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#mappe – Sei brevi lezioni di sopravvivenza: Toronto, Ontario, Canada.

I / separazione / il nord

Quello nei laghi del nord sarebbe stato l’unico bagno dell’anno, Tobermory, Ontario, Canada. Io e quattro cinesi o giapponesi o coreane, viaggiamo di notte per strade drittissime – le distanze inspiegabili delle assenze di insediamenti, le periferie, le campagne. In sette ore d’autostrada facciamo una sola sosta da Tim Hortons, una sorta di Starbucks canadese, mangiamo schifezze fritte e caramellate e un bicchiere di carta enorme di black coffe, per quando arriviamo è l’alba, rosa e verde, freddissima, le nuvole promettono pioggia nel pomeriggio, si riflettono nel lago e fanno tutto grigio. La foresta che segna i confini, il colore incontaminato del sottobosco, quel marrone forte, materno, e nessun odore, nessuno che dica è presto. Noleggiamo un kajak, a due a due ci inoltriamo nel lago, lo sciacquio che si rimescola, scarpe puntate e remi inforcati. Lei si chiama Heeya, è di fronte, i capelli lucidi e neri, in perfetto equilibrio. La barca va da sola, scorre piano, rallentiamo nel mezzo. Non ho mai provato tanto silenzio in gola, e col silenzio la separazione. Si avvicina l’altro kajak e ridono di tutto, hanno una custodia impermeabile per il cellulare e scattano foto a loro, a noi, al lago, alle peonie, mi raccomando di inviarmele, e ci inoltriamo per un passaggio stretto che connette il lago maggiore a quello più piccolo, poi le rocce, poi la grotta e la barca sommersa. Il fondale è basso e ci incagliamo, io sono l’unico uomo, allora scendo, affondo nei detriti coi piedi nudi e provo un grande schifo, ma non penso e spingo. C’erano centinaia di ninfee sulla superfice, non avevo mai visto una meraviglia del genere, e l’infinità degli insetti. Passiamo. Di là il sentiero risale dall’acqua alla costa, la traccia è antica e minacciata dalla natura, i pini marittimi che avanzano sul selciato. Costeggiamo il lago fino al terrazzamento di roccia, dall’alto vediamo la barca affondata, sommersa, verde di alghe. Vedo un castoro. Il castoro con gli allagamenti danneggia strade, ferrovie, raccolti, lo fa perché è un grande nuotatore e così si inoltra nella foresta nuotando, raccoglie, poi torna. L’acqua è gelida e il petto diventa rosso a chiazze, l’unico bagno dell’anno. Nuoto fino alla barca, allungo un piede a toccarla, è viscida, ormai un corallo, o una lingua, potrebbe guizzarmi via. Seduti bordolago mi fa maybe this will be the best memory of Canada, aveva delle alghe appiccicate tra le dita dei piedi, eravamo sereni, troppo sereni, fantasmatici. Ascoltai la storia di Nuljialiuk, custode delle acque del nord, pesce donna, pesce mostro, e diecimila nomi, noi invece chiamiamo l’acqua solo acqua.


