’acciaio fucsia e sbuffa vapore, regolare come un metronomo, e tiene lo sguardo fisso a Oriente, in un punto indistinto che potrebbe essere il mare vero, anche se da qui somiglia più a quadretto azzurro incassato in una cornice marchiata Campari. Sono abbastanza sicura che, se questo ragazzo avesse la generosità di chiedermi cosa ci faccio qui, gli risponderei anch’io non lo so.

Poi, certo, per non strozzare la conversazione aggiungerei che sono venuta per l’accredito della 79ª Mostra di Arte cinematografica di Venezia; per gli ultimi momenti di quiete dietro le quinte, con le martellate, i rimbombi dai cassoni dei camion, i richiami tra i carpentieri che rimbalzano tra i manifesti patinati prima che il pastiche di facce, flash e film cominci; per questa bolla folle di cui, tutto sommato, sentivo la mancanza.

Ma il tipo è un avaro, o forse in quello spazio inarticolato anche il suo spirito ha perso la misura del tempo e delle cose intorno; così me ne vado e basta, ricacciando in gola le mie risposte un po’ snob e in tasca il badge verde con la scritta “Cinema” che da domani mi servirà per attraversare quest’isola nell’isola.

Il mattino mi metto in viaggio sotto un cielo livido che cola pioggia, nell’aria resiste il tepore dell’estate morente. Arrivata a Lido, imbocco «il bianco viale fiorito che, fiancheggiato da caffè, bazar e pensioni, taglia in due l’isola fino alla spiaggia» (Morte a Venezia, p. 26, ed. Mondadori) con un monopattino a noleggio. Sono quasi le otto e trenta, mancano pochi minuti alla prima proiezione di oggi.

E dunque, White Noise di Noah Baumbach. C’erano grandi aspettative e non poteva essere altrimenti, trattandosi dell’adattamento di uno dei più amati romanzi di Delillo. Roba da far tremare i polsi e affilare i canini a un sacco di gente. A ogni modo, per chi non avesse letto il romanzo (argh!), o almeno la sinossi, la storia è ambientata negli anni Ottanta (epoca ormai prediletta dagli sceneggiatori) a Blacksmith, cittadina del Midwest americano. Jack Gladney è un professore specializzato in studi hitleriani, venerato dai suoi studenti e stimato dall’intero ambiente accademico. È sposato con Babette, insegnante di ginnastica posturale afflitta da vuoti di memoria causati da una misteriosa pillola (il Dylar), e insieme ai quattro figli avuti dai loro precedenti matrimoni formano la tipica famiglia della classe media americana dell’epoca: numerosa, unita, progressista. Conficcato come un cuneo in questa vita di successo ordinario c’è il pensiero, ossessivo per entrambi, del tempo che passa, della morte che inesorabilmente si affaccia da un futuro sempre più vicino.

Con una regia che non teme l’accostamento di generi diversi, tra humor grottesco, fantascienza e noir (su tutto, l’inquadratura della nube tossica che allaga un cielo notturno squarciato dai fulmini, con tanto di primi piani alla Spielberg), il film alterna momenti di pura azione ad altri di riflessione profonda, situazioni corali a dialoghi intimi e rivelatori dei drammi interiori che attraversano i singoli personaggi. E poi c’è la letteratura, che dal romanzo s’insinua tra le righe della sceneggiatura, immortalandola con frasi iconiche come “la famiglia è la culla della disinformazione mondiale” o “e se la morte fosse solo un suono, un rumore bianco?”. Memorabili i titoli di coda, piccolo musical ipnotico dove il supermercato traboccante di parole, suoni e colori, rappresenta il non luogo perfetto in cui lasciarsi distrarre dalla catastrofe, già avvenuta o imminente, collettiva o personale che sia. Insomma, per citare una tizia al Caffè dopo la proiezione: “Io i voti assolutamente non li do, ma casomai sarebbe un otto”.

Quando esco la luce mi abbaglia, e non è solo il contrasto con l’oscurità della sala: c’è un sole che ti fa abbassare gli occhi e sparge sulle fronti un brillìo di sale; sussulti d’estate, indomiti. Aspettando l’indomani, con il secondo attesissimo film in concorso, Bones and all di Luca Guadagnino, decido di chiudere la giornata infilandomi in qualche sala con posti disponibili e film apprezzabili. Le sezioni Orizzonti e Giornate degli Autori sono, sotto questi aspetti, sempre una garanzia e riservano notevoli sorprese.

