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#Mappe – Quando a Feltre c’era il mare

La prima volta che, per darti un tono con chi chiede del tuo accento, rispondi che sei di Feltre – e non “da” Feltre, come sarebbe giusto e sacrosanto poter fare –, il tuo interlocutore inizia a tessere gli elogi di quello che tutto sommato non è un brutto quartiere del nord-est milanese.

Come se bastasse poi salire sulla verde fino a Udine – cosa di per sé piuttosto buffa, per un feltrino (si chiamano proprio così, come i sottosedia; ma stanno in Veneto, non in Friuli) – per rinvenire un’isoglossa strana farsi largo tra i parlanti di una cantilena piena e cupa, con le sue vocali aperte ma come certe serrande a tarda notte da cui filtra la luce, la sua tendenza a masticarsi le doppie e gli accenti ma senza la vena comica, godereccia e un po’ ocheggiante che fu di tanto neo-realismo (e che per comodità qui indicheremo col trevisano “ciò”).

Per i milanesi però è ok. Non ti hanno chiesto “da dove vieni”, ma solo dove stai. Questa città, di per sé esecrabile o elogiabile, gabbia o rifugio, non ha forse altra cittadinanza se non chi c’è.

Certo, ti hanno sgamato subito la “e” con cui pronunci “Fèltre”. Ma è solo il segnale che non sei di qui. D’altronde, passeranno pochi mesi prima che in via Pichi quello che ormai è un tuo caro amico riesca a scambiare un veneziano vero per un bergamasco – robe che ti porti a casa la pellaccia solo per quei tre secoli di ritardo. All’orecchio milanese, quanto sta a nord-est è evidentemente tutto un pastorello (bergamasco).

A dirla tutta neanche per i veneziani al tempo dev’essere poi stato tanto chiaro – se contiamo che anche Feltre, come Bergamo, è stata serenissima dal ‘400 circa a Campoformio. Per la rigida tripartizione geografica lagunare – centrifuga e curiosamente antropocentrica: venexian, campagne, foresto – entrambe le città e i loro abitanti stavano indiscriminatamente in mezzo, tra ciò che loro erano e ciò che non era loro.

“Certo un po’ strano, spesso fuori zona, ma brutto no”, dice l’autoctono. Non sa probabilmente quanto ciò che dice del quartiere Feltre esprima più che mai l’essenza della tua cittadina. Che poi, cittadina: parliamone. La superficie complessiva del comune di Feltre misura più del doppio di quella di Bergamo: circa metà di Milano. A questo aggiungici però che, come densità della popolazione, siamo a un decimo di entrambe, o meno. E, come Bergamo rispetto alla Lombardia e il quartiere omonimo rispetto alla città meneghina, anche la città di Feltre è nel Nord-est: se il Veneto è una pecora, è giusto sul groppone. Il fatto che poi sorga sul colle delle Capre rende il tutto un po’ più entusiasmante.

(Il Veneto è palesemente un ovino, e Feltre sta sulla collottola)

Diciamo che si può vederla in due maniere. Il fatto che ci sia una via (e un quartiere intero) a ricordarti che quel posto sperduto in un nord-est più grande esiste per davvero, può darti la riprova dell’oscura ambizione di Milano a farsi frattale dell’Italia, mise en abyme di un paese in cui (credo lo dicesse Calvino) da un punto di vista sociale e politico ci sono sempre, ma soltanto, le condizioni.

Se a Segrate segui dritto sulla tangenziale est, però, non ci saranno brividi lungo la schiena a ricordarti questa terribilità mancata. Se poi imbocchi pure l’A4 e la percorri (quasi) tutta – e pazienza se poi paesini su paesini si affastellano da Vicenza o Cittadella in su – a un certo punto puoi vederlo, il fatidico cartello direzione Feltre. La distanza tra il primo di questi e la città ha dell’incredibile; il conteggio dei chilometri, rotonda dopo rotonda, capannone dopo capannone, si aggira sempre attorno ai 48. Se non sei proprio un boccalone però lo avevi già capito, che con quest’ultima sessantina di chilometri (circa) c’era da gettare il cuore oltre l’ostacolo.