II / nessuno / Toronto


Mi controllano i documenti, mi chiedono quanti soldi ho. C’era un documentario in tv che mostrava chiaramente quanto fossero stronzi i controllori degli aeroporti canadesi. Poi vedo un signore con un cartello, Frolleni, devo essere io, mi fa un cenno col capo, è al telefono, mi accompagna in macchina. Costaricano, ma non fa differenza, qui siamo tutti canadesi, sorride, gli rispondo veloce, frasi preparate durante il volo: perché sono lì, dove sono. Sono ospite di Dèspina Koutsukosta. Mi danno il benvenuto in casa lei e i suoi 4 figli, uno, Costantinos, ha il macchinone parcheggiato di fronte casa e parla solo di questo, lei invece fa l’insegnante di lingua greca e le polpette più buone del quartiere, Corso Italia District. Io non avevo niente da raccontare, non era la prima volta che mi vergognavo di me. Mentre siedo on the balcony sul retro, il cielo sembra più grande o più vicino e l’umidità fa venire l’artrosi, fa scoppiare le scale. Siamo a giugno e in valigia avevo una maglia di lana, sai il Canada, farà un freddo boia anche d’estate, e invece no, c’è gente che muore di caldo. Toronto megalopoli, chiese più basse dei palazzi, rifrazioni, attraversamenti enormi, che ci metti cinque minuti per attraversare un incrocio. Mi compro un paio di scarpe nuove, quelle buone per camminare. L’antico come feticcio, il campus in stile british, pennacchi, ma tutti finti, di inizi Novecento. Prendo il traghetto che porta alle Front Islands, il lago è un lago che sembra un mare. Il tramonto bellissimo di smog, la skyline, i grattacieli che da lontano sembrano gommosi, commestibili. Posso raggiungere l’università senza mai vedere l’aria. Ci muoviamo per sotterranei e luce elettrica perenne, città sommersa, ventisette chilometri di strade, The Path, salva la vita, d’inverno fuori ci sono meno quaranta, ogni giorno c’è il bollettino che ti indica quanti minuti puoi stare in giro prima di congelare. Non si può descrivere la città di notte, le luci interminabili della periferia, grande come un’altra città qualsiasi, senza più la facoltà di non vedere, ma lo puoi immaginare. Solo le strade diritte, tutte diritte per centinaia di chilometri, impossibili per noi che siamo dopotutto quelli dei sentieri. Sarà la centesima volta che faccio questa strada, e non mi riesce ancora di riconoscerla St. Clair West, è piena d’italiani che urlano al bar – l’America non è qua, ma dove se la ridono – qua tutto è costruzione, grattacieli popoleranno la loro immaginazione, ogni anno a capire quale il più alto, il più brutto, assomigliano alle nuvole, perché le riflettono, le immagazzinano, le vendono – Bay st. come Wall st,. quartiere delle nuvole, non ci vive nessuno. We are memories, dice Dèspina, Pina per gli amici, poi di nuovo, minestrone language e ride, balla il sirtaki, conosce Berlinguer. Una via fatta di case con la stessa idea, senza cancelli, mi racconta di tutti i suoi inquilini negli anni, le danno una miseria quelli dell’università,  ma va bene così, tutti figli suoi, ricorda i nomi degli italiani Francesco, Giuseppe. Di fronte casa un calabrese con la bocca sdentata, non spiccica una parola d’inglese e sono quarant’anni che sta lì, Joe, dicono sua moglie impiccata nel basement.


