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Massimi sistemi a misura di uccellino. Su “Big questions” di Nilsen

Scorro le tavole di Big Questions (2011), il capolavoro di Anders Nilsen finalmente pubblicato in italiano dalla torinese Eris, mentre dai confini del nostro desolatissimo mondo giungono immagini di bombardamenti e stragi senza senso, ed è come se tra le praterie in bianco e nero che fanno da sfondo a questa favola a fumetti e le pianure est-europee che premono sulla lettura si stabilisse l’ombra di una corrispondenza.

Non che il fumettone di Nilsen, autore di culto dell’indie statunitense finora sconosciuto in Italia, sia propriamente un’opera sulla guerra, ma sul senso – e sulla sua affannosa ricerca – sì, eccome. Come racconta lo stesso Nilsens nella postfazione, Big Questions è in primo luogo l’esito di un lunghissimo avvicinamento al racconto per immagini, cominciato un po’ per caso al tempo degli studi universitari nel ’96: quindici anni di sketchbook, illustrazioni e (auto)produzioni varie per complessivi quindici albi poi riuniti, dopo attenta revisione, in un volume di 600 pagine edito dalla canadese Drawn & Quarterly.

Il risultato tiene gelosamente traccia di questa origine spontanea e insieme sperimentale, del lungo processo di apprendistato al medium fumettistico che ha rappresentato per il suo autore: al punto che – parole sue – «la storia del libro è la storia di me che cerco di capire cosa sto facendo davvero».

Di fatto, Big Questions si presenta in apertura come una serie di sketch umoristici aventi per protagonisti degli uccellini dall’imprevisto piglio filosofico:

Il disegno è essenziale, schizzato rapidamente; l’impaginazione elementare e l’inquadratura fissa delle vignette contribuiscono a rimarcare il peso preponderante dei botta-e-risposta tra i fringuelli, intenti a beccare, tra un seme e un lombrico, gli eterni interrogativi sullo stare al mondo.

Nelle pagine successive l’impianto statico delle primissime tavole si apre però, quasi senza parere, a una narrazione vera e propria, con la comparsa di due personaggi umani (la Nonna, l’Idiota) e l’ombra di un aereo militare che getta sui silenzi della vita quotidiana un presagio di catastrofe imminente.

Prima di schiantarsi sulla fattoria l’aereo, governato da un Pilota narcolettico (!), farà in tempo a sganciare su questa landa puntinata una bomba: freddo e ronzante, l’ordigno viene immediatamente scambiato per un uovo dalla comunità di pennuti, e subito fatto oggetto di curiosità, terrore, venerazione, rifiuto, fanatismo.

A partire da questo efficace innesco narrativo (una riproposizione, è stato notato, di ciò che in antropologia è detto “culto del cargo”) Big Questions imbocca e a suo modo rinnova la tradizione del conte philosophique, mettendo in scena con grazia, per il tramite dei volatili-pensatori, faccende umanissime come il rapporto con la sfera trascendente, la responsabilità delle proprie azioni, la perdita e il destino: «Un giorno verrà allo scoperto la grandezza di questi eventi. Non possiamo aspettarci che le nostre menti limitate capiscano sempre tutti i dettagli in anticipo. Devi aver fiducia nel fatto che tutto si stia svolgendo per un bene superiore» sentenzia ispirato lo scheletrino di Charlotte Evangelista di fronte a Betty Sentry, sentinella scampata all’esplosione dell’uovo e destinata a convivere con sensi di colpa e apparizioni spettrali.

«E com’è… essere morti?» domanda ancora Betty all’ombra di Leroy.

«Be’… È molto simile a essere vivi, un po’ meno scomodo. E… E poi non si è esattamente presenti. Lo si è sempre di meno, credo» risponde lui, che prima di finire divorato da un gufo ha avuto modo, si direbbe, di dare due beccate al Coro di morti leopardiano (lieta no, ma sicura era la condizione delle mummie di Federico Ruysch).

Nella dimensione meta-fumettistica di Big Questions, l’apparizione improvvisa dell’aereo (con quel che segue) funziona un po’ anche come un’allegoria dello stesso processo di maturazione espressiva di Nilsen, il cui stile pare scoprirsi e raffinarsi in presa diretta, sotto gli occhi del lettore: figure semplici ma incredibilmente espressive; scorci di paesaggio impressi sul foglio con la meticolosità di un antico incisore, a puntini e tratteggi leggeri; un’impaginazione dinamica se non proprio libera, che orchestra e interseca le diverse linee narrative; inserti decorativi di estrema raffinatezza, che scandiscono i capitoli e suonano nella memoria come frammenti di un sogno.
La narrazione per immagini di Nilsen, a sua volta, si assesta su un ritmo perlopiù lento, sospeso, a tratti documentaristico: un racconto immerso nel silenzio come le sagome bianche degli uccellini sul fondale nero della pagina-mondo, nel notturno che occupa la parte centrale del libro.

Con lo scoppio mortifero dell’uovo, lo schianto dell’“uccello gigante” e la teofania del Pilota sopravvissuto (accolto alla stregua di un “pulcino” redentore dalla comunità), la vicenda assume toni apertamente religiosi. Ma nella loro eccezionalità apparente, i fatti di Big Questions non hanno in realtà nulla di straordinario, ponendosi come figure della vita e della sua ordinaria imprevedibilità, in grado di rendere “eccezionale” un qualunque accadimento per il solo fatto di accadere. Ogni evento, sembra suggerire Nilsen con il suo enorme uovo metallico, è di per sé misterioso e incomprensibile.

Ma fortunatamente a “grandi domande” non corrispondono, in Big Questions, altrettali risposte; l’unica verità che l’opera si azzarda a pronunciare, umoristicamente, sta nell’invito a «vivere ogni giorno come se fosse l’ultimo» che apre e “chiude” il libro: verità proverbiale e beffarda, il vento se la porta subito via, un puntino all’orizzonte là dove il bianco della pianura incontra quello del cielo.


Anders Nilsen, Big questions, Eris edizioni, Torino 2022.