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La luce delle cose. Su «Cosmogenesi dell’esperienza»

«La realtà non esiste, ma esiste il cinema».
Corrado Costa


Apparso nel marzo 2021, Cosmogenesi dell’esperienza – il campo trascendentale impersonale da Bergson a Deleuze è il primo libro di Giulio Piatti, già curatore di un pilastro dell’empirismo radicale come Verso il concreto di Jean Wahl. Entrambi questi volumi arricchiscono un’ammirevole collana filosofica Mimesis, intitolata Canone minore, proprio come il libro del 2017 con il quale Rocco Ronchi, direttore della collana, spiegava che la realtà coincide con l’esperienza, che è inaggirabile, impersonale, unitaria e al contempo molteplice.

Queste tesi sono tutte presenti anche nel libro di Piatti, che pone l’accento su Bergson e la sua ricezione, specialmente in Francia. In un’introduzione, tre densi capitoli e una conclusione, l’autore mostra agilmente la convergenza delle teoresi di Sartre, Bergson, Simondon, Deleuze e molti altri, su quest’unico argomento: il campo trascendentale impersonale. 

«Trascendentale» è l’espressione con cui, da Kant in poi, descriviamo le condizioni di possibilità dell’esperienza, la quale tuttavia sembra irrimediabilmente personale e incarnata. Le sue condizioni dovrebbero dunque fare a meno proprio di questa incarnazione, se non si desidera doverla giustificare daccapo; se, cioè, la condizione non deve presupporre il condizionato.

Con il campo trascendentale impersonale siamo quindi alla ricerca del fundamentum inconcussum, ossia della ragione solida, dell’esperienza individuata. Per gli autori invocati da Piatti è chiaro che non si può risalire alle spalle della phenomenality, cioè della manifestazione delle cose, procedendo da un assoluto puramente matematizzante come invece ha preteso il Quentin Meillassoux di Dopo la finitudine (p. 281).

Per illustrare l’effettiva irriducibilità dell’esperienza ai suoi aspetti quantitativi può aiutare un esperimento mentale di Gregg Rosenberg, tratto da un articolo di Bernardo Kastrup (The Universe in Consciousness, pp. 127-8), con una piccola variazione cromatica.

S’immagini un campo fitto di puntini gialli e rossi. A una certa distanza, il campo apparirà arancione; eppure, lasciando invariata la disposizione dei puntini e modificandone i colori (per esempio giallo e blu) ciò che si vedrà a quella stessa distanza sarà verde, nonostante il campo sia rimasto “quantitativamente” immutato.

È così dimostrato ciò che afferma, tra gli altri, Raymond Ruyer – sul quale, tra affinità e divergenze con Bergson, Piatti si sofferma nel secondo capitolo (pp. 160-4). E cioè che «la soggettività», intesa qui come mero apparire delle cose, «non è un carattere che si possa o che si debba costruire» (La superficie assoluta, p. 112). 

Sulla base della propria interpretazione della meccanica quantistica, anche fisici come Sir James Jeans o più recentemente Richard Conn Henry si sono convinti dell’ostinata irriducibilità della coscienza. Ora, se questo è vero, in cosa potrà consistere la condizione necessaria a spiegare l’esperienza individuale, e come si potrà descrivere tale condizione senza presupporla?

Henri Bergson, alla cui filosofia Giulio Piatti dedica il primo corposo capitolo del suo libro, ha descritto la materia proprio come un insieme di immagini (pp. 36-ss.). Per il filosofo francese, gli ultimates, come il fisicalismo contemporaneo chiama le componenti materiali fondamentali (siano essi onde, particelle o altro), «si determinano (…) soltanto rispetto ad un tatto impotente, ad un impulso inefficace, ad una luce scolorita; sono ancora delle immagini» (Materia e memoria, p. 43).

Così, è la materia stessa a essere intrinsecamente mentale, a possedere qualità, ad apparire. Il complesso di queste immagini, tuttavia, non è totalizzabile. È più o meno come l’universo di Giordano Bruno: «non ha margine, termino, né superficie», e allora non può apparire di fatto.

Per questo, come dirà Deleuze nel suo ultimo scritto, «tra il campo trascendentale», assimilabile qui alla materia bergsoniana, «e la coscienza c’è solo un rapporto di diritto [corsivo mio]». Aggiungendo: «finché la coscienza attraversa il campo trascendentale a una velocità infinita diffusa ovunque, non c’è niente che la possa rivelare (Immanenza: una vita…, p. 8)».