III / qualcuno / Toronto

Jan e Tiziano mi parlano in italiano e mi spiegano la città, la nazione. In Canada hanno i dollari canadesi, hanno la regina Elisabetta, parlano tutti inglese tranne il Québec, dove parlano il francese e sono il 17% della popolazione totale, ma sono potenti, hanno lottato per una secessione, hanno ottenuto un bilinguismo costituzionale, a sentire il presidente Trudeau junior, figlio del famoso Trudeau senior, quello del multiculturalismo, della “società giusta”, fa un po’ ridere, cambia lingua in continuazione, un po’ in inglese e un po’ in francese, e così sia. Mi invitano a mangiare al ristorante della CN Tower, la seconda torre più alta al mondo, dopo Dubai, il ristorante ruota continuamente, e mentre mangiamo vediamo tutta la città dall’alto. Sono i miei professori, li seguo, faccio da lettore per loro. Hanno degli studenti che vogliono imparare l’italiano, vogliono andare in vacanza principalmente e si possono permettere anche un corso di lingua, ma anche fidanzat* italian*, e altro ancora. Conoscono la moka, sanno ovviamente della cucina, sanno che a Toronto ci sono tantissimi italiani, che un tempo è stata la seconda lingua più parlata nella città, quando ora invece è il mandarino. Vedono gli eventi e le bandiere a Casa Loma, enorme villa neogotica che spesso ospita le varie delegazioni italiane. Mi scrive Jodye, suda tantissimo, mi chiede ripetizioni private alla fine del corso e per proseguire sono trentacinque dollari all’ora, minimo, ci vediamo in un bar con patio, mi offre da bere e diventiamo amici, non le chiedo più i soldi, andiamo al cinema, mi racconta di Pompei: di una volta in cui un vecchio gli siede a fianco e le inizia a raccontare tutto, come potesse capire. Catherine invece ha un appartamento a newyorkcity e con le amiche un circolo di lettura, leggono Elena Ferrante, l’Italia esotica, conosce quattro lingue, vuole sapere i nomi di tutti i vini e fare bella figura al ristorante, in hotel, masticarlo un po’ il sapore della lingua. Mi ospita in casa nel suo cottage con piscina e abeti intorno, sauna, sala da biliardo, all’alba una volpe vera, una creatura di fuoco alla porta. Le insegno la differenza tra ti amo e ti voglio bene, mi offre un bicchiere di vino in un posto che vorrebbe sembrare una località di montagna, le capannine, i ristoranti, le assi di legno, a nord di Collingwood. Di sua figlia non ricordo il nome ma fa l’artista, mai laureata, l’altro lo chiama sweetheart e ha un’azienda, ha marito malato di tumore ma non si scompone. È un contratto, dice a contract, l’amore. Poi mi racconta di un amante greco, bellissimo, di come la cosa s’è sfaldata, per telefono, vent’anni dopo. Ci abbracciamo, mi fa ti voglio bene, no ti amo, la ricordo lontana sventolare una mano. Scrivo una mail al poeta laureato del Canada. Il poeta laureato siede in parlamento, è pagato per fare il poeta, per ricordare gli eventi più importanti, può anche essere un dissidente. Due anni sono anglofoni, due anni francofoni. Risponde, George Elliott Clarke. Ci vediamo da Fox & Fiddle, Church st. | Wellesley, mi lascia un libro non suo, i soldi sul tavolo
dice I’m in a hurry, Ricardo, promette di rivederci presto, la risata più bella del mondo. Mi fa conoscere la figlia, le faccio qualche domanda, avere un poeta come padre le sembra normale a volte, mentre sono lì a parlare una lingua non mia, penso di avere i miei seduti da qualche parte dietro, li immagino non capire esattamente cosa stia dicendo o capire tutto.


IV / separazione / l’america

C’era il poeta Emanuel Carnevali, morto di fame, una delle storie più tristi d’europa, insieme a lui il mio trisavolo anch’egli poeta, non è rimasto nulla dei suoi versi, probabilmente volatili, magari bellissimi, magari solo un sogno. Probabilmente non era con lui, eppure in america c’è andato e in quel periodo lì, ancora minorenne Angelo Frolloni parte, si fa affigliolare da qualcuno e così evita la mano nera, la mafia, per sfuggirne si nasconde sottoterra, la monumentale costruzione della prima metropolitana del mondo, New York.  C’è una cartolina in casa di lui vestito elegante su carta da parati a strisce e un tavolino alto con un vaso e dei fiori, un posto finto, uno sfondo da studio fotografico o non so, l’America, dove tutto è più grande. C’è un ritratto, un quadro o una foto non si capisce, gli occhi ti guardano sempre se ti sposti. Poi probabilmente andrà in Ontario, in una qualche cittadina a nord di Toronto, a fare la legna, dove nessuno ti controlla, dove se rimani a secco di benzina non ti puoi avvicinare ai ranch per chiedere aiuto perché ti sparano, perché nessuno gira da quelle parti. Nonnu Frollò, capostipite della mia famiglia, evita l’inferno della Ford a Detroit, racimola qualcosa e se ne torna a casa, quello basta a comprare una terra e vincere la mezzadria, un lotto in montagna secco, sassoso, ma quello basta per fondare una casa e una famiglia, sposare una ciociara. Altri erano partiti, molte le storie simili tranne una. Si dice che a Gualdo c’era uno ammogliato forse con figlio che torna dopo trent’anni, che lo davano morto, torna senza un soldo, senza una spiegazione, ma un carretto, tirato da Napoli fino in montagna, e sopra un’incudine, solo una gigantesca incudine.


