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Educare alla complessità: “Apriti, mare!” di Laura Pariani

Sperimentare tra generi e modelli di scrittura differenti sembra ormai una istanza narrativa necessaria per Laura Pariani, che non ha mai smesso di combinare nei suoi romanzi trame e identità complesse, giochi linguistici e dislocazioni geografiche, oscillando fra i paesi dell’infanzia nella valle del Ticino e l’Argentina dell’emigrazione familiare.

La scrittura di Pariani privilegia ciò che è ai margini del corpo-nazione, per insinuarsi in zone intermedie, nell’incrocio interstiziale fra spazi sociali, geografici, linguistici eterogenei. Dopo opere come Quando Dio ballava il tango (2002), racconto di una controstoria di migrazione femminile italiana in Argentina; La valle delle donne lupo (2011), cronaca di «strìe» in una valle dell’Alto Piemonte; Di ferro e d’acciaio (2018), narrazione distopica basata su una madre alla ricerca del figlio, Pariani ritorna ai temi centrali della sua narrativa, stravolgendoli e rinnovandoli con Apriti, mare! (2021).

Il romanzo si presenta come una favola contemporanea, e insieme ancestrale. Nell’Italia e nel mondo un terribile «Incidente» si è abbattuto sull’umanità già prostrata da un susseguirsi di guerre nucleari: si tratta del «Soffio mortale», malattia che uccide chiunque abbia superato i quindici anni. Facendo eco a Il Signore delle Mosche, uno dei classici più rappresentativi del genere, la società deve ripartire dai bambini, che si organizzano in comunità stanziali di coltivatori e in gruppi di raccoglitori, destinate a rivelare il male dell’uomo. Pariani ricostruisce nel dettaglio la cartografia del nuovo mondo, una sorta di Medioevo di bambini: «l’Onnipòsso ricostituì il mondo intorno alla città di Nominepàtri: controlli, la Difesa della Fede, la caccia alle strìe, la Disciplina, la casa della Sapienza». Ogni nozione di tecnologia, cultura e scienza è stata spazzata via dall’«Incidente», l’unico pensiero che sembra essere stato tramandato è una credenza malefica e fanatica che basa il suo esercizio sulla punizione e sul controllo.

Seguendo il verbo del «Libro», «Eva peccava e Dio la puniva»: allo stesso modo le bambine sono sottomesse, costrette al lavoro forzato e alla «seconda fame» degli uomini. «Le misere figlie di Eva» hanno poche scelte: diventare «fattrici» – non madri, poiché ormai i legami non esistono più -, e vivere una vita sotto il volere di «Nossignòr»; oppure diventare «strìe», scappare e congiungersi allo «Sciame», un gruppo di bambine fuggitive che «si nascondeva di giorno e marciava dinotte» per raggiungere «il mondo-senza-paura»: il mare.

Pariani racconta una storia dalla stratificata complessità narrativa: l’universo rappresentato innesca nel lettore riflessioni profonde sulla società d’oggi. A conferma di ciò la «Notarella» finale, nella quale Pariani si rivela e racconta la gestazione del romanzo: iniziato «nel novembre del 2018, quando una carovana di 7000 migranti traversò i paesi dell’America Centrale», il libro è stato ripreso e rielaborato quando «ci è piombata addosso la pandemia». Con in testa questi due eventi, la scrittura del libro sembra mettere in discussione alcuni concetti del contemporaneo sempre più controversi: l’idea di libertà, il senso del limite, la marginalità dell’estraneo.

Anche se l’operazione narrativa di Pariani parte da fatti estremamente attuali, la capacità immaginativa e rappresentativa della scrittrice permette al romanzo di non perdersi in atteggiamenti didascalici o moralizzanti, votati all’impegno. In Apriti, mare! sembrano convivere più livelli d’interpretazione: ad una fitta rete di messaggi sociali, ecologici, culturali necessari, si combina una ricerca stilistica ed espressiva complessa. La riflessione è innescata dalla pura finzione.

A conferma di ciò, sempre in «Notarella», Pariani ci rivela i suoi «debiti» letterari, di cui la scrittura è intrisa: i fratelli Grimm, Perrault, Andersen e Calvino sono le fonti che affiorano dalle pagine. Tali fiabe di origine arcaica, scrive Pariani, «minano infatti alla radice l’idea che la bontà sarà ricompensata e fanno intendere agli ascoltatori che sarebbe follia attendersi qualcosa che non sia crudele da un ordine sociale crudele». Con queste parole la scrittrice ci consegna il manifesto della sua poetica: la narrazione sembra arrivare da altre ere e da altri cosmi per aprirci gli occhi attraverso quell’urgente «immaginazione» che ci «salverà dall’estinzione».  

