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Elogio della dissipazione. “I racconti” di Antonio Delfini

Leggere i racconti di Antonio Delfini è un’esperienza totalizzante, destinata a rovesciare le solite rodate coordinate di lettura. Questo perché Delfini, suo malgrado, è uno scrittore atmosferico, la cui prosa effervescente e sottile, ai limiti dell’evanescenza, costringe il lettore ad entrare all’interno di un micromondo parallelo – la Modena degli anni Trenta –, dai confini storici e geografici precisi e ben delineati ma costantemente fantasmagorizzati dall’atto trasfigurante della scrittura, capace di superare le tangenze del testo per imporsi come scenario regale in cui letteratura e vita, immaginazione e storia si accavallano senza darsi la precedenza. Un po’ come per la Winesburg di Sherwood Anderson, ma senza un disegno compositivo che si intraveda collaudato al fondo e senza alcuna sospirata retorica sulla segreta bellezza della quotidianità e delle piccole cose, Delfini tratteggia (non ricostruisce) il mosaico sfalsato di una città a metà tra reale e fantasia (è sempre M***, mai Modena), unico luogo da cui è possibile fuggire, unico luogo in cui è possibile tornare, sdoppiati e divisi. La mente creativa di Delfini non riesce mai ad allontanarsi dai suoi luoghi, la piazza, i portici, i bar aperti fino a tarda notte, la villa in centro (venduta poi a seguito dei dissesti finanziari); in questi luoghi la lingua trova la sua scaturigine primigenia, in questi ambienti il perimetro delle sue avventure narrative scopre una salvifica aderenza.

Pubblicati per la prima volta nel 1938 con il titolo Il ricordo della Basca, riproposti nel 1956 con l’aggiunta di una prefazione assimilabile a un vero e proprio romanzo breve – certamente tra le migliori pagine delfiniane –, i racconti di Delfini vengono pubblicati nella loro versione definitiva, che è poi quella oggi riproposta con la doppia brillante introduzione di Roberto Barbolini, nel 1963 sempre da Garzanti, aggiudicandosi, grazie alle sollecitazioni di Pasolini e Bertolucci, il premio Viareggio, importante quanto amaro riconoscimento postumo per lo scrittore modenese, morto nel febbraio dello stesso anno. Gianni Celati, probabilmente il suo maggior erede, ha scritto che per leggere le pagine di Delfini c’è bisogno di «un lettore che lo segua sul filo di un’empatia o d’una simpatia»,[1] che sia in grado, cioè, di scorgere in filigrana la visionarietà sorniona di una scrittura che si dà spesso in potenza e non sempre è depositata interamente sulla carta. Delfini è stato, infatti, un autore molto poco produttivo (da qui l’accusa, rivolta da più parti, di essere tutto sommato “un dilettante”), allergico ad ogni progettualità o rifinimento del proprio talento creativo, che ha distillato con il contagocce e con certa ostentata alterigia in poche opere, tra loro molto eterogenee – i poemetti a là Baudelaire de Il ritorno in città (1931), la prosa automatica di matrice surrealista de Il fanalino della Battimonda (1940), le poesie di Poesie per la fine del mondo (1961), la ricostruzione pseudo-filologica di Modena 1831 città della Chartreuse (1962). Per Delfini ogni idea rimane potente finché resta inattuata, affermare è sempre corrompere l’afflato sorgivo. Il travisamento costitutivo che egli crede di rintracciare nella cristallizzazione linguistica di una forma di pensiero lo frena, lo rende sospettoso e reticente, collocandolo sempre al di qua del valico decisivo, incapace, come ha scritto Garboli, suo amico e più fine esegeta, di «rivolgere a se stesso qualcuna delle innumerevoli domande che il Novecento ha rivolto alla letteratura».[2] Delfini non possiede né il fuoco sacro di chi sacrifica tutto sull’altare mefistofelico dell’ispirazione, né la pazienza certosina di costruire pezzetto dopo pezzetto il proprio castello letterario. Egli vive la letteratura come una confessione da fare a bassa voce, di sguincio, come una estemporanea dislocazione del sé atta a scardinare le leve mortifere del contingente. Tuttavia, malgrado lo speciale talento rivelato nello sperpero della sua intelligenza, è specialmente nei dieci racconti de Il ricordo della Basca e nei racconti lunghi Una storia e Il 10 giugno 1918 – capitolo inaugurale di un romanzo mai portato avanti –, che Delfini rivela la propria fisionomia di scrittore limpido e però sfuggente, persino a sé stesso, incapace di restare troppo a lungo con la penna tra le parole perché più incline a pensarle e a sognarle smaterializzate, mutanti e in divenire, perse a rincorrere passati mai accaduti e solo fantasticati, o a corteggiare retaggi asfissianti di una giovinezza da cui è impossibile emanciparsi. Ben consapevole della natura manchevole e illusoria del linguaggio (scrive nei suoi diari, ripubblicati in questi giorni da Einaudi in versione integrale: «il linguaggio è difettoso, incompleto […] essendo ogni segno […] diverso da ciò che si vuol dire»[3]), Delfini non crede nel potere rappresentativo della letteratura, di cui rifugge le pretese onniscienti ed epistemologiche. Egli non è convinto che essa possa avere alcuna presa sul reale, né tantomeno indirizzare o dialettizzare il presente, eppure vi scorge in controluce, nelle aporie che si vengono a creare tra materia e affabulazione, tra narrazione e voce narrante, il potere, seppur indebolito, di interrogare vertiginosamente tutte le possibilità inespresse, i destini infranti, le esistenze irrealizzabili di una vita che sembrerebbe una sola, ma che, invece, gravata com’è dal peso irriducibile di quello che Ginevra Bompiani ha definito molto opportunamente «passato eventuale»[4], non smette mai di moltiplicarsi al suo interno secondo processi squisitamente ipotetici di vendette, successi, ripicche, fughe, propositi rivoluzionari.