Diremmo, con la voce di Paolo Brosio conduttore di Linea verde, che ci stiamo dirigendo verso uno dei cuori segreti d’Italia. Ce ne si accorge forse a Treviso, quando qualcuno argutamente osserva che la strada che percorre non si chiama trevisana ma feltrina; «e che la dicano a quei di Belluno», il capoluogo di provincia (che però, come ama dire l’amico Didier, è pur sempre la Feltre dei bellunesi).

«Feltria nivium perpetuo damnata rigori | mihi posthac non adeunda vale», attribuita a Cesare

Di Feltre e dei feltrini ne parlano Cesare e Dante; tutti e due lasciando intendere che forse era meglio lasciarli stare, non averci troppo a che fare. Bassani nella prima delle Storie ferraresi sembra darle quasi i tratti di una zona di frontiera o di confino, dove anche volendo non si può arrivare: dove l’amore non può resistere. («Non si deve mai andare a Feltre, Paolo», chioserebbe il Sassaroli).

Proprio al palazzo palladiano posto sulla sommità del Colle, tra l’odierna sede del Comune e le prigioni antiche, si compì l’apprendistato cancelleresco (ma anche teatrale) di Carlo Goldoni. Vi giunse perplesso, capì ben presto dov’era finito – «strade amenissime», «feste, banchetti, allegrie» –, si innamorò di una locale conosciuta a dieci leghe di distanza, in un paese di pianura (verso chissà, Lentiai o Santa Giustina) e infine la lasciò, assieme alla città, senza sposarla.

Effettivamente, Giovanni Comisso ne ricorda le «prospere donne», che da qui scendevano verso il basso Veneto a fare le balie, mentre «i loro uomini erano così miseri che dovevano emigrare all’estero in cerca di lavoro». Feltre è una città da sempre borghesissima, ma basta sconfinare impercettibilmente e in pochi passi sei nei boschi, inerpicandoti su colli e monti, in aperta campagna. Anche questo fa parte del suo fascino bifronte – come l’aquila bicipite boema del quartiere di Port’Oria, uno dei quattro quartieri della città assieme a Santo Stefano, Castello e Duomo.

Pare che Montale, in una sua intervista, dichiarasse di avervi cantato: presso il teatro della Sena, riproduzione in scala della Fenice pre-1836. Ma solo uno spazzino vi assistette, oltre al suo feltrinissimo ospite, Silvio Guarnieri – uomo politico e di lettere, amico fraterno dei maggiori scrittori del Novecento: ricordo (ma è un ricordo di seconda o terza mano) di una fotografia risalente all’anno del signore 1957, scattata nei pressi dello Stadio Zugni Tauro – sede della mitologica Feltrese, ora Dolomiti Bellunesi – assieme a Pasolini e Morante…

Zanzotto nel ’79 ci ha stampato la prima edizione di quei Mistierói poi apparsi nell’86 in Idioma; e – nonostante abbiano fatto il possibile affinché se ne perdessero le tracce – persino alcuni tra i più in vista dei contemporanei: quelli (o quello, per capirci), più eclatantemente «senza nome» (beninteso, quando lo erano alla lettera; cosa che ci rammenta, una volta di più, che la regola numero uno della buona creanza è ricordarsi sempre “da che bus che te se vegnest fora”).

Feltre (o meglio Fianema) ha dato i natali all’umanista Vittorino; al Panfilo Castaldi che per secoli ha conteso a Gutenberg la stampa (ma in Cina si faceva già da mo’); e al Bernardino Tomitano che – lui sì, per davvero – inaugurava quella florida stagione di populismo un po’ xenofobo che per semplificazione indicheremo con la feroce euforia che il feltrino medio “mette su” con un grugno o un ghigno di fronte al non-feltrino, su una scala analoga a quella in uso presso i meme dei Griffin.