Apriti, mare! applica uno principio di sconfinamento in ogni suo aspetto: far parlare nuovi linguaggi ormai trascurati, rovesciare i codici consolidati, porre il ruolo dell’ascoltatore al centro del discorso. I modi narrativi, che Remo Ceserani riconosce come «forme di organizzazione dell’immaginario», penetrano in Pariani l’uno nell’altro: il picaresco, il fantastico e il carnevalesco generano nuove possibilità nella rappresentazione, e sconvolgono lo stereotipo della distopia o del climate novel. Pariani rielabora le forme canoniche del romanzo ecologico per orientarsi su nuove coordinate narrative così da dare spazio alle varie marginalità, spinta dal bisogno di elaborare una nuova identità culturale. Matteo Meschiari indica alcuni tropi centrali nel romanzo dell’Antropocene – tragedia, sgomento, no place to hide, megacrime, tempo perduto –, strumenti attraverso cui saggiare nel contemporaneo le narrazioni che creano «coordinate cartografiche/narratologiche» nuove: Apriti, mare! sembra metterli in gioco tutti.

Il nucleo tragico del romanzo «non riguarda individui ma un intero sistema a più dimensioni» (Meschiari) che, grazie alla stratificazione di storie e di una struttura estesa su un arco temporale largo, si domanda cosa poteva andare diversamente e perché si è arrivati a questo punto. Il sentimento di «sgomento» davanti all’impossibilità d’azione, il «no place to hide» e il «tempo perduto» – la presa di coscienza che la fine dell’umanità è in corso – sono motivi che ritornano all’interno della narrazione. Diversamente da libri come Qualcosa là fuori (2018) di Bruno Arpaia, questi tropi non coinvolgono l’umanità tutta ma solo lo spirito ribelle che si cela fra le donne e le bambine: esse entrano in collisione con il mondo «reale» governato dai «paternostrài – Cappucci neri, Disciplinatori, Difensori della Fede –», che ha come «effetto e/o obiettivo un danno grave e irreparabile alla civiltà umana e al suo potenziale futuro» (Meschiari).

Non solo esiste lo «Sciame», ma anche un silenzioso universo di figure femminili – Rùzzola che prova a scappare ma viene catturata subito, Podegài che insegna ad Aurea a porsi le giuste domande, Grìgola che non ha paura di svelare storie che dovrebbero restare sottaciute, le donne di Monte Sguròne che non si lasciano sopraffare dagli uomini, l’esercito di «strìe»  che si lega al mondo naturale; queste donne aiutando le bambine a prendere consapevolezza di sé e a capire cosa sia la libertà, corrodendo piano piano la potente struttura della setta criminosa e cospiratoria di «Nossignòr», ne sfaldano la solidità, mettendone in luce la crudeltà, l’insensatezza, la fine.  

Per prima Sulénc, la futura «santabambina», fugge dal «Presidio» perché segnalata come nemica destinata «a volare»; dopo di lei Barlànda, grazie al suo «pellegrinaggio attraverso l’Appennino» per accompagnare la sua padrona a partorire «si spera un maschio», trova una «vita nova» nella «lettura dei tarocchi e nella raccontazione di storie slargate»; infine Aurea, destinata alla «Casa della Sapienza» e ad educare al «Libro» i futuri bambini, si pone sempre troppe domande e capisce ben presto di «non essere libera».  Il mondo dello «Sciame» può ancora ribellarsi al destino che aspetta l’umanità e ciò avviene narrativamente tramite uno sconfinamento al di là del codice riconosciuto: prevalgono il linguaggio del corpo, visioni ibride o deformate, il recupero di tradizioni lontane, il movimento stesso di allontanamento fuori dal centro propulsore del mondo degli uomini.

Lo sconfinamento è anche «di parola», di cui è impossibile riconoscere la neutralità. Pariani inventa una fusione d’italiano-milanese popular, mischiato ad una serie di latinismi (Sicutèerat, tempòribus, anni-annòrum…), arcaismi, francesismi e lombardismi (òmm, balénga, stría, stròliga, sciura), neologismi e onomatopee, che rende la narrazione estremamente caratterizzata. Il linguaggio di Pariani è carnevalesco: una «vittoria dell’abbondanza dei beni materiali, della libertà, dell’uguaglianza, della fratellanza», con l’obiettivo di svelare ciò che è soffocato dalla convenzione o dal potere altrui. Il bizzarro e il fantastico diventano la routine, aprendosi a forme e lingue nuove, ad «una logica estetica, [che] trasgredisce anche le distinzioni tra uomini e animali, tra classi di uomini e i loro manierismi». Il processo di unificazione e centralizzazione politico e culturale viene interrotto da forze centrifughe che spingono verso il riconoscimento della frammentazione. Ad aiutare le «bambine saltafossi» a raggiungere il mare si schiera un piccolo esercito di figure bizzarre e favolose: la Volpe parlante, le Fate «che nessuno ha mai visto perché le loro vite si svolgono ai margini di chi le osserva», i fantasmi di «strìe» punite, la natura stessa che si ammanta di nomi favolosi come l’«acetosa, dente di leone e grassona per fare una zuppa. Piperita e timo limonello, fragoline di bosco» o ancora «l’erba-pulòna, buona per il mal di denti».