Delfini era il rampollo di una antica e nobile famiglia decaduta, rimasto negli anni un eterno puer narciso, obbligato a mascherarsi da eccentrico dandy per espiare colpe altrimenti inespiabili; poteva amare perciò solamente le cose che decadono e regrediscono, disvelando l’eterna coazione alla caducità di ogni cosa – soldi, relazioni, amicizie, intelligenze –, ecco la maledizione da cui non è riuscito a esimersi. I protagonisti dei suoi racconti – la modista, il contrabbandiere, il maestro, l’avvocato –, essendo in fin dei conti minime variazioni tipologiche della sua autobiografia letteraturizzata, sono tutti personaggi imprigionati in un passato che non può tornare se non sottoforma di disincantata rêverie, consumatisi nell’impotenza e nell’immobilità, sempre innamorati, non importa di quale uomo o donna, irretiti da una lunga serie di aspettative sedimentatesi e divenute ben più grandi di loro, destinate dunque a infrangersi contro gli scogli duri di una realtà affermatasi assecondando altre pieghe. Portatori di un’eccentricità che li contraddistingue e li condanna, i protagonisti dei racconti delfiniani tentano, chi più chi meno, di ribaltare il giogo infame di una sorte apparentemente segnata, ma incapaci di affermarsi in quanto soggetti realmente attivi, devono sopportare elegantemente la rovina, armandosi del loro stesso dolore, facendo di quel dolore un pungolo con cui sferzare illusoriamente il mondo circostante. Come avviene nel caso del nerboruto poetastro Maltinor (nome che rimanda evidentemente al Maldoror di Lautréamont), protagonista del racconto Il contrabbandiere, squattrinato ereditiere con fama di seduttore che sparisce dalla circolazione per poi riapparire all’improvviso davanti alle facce incredule dei compaesani che lo avevano ostracizzato per la sua tendenza a dare scandalo, ostentando le sue nuove ricchezze, frutto di traffici illeciti.

 «Ecco qua», disse posando la roba sul tavolo (ma una bottiglia andò a ruzzolare per terra), «sigarette forti e dolci di ogni qualità, di quelle estere…ma senza bollo, di quelle…e due bottiglie di vodka…ma non siate golosi», eran tutti là con tanto d’occhi, ma impacciati e spaventati. «Credete che questa roba la porti in giro perché mi piace? No: per essere scrittore e contrabbandiere, ricco e fortunato, brillante e famoso, e per farvi crepare di rabbia, gente impacciata cattiva pettegola paurosa e senza stile…no…mi sbaglio…siete della gente senza poesia…siete della merda!».

Vi è, poi, nei racconti di Delfini un gusto per il pensiero che non diventa azione, per il sogno ad occhi aperti, per il rimasticamento mentale dei primi e unici attimi felici di una vita o di un amore, come accade ad esempio ne Il fidanzato, dove nello spazio cronologico e geografico dell’avvicinamento del protagonista Teodoro Gondaro alla sua fidanzata, che funge da cornice e da contesto della narrazione, la narrazione stessa subisce una sorta di una sospensione irradiante, puntellata da continui flashback resi mediante flusso di coscienza, per cui la fidanzata tanto desiderata, Maddalena Marfusa, diventa soggetto di una «fantasmagoria caleidoscopica – come ha notato Nunzia Palmieri – che non la fissa in nessuna immagine definitiva».[5]

«[….] E se nessuno me la presenta potrei fermarla e dirle : “Ti ho conosciuta, ti amo”. Ma non avrò mai questo coraggio, e se l’avessi sarebbe per me un pentimento, perché la bella Maddalena, che guardo e che tanto desidero, mi disponderebbe: “Si calmi bel manicomio!”. Perché dunque io debbo sempre provare delusioni, tante quante ne potrebbe contenere l’acqua del Po?» .