V / sopravvivere / Margaret

Il Canada non è l’America. In Canada non ci si ferma. A Montréal il primo insediamento stabile, ma solo perché in Francia c’era la moda dei cappelli di castoro e lì gli indigeni ne vendevano a buon mercato, nel 1720 c’erano meno di duemila anime, meno degli abitanti di Sarnano, il mio paese d’origine. Troppo freddo per fermarsi, meglio il sud, meglio l’America. Si parla del Canada e si parla di ciò che non è, cioè dell’America. Non si può negare, sono molto simili agli americani, per noi che siamo del vecchio continente, sono praticamente americani. Hanno le case a schiera, prefabbricate, come in un qualsiasi film di Clint Eastwood. Ma se posso immaginare la faccia di un americano, non posso immaginare la faccia di un canadese, perché il canadese non esiste. Esistono gli indigeni, gli inuit, ma non il canadese moderno. Il canadese è un immigrato, e come tale conosce bene il verbo to survive. Margaret Atwood ci scrive un saggio, Survival: A Thematic Guide to Canadian Literature (1972), dove ci spiega che tutta la letteratura canadese, e dunque la vita canadese, è segnata dal concetto della sopravvivenza. L’immagine centrale, equivalente all’immagine dell’isola nella letteratura britannica e della frontiera nella letteratura americana, è la nozione di sopravvivenza e il suo carattere centrale di vittima. Schiacciati da due forze estreme: il nord, ovvero, la natura, violenta, enorme, pericolosa, inesplorata; e il sud, cioè l’America, con la sua fame divoratrice, il progresso, le città, la comunicazione. L’immagine non è statica; secondo Atwood sono possibili quattro Victim Positions: 1) negare il fatto di essere una vittima: i membri del “gruppo-vittima” rinnegheranno la loro identità di vittime, accusando quei membri del gruppo che sono meno fortunati di essere responsabili della propria vittimizzazione; 2) riconoscere il fatto che sei una vittima, ma attribuirlo a una forza potente al di fuori del controllo umano come il destino, la storia, Dio o la biologia; 3) riconoscere il fatto che sei una vittima, ma rifiutare di accettare l’assunto che il ruolo sia inevitabile; 4) essere una non-vittima creativa: una posizione da “ex vittime”, quando la creatività di ogni tipo è pienamente possibile. Anche critici illustri come Northrop Frye e Marshall McLuhan ne parlano, accennano a questa resistenza, questo tentativo continuo di riscattare la ferita originale. Frye in The Bush Garden (1971) parla di garrison mentality, cioè che la prima identità canadese fosse caratterizzata dall’isolamento e dalla paura di un paesaggio nazionale vuoto. I personaggi guardano all’esterno dei loro ambienti e costruiscono muri metaforici contro il mondo esterno.


VI / tornare / Bologna

Ho lasciato Toronto che la mia regione era devastata dal terremoto di Amatrice, la casa dei miei nonni, quella costruita a mano dai miei avi, quella di mio padre, distrutta. Poi dovevo pensare alla laurea, e alla traduzione di Richard Harrison, vincitore del Governor General’s Literary Award. Il libro si chiama On Not Losing My Father’s Ashes in the Flood, e parla dell’alluvione dell’Alberta, parla della morte del padre e del figlio poeta che gli sopravvive. Invitammo Harrison a Bologna, lui leggeva le sue poesie in lingua e io le traduzioni, eravamo a Palazzo Boncompagni, e c’era anche mio padre. Due settimane dopo sarebbe morto d’infarto. Harrison mi invita in Canada, mi dice che all’università di Calgary avrei accesso immediato a un PhD, ma rifiuto. Ancora oggi mi scrive, mi chiede di me, della mia poesia, di Bologna, del Covid e della guerra in Ucraina, mi manda le foto di Lisa, la moglie, e dei suoi figli. Ho stampato la foto della casa di Dèspina in Westmount Ave, chissà se è ancora viva.