L’analogia tra campo e materia non è casuale. In una nota al brano citato, Deleuze riporta un passo dal primo capitolo di Materia e memoria, sottintendendo tra i due termini una sostanziale equivalenza. Ecco: la storia di quest’assimilazione è puntualmente descritta da Piatti nel capitolo dedicato a quei filosofi che hanno conservato e rimaneggiato l’istanza impersonale nel corso del Novecento in FranciaTra questi, un ruolo chiave spetta sicuramente a Jean Hyppolite e Victor Goldschmidt

Nel 1957, il primo sostiene l’ipotesi, già avanzata e poi tradita da Sartre, che l’incontro tra coscienza e oggetto esige un fondamento inoggettivabile – in definitiva, un campo trascendentale senza soggettoSulla base di queste osservazioni lavorerà Goldschmidt, riconducendo la soluzione anti-soggettivista proprio al sistema delle immagini illustrato da Bergson (pp. 155-7). 

In effetti, è a partire da questa sorta di campo impersonale coincidente con la materia che il grande filosofo francese descriverà la comparsa effettiva della coscienza; ma come nei termini di una sottrazione, di un oscuramento di quella luminosa superficie infinita da parte di una immagine come le altre, che seleziona/percepisce in base ai suoi bisogni: il corpo.

Piatti mostra come, a partire dall’Evoluzione creatrice, Bergson ritenga che la scienza assecondi una tendenza propria della materia, quando isola sistemi parzialmente chiusi nella natura (p. 88). Tale tendenza, secondo il filosofo francese, viene però esaurita solo dalle astrazioni umane (p. 91).

Invero, la materia non è riducibile allo spazio: «se forziamo l’abitudine a concepire lo spazio come sostrato solido,» scrive Piatti, «vedremo la materia trasformarsi inesorabilmente in forza (p. 65)». È un’affermazione che ricorda da vicino la celebre equivalenza di Einstein (E=mc2), e sembra testimoniare una tesi fondamentale del canone minore, «che la scienza pensa» e un’intesa tra questa e la filosofia è possibile (Il canone minore, p. 41). 

In Cinema 1, Deleuze ritorna sull’argomento dell’incorporeità della materia, e spiega che la psicologia si è sempre chiesta come, da movimenti quantitativi e corporei, si giungesse alle immagini, mentali e incorporee. Ma è Bergson a tagliare il nodo gordiano e a stabilire un’identità tra immagini e movimenti, creando così delle inedite immagini-movimento.

In questo modo, non sarà più possibile, dice Deleuze, parlare di mobili e di mossi, di «io» o di atomi; pretenderlo equivarrebbe a dire che ci sono sostanze individuali e inattive, che a un certo punto si mobilitano, ma sarebbe impervio accreditare la loro esistenza al di là dei fenomeni.

Deleuze può dunque scrivere che «non c’è corpo in movimento che si distingua dal movimento eseguito, non c’è mosso che si distingua dal movimento ricevuto (…) Si tratta di uno stato troppo caldo della materia perché vi si possano distinguere dei corpi solidi».

Ora, per mutare e durare, la materia, come la coscienza (p. 66), deve iscrivere il suo nome su due registri, il presente e il passato, contemporaneamente. Infatti, il presente, che è noto per passare nello stesso istante in cui è presente, deve – spiegava Deleuze – darsi insieme ora  e allora. La materia, così, implica la memoria. Quest’ultima gode dello statuto di virtuale, la cui emergenza in Deleuze è esaminata da Piatti nel terzo capitolo, in relazione tanto al bergsonismo quanto alla nozione di evento. 

La parola «virtuale» designa la purezza inattiva del passato, che mai ha smesso di essere presente, non essendo mai transitato per l’adesso, e arriva quindi a coincidere con l’Essere in sé, «impassibile» e immutabile. Il presente invece, a causa dell’atopia dell’istante, è intrinsecamente evanescente,  e solo il passato e il futuro insistono e sussistono nel tempo.

Cionondimeno, come si è visto, c’è una tensione tra il presente e il passato, fra virtuale e attuale. Il virtuale si configura appunto come «un aspetto concreto della realtà, una “parte integrante dell’oggetto-reale” (p.186)», la cui altra parte non può che essere attuale. 
  

«Così come non esiste un oggetto che sia completamente virtuale, poiché altrimenti quest’ultimo non potrebbe insistere sul presente, allo stesso modo non esiste alcun oggetto meramente attuale, in quanto perderebbe il riferimento al proprio tratto genetico».
(p. 190)

Dunque, qualcosa di virtuale esiste a patto che sia necessario alla genesi dell’esistente, e benché quest’ultimo sembri dileguarsi. Se così non fosse, coinciderebbe inevitabilmente col possibile; il quale, lungi dal tornar utile a una spiegazione, avrebbe bisogno di giustificare il proprio attuarsi o meno.