Senza contare Tancredi Parmeggiani, gli Storm{o}, il bovis (mirabile invenzione povera dei birrai di Pedavena)… Feltrini, insomma, nemmeno si nasce; bisogna esserlo nel sangue («io, modestamente, lo nacqui»: e basta).

Forse per capirci qualcosa bisognerebbe davvero arrivare a vedere cupole, case e torrioni emergere dal niente dopo aver guadato con l’acqua alle ginocchia la gola del Piave. Alzare lo sguardo verso il Cesen o il Tomatico fino a che sul Miesna non appare il Santuario di Vittore e Corona. Sentirsi in qualche modo in salvo, come forse ancora accade quando, al venerdì, di sera, gli ambulanti o gli universitari si ridestano dal sonno turbinoso che li ha colti a bordo della littorina sferragliante all’incirca a Castelfranco o a Pederobba.

«La città è montuosa, scoscesa e talmente in ombra di neve in tutto l’inverno che […] bisogna uscire per le finestre dei primi piani», Carlo Goldoni, Memorie (Battistero)

Feltre è una città che nemmeno la più improvvida delle «politiche del territorio» è riuscita a sfigurare per davvero. Si tratti di una superstrada o di un ipermercato, o ancora della compulsione a edificare monofamiliari lungo i prati delle nostre infanzie, questi luoghi più si inerpicano più si ossificano. E Feltre vecchia, questa Venezia a perpendicolo sul Colle delle Capre – minuscola, furbesca, onirica, da Loggia Bianca o Nera – ne è l’esempio più stupefacente, un’istantanea su un XV secolo vero o presunto.

Di questo luogo che mura romane cingono, dove torrioni longobardi svettano, che immaginari turistificanti insidiano mentre la sanità o la qualità dell’aria evaporano, bisognerebbe soprattutto essere in grado di tacere. Tacere al massimo, purché qualcuno torni a scorgere, in questa straziante bellezza visibile, l’errore.

«mar che da Fèltre propio nó se’l vede», Gian Citton, Tomàdego méo (la vallata feltrina da S. Vittore)

È tra il canto e il ricatto che Feltre attende ancora qualcosa da sé. La sua realtà è sempre almeno due realtà, come due sono le città che (pare) da sempre la impersonano: quella alta e quella bassa, il centro religioso e quello commerciale. Sta nelle tre coppie di accessi alla città vecchia (monumentali: Porta Imperiale e Porta Oria; di servizio: Campo Giorgio e Viale Marconi; senza contare l’ascensore e il bosco Drio Le Rive, versione speculare, quest’ultima, boschiva e selvatica, di quanto sull’altro versante del Colle è gentilizia urbanità).

Sta nel motto araldico, che doppiamente nega e dice più di quanto non sarebbe a dirsi dell’atteggiamento stoico ed eleusino della fauna urbana: nec spe nec metu. Bisognerebbe averlo a mente, certe sere, coi bicchieri in mano, e certe facce attorno. E sta nel controcanto – il virgiliano Sed fugit interea fugit irreparabile tempus iscritto al campanile di S. Giacomo, visibile da quella brutta cosa e dignitosa che è Piazza Isola, con la sua Sophora Japonica centocinquantenaria e il cemento ovunque. Da quella Piazza Isola che da piccolo abitavo i rintocchi della mezzanotte mi facevano paura; ora è piuttosto la georgica insistenza su quel fugit, sintomo dell’erosione del linguaggio e della poca vita.

Ma la natura bifida di Feltre si annida anche nel canone ecclesiastico, se è vero che i suoi santi, Vittore e Corona, finirono chi divelta chi decapitato. Nonché nell’esacerbata compresenza di altri chierici, «rossi» o «neri». È questa la Feltre fondamentale, senza dubbio la più sfuggente nel clamore dei mercati bisettimanali lungo la vasca che va da Largo Castaldi a Campo Mosto (dove comunque reazionari d’ogni foggia volantinano e banchettano), negli agostani e saturnali fine settimana di un Palio vero e surrogato; e in quella specie di sport cittadino che è diventato lo shitposting del suo centro disertato ad ogni ora e ad ogni luce, come cattedrali del Monet.