Dalla sezione Orizzonti spunta allora Princess, di Roberto de Paolis, storia di una prostituta nigeriana che si guadagna da vivere nelle campagne fuori Roma perché, come dirà lei stessa, «le bianche lavorano in città, le nere nel bosco». Drammatico, duro, Princess è un film non fa sconti a nessuno e trascina lo spettatore negli abissi disperati di una vita ai margini, dove il corpo è mero strumento per ottenere la sola chiave di un futuro possibile, il denaro. Un film che, evidentemente, gioca fin dall’inizio con alcuni tra gli elementi costitutivi della favola, rovesciandoli: la principessa è una ragazza cinica, feroce, indurita dalla vita di strada, il bosco non è più il luogo magico dell’avventura, ma quello squallido della mercificazione del corpo, e il principe azzurro è un cocainomane a bordo di una Ferrari bianca, rappresentazione simbolica di un’illusione già marcia, di una capitale evocata ma sempre irraggiungibile. Purtroppo, nonostante le buone premesse e una prima metà solida, con una regia che strizza l’occhio al documentario, il film inizia a mostrare qualche crepa, la scrittura diventa più farraginosa e il finale non si capisce bene dove voglia portarci. Restano l’ottima interpretazione della debuttante Glory Kevin, venticinquenne che la vita di strada l’ha vissuta sulla sua pelle, e di Lino Musella, veterano dei nostri schermi, che con delicatezza riveste il ruolo del mentore atipico e disilluso.

La seconda sorpresa sarà Blue Jean, della regista britannica George Oackley. Siamo nell’Inghilterra della Thatcher e da poco è passata in Parlamento una legge (la cosiddetta “sezione 28”) che stigmatizza gli omosessuali e le lesbiche, equiparandoli di fatto ai pedofili per la loro moralità “deviata”. Jean è un’insegnante di ginnastica, con un matrimonio eterosessuale fallito alle spalle, che tiene nascosto il suo rapporto con un’altra donna per evitare ritorsioni pubbliche. Ma l’incontro con una nuova alunna, Lois, anche lei alla scoperta della sua sessualità, la metterà di fronte ai suoi limiti, alle menzogne che tiene in piedi pur di sopravvivere, al disagio per l’incertezza del suo posto nel mondo e al terrore che forse questo posto, per i deviati come lei, non ci sia né ci sarà mai. Sceneggiatura e regia riescono a dar risalto a forze e debolezze del personaggio di Jean, giocando con i colori (il blu che accompagna costantemente Jean, con mutamenti di tonalità tesi a sottolinearne fragilità e mutevolezza di stati d’animo) e imprimendo tematicità alle inquadrature, a quei primi piani che svelano tutto il dramma personale della protagonista, l’angoscia e la vergogna per il suo fallimento come modello nei confronti di Lois. Anche qui, come per Princess, manca il finale netto, ma pur nelle mille incertezze che ancora l’attendono, Jean sembra riuscire a credere nell’idea che al mondo ci sarà un posto anche per lei.

È tardi ormai e oltre i cancelli della Cittadella del Cinema non si vede nessuno. Il lungomare, i marcipiedi che portano alla stazione del vaporetto, tutto è incredibilmente vuoto se paragonato alla brulicante piccola galassia che si estende dall’Excelsior al Palazzo del Casinò.

Lievemente stordita, osservo con occhi affaticati la facciata principale dell’Hotel Des Bains – quell’opulenza ormai inutile che sa di decadenza austera e disperata, la desolazione delle ampie vetrate e il collier di alberi lussureggianti tutt’intorno – stagliarsi nel crepuscolo, oltre un cancello di lamiera che sbarra l’accesso ai non addetti. Lassù, a circa trenta metri d’altezza, l’antico orologio segna le 10:40. Da quanto è così? Non lo sa nessuno. Ma il tempo, sembra dirci, qui al Lido non esiste: su quest’isola è lecito divorare storie senza saziarsi, attraversare epoche senza invecchiare, vivere mille vite nell’illusione di non morire mai.

Credo sia questo il mio rumore bianco; e domani tornerò per ascoltarne ancora un po’.