La città di Modena, cronotopo obbligato per lo scrittore che a questo antico ducato è legato dal doppio filo di un amore-odio  inscindibile, assurge a palcoscenico preferenziale per mettere in scena i tanti piccoli tentativi di sparizione simboleggiati dai suoi racconti, spaccati di provincia che trasfigurano il dato di realtà per restituire la doppiezza e lo spessore di una geografia emozionale che si sviluppa intorno ai capricci dell’autore, alle proiezioni intime e però mai tragiche che abitano le sue narrazioni brevi. Esiliati in patria, non più aderenti all’immagine di sé che gli altri vanno tessendo, innamorati di un amore che si dà solo in assenza (innamorati di un’assenza), come vagheggiamento di una promessa troppo bella per essere mantenuta, consapevoli che la felicità si consuma sempre altrove, i protagonisti dei racconti di Delfini catalizzano su di sé le manie e i cascami dello stile delfiniano, un realismo sui generis ivi trasfigurato e scomposto, fatto implodere dall’interno a seguito di sotterranee spinte e controspinte dal sapore surrealista, che si riverberano nella sottigliezza e nella sofisticatezza espressiva delle raffigurazioni e nella concatenazione delle associazioni topiche.

Campo di attrito tra rifigurazioni mnemoniche e ricercate amnesie, i racconti di Delfini sono abitati da una «grazia istintiva»[6] che permette di accordare armonicamente scene ed elementi oggettivi a scarti soggettivi e a fughe dell’immaginazione in un continuo rimescolamento narrativo. Ciò avviene in special modo nei racconti lunghi Una storia e 10 giugno 1918, significativamente posti all’inizio e alla fine del volume, come vertici di una parabola letteraria relativamente esigua ma densissima, all’interno dei quali, assottigliatosi sino a sparire il già rosicchiato filtro finzionale, Delfini gioca a manomettere i confini tra esistenza e sua trasposizione narrativa, facendo di vita e opera un magma proteiforme che si sostanzia non solo attraverso corrispondenze più o meno velate, ma soprattutto mediante prefigurazioni, asimmetrie, contraddizioni che danno il là al gioco funambolico di sponde, ellissi e premonizioni. Una storia si configura così come un consuntivo ex post, uno squarcio autobiografico dalla struttura ondivaga e metanarrativa, ricco di materiali spuri e apparentemente disomogenei, in cui Delfini cerca di radiografare, sulla scia di un impulso quasi vendicatorio nei confronti del suo stesso destino di “scrittore fallito”, le tappe della sua formazione artistica nonché gli snodi cruciali di un’educazione sentimentale mai davvero conclusasi. Le donne angeliche che costellano l’esistenza di Delfini rimangono anch’esse, così come i suoi tanti propositi esistenziali, ipotesi di vite altre, bellissime solamente nell’inseguimento mentale che le pone sempre un po’ più in là dell’ultimo passo compiuto, riconoscibili nella loro fisionomia evanescente unicamente nella rielaborazione fantasmagorica che si compie nelle pagine di un racconto, come accade ad esempio ne Il ricordo della Basca. L’amore per Delfini si dà sempre come amore mancato, non corrisposto, desiderato sino allo stordimento. Ecco perché non c’è mai, nei suoi racconti, piena aderenza tra esteriorità del narrato – scene, dialoghi, azioni – e interiorità dei personaggi, la realtà rimane inattingibile ed enigmatica se affrontata come un blocco unico e monolitico, essa si lascia illuminare per un secondo epifanico solo se interrogata negli interstizi celati che bisognerebbe sforzarsi di rintracciare a costo di consegnarsi alla marginalità. Antonio Delfini ha fatto proprio di questa marginalità un vanto, uno stile di vita, una coazione a ripetere. I suoi racconti sono il massimo monumento novecentesco alla dissipazione artistica, mentale ed emotiva di chi racconta e di chi è raccontato.


[1] G. Celati, Antonio Delfini ad alta voce, in A. Delfini, Autore ignoto presenta. Racconti scelti e introdotti da Gianni Celati, Einaudi, Torino, 2008.

[2] C. Garboli, Prefazione, in A. Delfini, Diari 1927-1961, a cura di N. Ginzburg e G. Delfini, Einaudi, Torino, 1982, p. XVII.

[3] Ivi, p. 108.

[4] G. Bompiani, Il passato eventuale, in «Riga», 6, Antonio Delfini, a cura di M. Belpoliti e A. Palazzi, Marcos y Marcos, Milano, 1994, p. 278.

[5] N. Palmieri, Una città mai apparsa e distrutta, in Id., Visioni in dissolvenza. Immagini e narrazioni delle nuove città, Quodlibet, Macerata, 2015, p. 90.

[6] A. Bertoni, Scrittori da un ducato in fiamme. Delfini, D’Arzo e il Novecento, Corsiero editore, Reggio Emilia, 2016, p. 11.


Antonio Delfini, I racconti, Garzanti, Milano 2021, 336pp. 25,00€