«Sed fugit interea fugit irreparabile tempus», Virgilio, Georgiche, III, 284 (Orologio antico, campanile di S. Giacomo)

D’accordo, dunque: non hai visto l’invisibile. Ma una storia ancora possibile di Feltre non è questa. È piuttosto quella che comincerebbe dalle ceneri di una feroce repressione, dopo il 7 aprile del ’79, per capirci; e che qui si tace. L’«operazione» che, da un casuale incontro à deux (+ cani) occorso nella primavera del 1981 presso il Parco della Rimembranza (ora divelto dall’Uragano Vaia del novembre 2018) portò quella strana comunità a dare vita, negli anni Novanta, a una vera e propria «anomalia feltrina» – antagonista, sovversiva, visionaria – rimarrà forse per sempre storia orale, con le sue varianti indicibili di bocca in bocca.

Perché di questa storia, propriamente, non si può parlare? In un certo senso perché, come diceva Wittgenstein, i limiti del nostro linguaggio sono i limiti del nostro mondo (è questo il senso di quel famoso aforisma: «di ciò di cui non si può parlare, si deve tacere»). Perché il nostro linguaggio, quando si parla di storia, ha un grosso, grossissimo limite: quello di immedesimarsi, sempre e comunque, dalla parte di chi vince, purché tutto prosegua.

Ma qualsiasi storia non si voglia storia di chi ha vinto o di chi ha fatto, ma ricordo di chi c’era, traccia di chi ha vissuto, brano di gioia strappato a quella che, come suona il titolo di una pazzesca rivista degli anni ‘10, è la melma dei giorni, non può che rifiutare le sfilate della sintesi. Una storia così, la si può fare solo insieme, come atto al tempo futuro. Chiunque si sia riconosciuto in quell’istanza senza nome di riappropriazione integrale della vita e del suo senso (compresa l’esperienza del negativo, del male e della morte) come parte di una comunità umana compiuta, sa che cosa intendo.

«Piangerà Feltro ancora la difalta | dell’empio suo pastor», Paradiso IX, 51-2 (Piazza Maggiore)

Quella comunità, comunque, ora non dura (e forse non deve nemmeno durare, quando non ci sia qualcosa per cui farlo; altrimenti si diventa – e più di qualcuno l’ha detto, contribuendo a incarnarne il verbo – quanto mai «terribili»). Così, distrattamente passeggiando per via Basso forse ormai nessuno butta l’occhio se non con una vena di malinconia agli infissi color ruggine del PostaZ, chiuso a fine 2021 e ultimo tra gli spazi «per una vita non imposta» liberati lungo una linea di affinità di tempi e luoghi che, a dirsi, sarebbero incredibili per questa periferia dell’Impero. «Più che un’area, un sottoscala», avrebbe detto uno dei padri nobili dell’intera operazione, con quanto di amaro e di profetico vi si può percepire. Che questo accumulo seriale di macerie non ci porti, chi lo sa, a qualcosa.

Anche Feltre, insomma, insieme a quello cronologico-geologico, ha un altro passato che al momento non prosegue o è in stato di dormienza; ed è “perduto” in maniera in fondo non dissimile da come sono perdute le vostre città, le vostre appartenenze, le vostre infanzie; la vostra lingua. Un perduto per cui è inutile o proibito piangere, ma che dà la misura del luogo da dove si parte.

«Come quando a Feltre c’era il mare – il colle delle capre era una barriera corallina, in peschiera c’erano genti da ogni dove e una strana perenne atmosfera di festa pervadeva l’intera comunità feltrina», diceva qualcuno. Perché sognare, lottare, mangiare, battersi, far festa, cospirare, discutere (quanto insomma rende tale una comunità) scaturiscono da un unico movimento. Qualcuno sa qual è.

«Senza rabbia non essere felice» (via Luigi Basso, angolo Poste)