Il virtuale non è quindi qualcosa che possa non realizzarsi. Anzi, ha una sua intrinseca «attuosità», per usare un termine caro a Gentile e a Spinoza. Il virtuale designa ciò che è sempre implicato dalle cose presenti, e che, del resto, non si può conoscere che per mezzo di quelle.   

Ora, la tensione che sussiste tra materia e memoria, e ricomprende queste ultime, è essa stessa virtuale. Ciò è ben evidente ne L’evoluzione creatrice, dove lo slancio vitale è visto da Piatti come la nuova configurazione del campo trascendentale impersonale che emergeva da Materia e memoria. E infatti esso «costituisce il dispositivo attraverso cui il reale viene a generarsi (…). Lo slancio è insomma una “coscienza coestensiva alla vita” (p. 92)».

È importante sottolineare che tale coscienza investe il mondo organico come quello inorganico, ed è virtuale proprio perché non si conosce che attraverso l’esigenza di spiegare il reale che dura. Se fosse anche lei attuale, quasi un soggetto a sua volta, andrebbe ancora giustificata. Ecco, allora, in cosa consiste la condizione atta a spiegare una coscienza individuale.

Occorre, infatti, una coscienza virtuale e irrivelabile, diffusa ovunque, la quale si parcellizza per oscuramento, ma in una cornice monistica e senza intervento altrui. Per quanto strano e paradossale, le alternative sarebbero anche peggiori. Ci dovrebbero essere più agenti finiti, ma dovremmo spiegare ciò che vi sta nel mezzo e li separa, mentre la strada di un monismo puramente a-causale si esclude da sé.

In alcune delle pagine più interessanti di Cosmogenesi dell’esperienza, quasi alla fine del libro, Piatti analizza da vicino l’approfondimento del vitalismo bergsoniano attuato da Deleuze. Scrive Piatti che «Deleuze intende in definitiva dipanare le ambiguità bergsoniane intorno alla materia (p. 244)»  e insistere, quindi, nel mostrare che la materia inorganica non è meno viva di quella organica. Anzi, è la vita al grado minimo e più comune.

Le tesi di Deleuze sono però solo lo sviluppo di premesse implicite nel bergsonismo e già evidenziate in Cinema 1. Infatti, come ci spiega Deleuze, per Bergson «sono le cose ad essere luminose di per se stesse, senza nulla che le rischiari (Cinema. Vol. 1: L’Immagine-movimento, p. 79)». Questo è quanto sfugge irrimediabilmente ai fenomenologi, che pongono la luce, ossia la coscienza, piuttosto dalla parte di un soggetto, come fa Sartre.

Si può dire che ne La trascendenza dell’Ego, dove viene usata per la prima volta l’espressione «campo trascendentale impersonale», il giovane Sartre abbia intuito la virtualità della coscienza, la sua ascosità e inoggettivabilità. Avendone colta l’infinitezza, egli è persino giunto a tracciare un’utile ed esplicita analogia con la sostanza di Spinoza, là dove dice che «la coscienza può essere limitata (…) soltanto da se stessa (La trascendenza dell’Ego, p. 33)».

Ma, proprio in ragione di questa infinitezza, Sartre non avrebbe motivo di continuare a identificare (cfr. L’essere e il nulla, p. 286), la coscienza solo con una prospettiva, «perché», aggiungerebbe Bruno, «tutti quelli che poneno corpo e grandezza infinita, non poneno mezzo né estremo in quella».

Piatti sottolinea a più riprese le evidenti somiglianze tra il campo impersonale e la materia bergsoniana, come pure il silenzio in merito da parte Sartre, il quale avversa l’equivalenza coscienza=durata proprio nei libri coevi a La trascendenza.

«L’antibergsonismo militante sartriano sembra qui prevalere sugli evidenti debiti contratti», conclude Piatti (p. 149). Evidentemente, Sartre tiene strenuamente al dogma dell’intenzionalità della coscienza, per cui ogni coscienza è di qualcosa e non piuttosto lei stessa qualcosa.

Una delle brillanti conclusioni di Cosmogenesi dell’esperienza consiste nell’equivalenza di naturalismo e costruzionismo, deducibile da questo colpo di sonda nella materia. Come abbiamo visto, le coscienze relative sono resecate su un piano altrimenti impercettibile.