La forza centrifuga della lingua permette alle bambine di riappropriarsi di uno spazio che ancora non sembra esistere: il loro linguaggio è svincolato da norme, come quello durante l’apprendimento, con giustapposizioni di senso e libertà visionaria. In Apriti, mare! la parola svolge una funzione relazionale: essa non si limita ad indicare il referente, ma apre al lettore la possibilità di immaginare e creare connessioni sottese, senza bisogno di delucidazioni e descrizioni ulteriori.

Non a caso, dopo la cattura di Aurea interviene il fantasma di Sulénc ad aiutarla, il quale le chiede di parlare e di ripetere la parola proibita «mammamia» per tenersi in vita:

«Per questo mi costringevo a parlare, per tenere in vita le parole. Le facevo turbinare in racconti e filastrocche, le frasi danzavano, sbarlusciavano come il magico “mammamia” della reliquia. Questa, almeno, era la mia speranza, il mio scopo».

Un’altra definizione che ben si adatta all’ultimo libro (ma anche ad altri) di Pariani è «romanzo polifonico»: spazio testuale in cui dialogano e si scontrano molteplici voci tra narratori e personaggi. Ogni capitolo – inaugurato con una data più o meno vicina all’«Incidente» – presenta oltre alla storia principale, una stratificazione di altre storie, memorie e speranze spesso introdotte tramite la figura di un narratore, mai anonimo, ma personificato e caratterizzato. Sono proprio loro, le figure carnevalesche e fuori legge per eccellenza, i cantastorie, i fuggiaschi, le lettrici di tarocchi a tessere le fila della resistenza, portando in giro il messaggio di una segreta ribellione in atto contro il potere tirannico del «Libro». A sua volta, le donne raccontano per creare una comunità orale: la «grassa Barlànda» narra senza sosta del suo viaggio, le bambine-fuggiasche per non avere paura chiedono le storie di Barabbén Trauco dell’Averno ad Aurea, Grìgola solo raccontando compie un gesto rivoluzionario contro Numerocinque svelandogli la sua storia, le bambine-ispettrici possono vivere sulla propria pelle i sogni delle «strìe» prigioniere, la «sognatrice Sulénc» rivive nei canti delle bambine.

Nell’universo di Pariani sono proprio le storie a rievocare il mondo che era e creare il mondo futuro, il «mondo senza paura». In Pariani l’oraliture, neologismo composto da orale e letteratura, coniato da Paul Zumthor (non casualmente specialista di storia culturale medievale), diventa strumento per una conoscenza «aperta che scappa da ogni cattura globalizzante» a vantaggio, invece, di una vitale molteplicità: attraverso il passaparola comunitario, la riconfigurazione di miti e leggende, la rievocazione di ricordi vietati, la parola assume il ruolo di guida nella rivolta e nella scoperta dell’identità reclusa creando fughe immaginifiche verso altri mondi, pensieri, possibilità.

Il finale è affidato alla narrazione della vecchia Unagàmb, la quale desidera «raccontarvi cosa successe davvero»; sono ormai trascorsi 194 anni dall’«Incidente» e le comunità sembrano non esistere più, ci viene svelato cosa ne è stato dello «Sciame» e della lunga marcia delle bambine verso il mare. Unagàmb è rimasta sola e, prima di scendere ogni sera in spiaggia, legge «l’Odissea, che ho barattato con l’ultimo raccoglitore che ha traversato questi paraggi»; già allora, riflette Unagàmb, le donne «si riunivano per parlare sottovoce e guardare il mare, culmine di tutti i misteri e chiave di ogni risposta».

Se, come scrive Niccolò Scaffai, «il tema della natura non è la condizione necessaria per una rappresentazione del sentimento ecologico», occorre domandarci cosa renda un romanzo come Apriti mare! un romanzo antropocenico. L’ecologia in Pariani non si limita alla tutela dell’ambiente, ma rivendica il suo intimo significato basato sulle «relazioni tra l’uomo e gli altri uomini, tra gli organismi vegetali, animali e l’ambiente in cui vivono» (Scaffai); il pensiero ecologico si esprime con l’educazione alla complessità, attraverso il riconoscimento della coesistenza, dello scontro e dello sconfinamento delle varie relazioni che dominano il mondo. Senza parlare di natura, Pariani esprime le dinamiche che condizionano gli ambienti e insieme i destini individuali, trasformando il testo in un ecosistema e riconoscendo all’atto immaginativo una capacità poietica e politica.


Laura Pariani, Apriti, mare!, Milano, La Nave di Teseo, 2021, pp. 192, € 18.