La nostra visione frammentaria, dimensionale, è però come l’essere stesso del piano. Questa doppia composizione, di virtuale e attuale, è l’evento alla cui descrizione vengono dedicate alcune delle pagine migliori del libro (pp. 266-78), le quali precisano i rapporti tra Péguy, Deleuze e la cosmologia di Whitehead.

«La pluralità degli eventi non esclude il fatto che l’evento sia in fondo uno solo», afferma Piatti. La coscienza virtuale che abbiamo descritto non sussiste senza i punti di emersione/attualizzazione del piano delle immagini in cui essa consiste, cioè senza le immagini particolari. Ciononostante, tale piano è a loro irriducibile.

Ecco, dunque, il naturalismo, nel vedere le cose là dove sono, sussistenti nella materia, e il costruzionismo, nel farle vedendo, poiché consistono in immagini. L’unione di queste due cose è stabilita sulla base di una coscienza che sta là e qua alla stessa maniera. La domanda è ancora, come per Bergson in dialogo con Einstein: una o molte durate?

La risposta è semplice. Qualsiasi durata – qualsiasi inquadratura soggettiva – è quell’unica durata – oggettiva –, non molto diversamente da come le realtà successive al Primo erano l’essere del Primo, secondo Plotino.

Recensendo a sua volta Cosmogenesi dell’esperienza, Daniele Poccia ha evidenziato come il libro, la filosofia che contiene e l’universo descritto costituiscano «uno svincolamento possibile dalla (…) prospettiva personale», simile a quello che ogni spettatore ricerca al cinema.

È una tesi pienamente condivisibile. Infatti, esistono dei versi esemplari di Hart Crane in grado di fornire la resa enigmatica e perfetta del rapporto virtuale/attuale fin qui descritto:

Penso allora ai cinema, a qualche scena lampeggiante
mai del tutto rivelata, ma verso cui sempre si accorre,
anticipata ad altri occhi sullo stesso schermo
(Il ponte. La torre spezzata, p. 31)

Sul telo bianco è proiettata una materia che di per sé è immagine, ben prima che le moltitudini accorrano in sala. Affondiamo il capo in una visione che non è nostra, se non in seconda battuta, dopo aver messo a distanza lo schermo e aver inscenato la percezione. Gli occhi che ci anticipano, non sono soltanto quelli dell’uomo dietro la macchina da presa, per dirla con Vertov, ma gli occhi virtuali della materia.

Si può concludere che il libro di Giulio Piatti approfondisce la corsa della filosofia, non solo italiana, verso «una natura che si conosce (…) solamente accrescendola e accrescendosi» (Una metafisica della forma, p. 41) e nella quale «tutte le cose sono (…) delle “contemplazioni”, (…) degli atti intuitivi» (Il canone minore, p. 290). Siamo in presenza di una mostruosa percezione cosmogonica, il grande ritorno dell’intuizione intellettuale.


Giulio Piatti, Cosmogenesi dell’esperienza. Il campo trascendentale impersonale da Bergson a Deleuze, Milano, Mimesis, 2021, 320 pp., €24.


(in copertina: Char Davies, Osmose, 1995)


Bibliografia:

Bergson, H., Materia e memoria. Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito, Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari 2021.

Crane, H., Il ponte. La torre spezzata, tr. it. di Giacomo Trapani, Mauro Pagliai Editore, Firenze 2013. 

Deleuze, G., Cinema. Vol. 1: L’Immagine-movimento, Ubulibri, Milano 2002. 

Id., Il bergsonismo e altri saggi, Giulio Einaudi Editore s.p.a., Torino 2001.

Id., Immanenza: una vita…, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2010.

Kastrup, B., “The Universe in Consciousness”, Journal of Consciousness Studies 25, n. 5-6, 2018.

Ronchi, R., Il canone minore. Verso una filosofia della natura, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 2017. 

Piatti, G., Cosmogenesi dell’esperienzaIl campo trascendentale impersonale da Bergson a Deleuze, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2021.

Poccia, D., “L’universo come cinema in sé”, al link: https://philosophykitchen.com/tag/cosmogenesi-dellesperienza/.

Id., Prefazione. Una metafisica della forma, in Ruyer, R., La superficie assoluta, Op. cit. infra.

Ruyer, R. La superficie assoluta, Textus Edizioni, L’Aquila 2018.

Sartre, J.-P., La trascendenza dell’Ego, Christian Marinotti Edizioni s.r.l., Milano 2011, pag. 33.

Id., L’essere e il nulla, il Saggiatore S. p. A., Milano 2013.