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Un’iniziazione al mistero dileguato. Il Pinocchio di Giorgio Agamben

In una lettera del 1895, raccolta da Hans Magnus Enzensberger all’interno delle Testimonianze sulla vita di Marx ed Engels, Eleanor Marx-Aveling racconta di come, tra le «innumerevoli storie meravigliose che [le] raccontava il Moro», quella che «amav[a] più di tutte» era quella di Hans Röckle:

Durava mesi e mesi; era una storia lunghissima, che non finiva mai. Hans Röckle era un mago, del tipo che piacevano a Hoffman, e aveva una bottega di giocattoli e molti debiti. Nella sua bottega c’erano le cose più meravigliose: uomini e donne di legno, giganti e nani, re e regine, mastri e garzoni, quadrupedi e uccelli numerosi come nell’arca di Noè, tavoli e sedie, carrozze e scatole grandi e piccole. Ma, poverino, benché fosse un mago, Hans era sempre nei guai per i soldi, e così, a malincuore, doveva vendere al diavolo tutte le sue belle cose, pezzo per pezzo. Ma, dopo molte e molte avventure e peripezie, quelle cose tornavano sempre nella bottega di Hans Röckle. Alcune di queste avventure erano tanto paurose da far rizzare i capelli, come i racconti di Hoffman, altre erano comiche, ma tutte erano raccontate profondendo tesori inesauribili di immaginazione, di fantasia e di umorismo. (Colloqui con Marx e Engels. Testimonianze sulla vita di Marx ed Engels, a cura di H. M. Enzensberger, Feltrinelli, Milano 2019, p. 341)

Proprio da questa bottega incantata sembra provenire, insieme agli altri «uomini e donne di legno», il Pinocchio dell’omonimo libro di Giorgio Agamben, da poco uscito per i Saggi Einaudi. Non tanto perché Röckle è un mago fallito, come falliti, secondo il filosofo, sono la fata turchina e l’“orco” Mangiafoco, devianti rispetto agli archetipi fiabeschi che sono chiamati a incarnare; quanto, soprattutto, perché le avventure del burattino di Collodi, «paurose» e insieme «comiche», nella lettura di Agamben, iniziano non in «una nottataccia d’inverno», come sostenuto da Giorgio Manganelli nel suo Libro parallelo, ma – come compete a chi si trovi in commercio col diavolo – in «una nottataccia d’inferno».

Come dimostra già la predilezione per questa variante testuale, Agamben, a differenza dell’illustre commentatore che lo ha preceduto, non teme di accostarsi alle interpretazioni esoteriche del capolavoro di Collodi, che nondimeno si propone di correggere. Il filosofo, ad esempio, sostiene come sia del tutto possibile che nella mente dell’autore operi, in maniera inconsapevole, una «fantasiosa mitopoiesi gnostica» (p. 38). Questa, però, finisce per dispiegarsi, a suo giudizio, «a rovescio». Nella storia delburattino, infatti, «è la materia a dar forma al demiurgo» (p. 29) e non viceversa, come suggerisce l’episodio in cui Pinocchio, ancora nella condizione di tronco – in tutto simile, dunque, alla materia informe del Timeo, detta hyle (legna) da Calcidio – si sottrae ai tentativi di plasmarlo portati avanti da maestro Ciliegia.

O ancora, per citare solo un altro caso, a partire dalla lettura del Secret commonwealth (1691) di Robert Kirk, un trattato dedicato al regno segreto degli Elfi, dei Fauni e delle Fate, Agamben giudica «arguta» l’ipotesi per la quale «il paese in cui Pinocchio incontra la fata coi capelli turchini sarebbe una sorta di inferno pagano, dove sopravvivono le ombre dei morti». Tuttavia, allo stesso tempo, aggiunge che essa meriterebbe «una piccola correzione»:

non di un Ade precristiano si tratta, né di un inferno cristiano: la casa bianca come la neve dove non ci sono che morti, è sì una sorta di Ade o di Erebo, ma si tratta dell’Erebo del paese delle fate, dove dimorano non uomini, ma elfi, gnomi e fatine dopo quell’ultimo decadimento e quell’estrema rivoluzione del loro «pendulo stato». (p. 83)

Allo sguardo dello studioso, la casa della fata turchina, la maestrina cui la condizione di morta sembra inerire in maniera naturale, si rivela un luogo di sospensione e lenta dissipazione – un luogo che, si potrebbe aggiungere, ricorda in maniera impressionante un altro aldilà camuffato della letteratura tardo-moderna (sul quale pure Agamben non ha mancato di riflettere in passato): l’Istituto Benjamenta e, in particolare, i suoi «appartamenti interni», in cui Jakob von Gunten, il protagonista del romanzo di Robert Walser, è introdotto dalla signorina Lisa, la sua amata istitutrice, anche lei maga fallita, dotata solo di «una piccola pratica di magie, […] come ce l’ha ogni fanciulla» (R. Walser, Jakob von Gunten, Adelphi, Milano 2014, p. 104), destinata a morire.

Per Agamben, dunque, «l’errore dell’esoterismo non è nei concetti che suggerisce all’interprete – quello di iniziazione innanzitutto […]. L’errore consiste piuttosto nel considerare l’iniziazione una dottrina segreta, che viene rivelata ad alcuni – gli iniziati – e nascosta ai profani. L’esoterismo è accettabile, solo se si comprende che l’esoterico è il quotidiano e il quotidiano è l’esoterico» (p. 9).  Si tocca qui il cuore del saggio, che è soprattutto una splendida riflessione sulla fiaba e il mistero. Secondo il filosofo, Le avventure di Pinocchio, a metà tra il mito e la letteratura, tracciano sì un percorso iniziatico, che ha del magico e del fiabesco, ma questo, come nel più moderno dei romanzi, non si rivela finalizzato che alla conoscenza della «vita stessa e del suo scialo». Giunto alla fine delle proprie avventure, Pinocchio non è in grado di affermare altro se non: «com’ero buffo, quand’ero burattino!», perché la propria iniziazione la patisce senza imparare nulla – come accadeva, secondo Aristotele, ai partecipanti ai misteri eleusini («non devono apprendere qualcosa (mathein ti), bensì – si legge nel dialogo Sulla filosofia – patire (pathein) e essere disposti»). Il suo è un vivir desviviéndose, un vivere disvivendo, da picaro, come aveva già intuito Calvino. Per questa ragione, se è vero che la sua vicenda ha qualche legame col sacro, come molti hanno ipotizzato, questo – spiega Agamben – non si dà che nella forma svuotata del gioco, in cui «i riti e gli oggetti sacri perdono la loro aura religiosa, si capovolgono e diventano lietamente profani» (p. 124).

In questo senso, la minaccia sempre incombente su Pinocchio non è la disonestà, del Gatto e della Volpe o degli inferi amministratori del paese di Acchiappacitrulli, bensì l’orrenda benevolenza e gli untuosi ammaestramenti dei pedagoghi, dei Grilli parlanti, delle innumeri e terribili schiere dei «babbi» e delle «mammine», sempre pronti a farsi avanti per trasformare il burattino in un bambino operoso e ubbidiente.

Da questi, alla fine, nell’interpretazione di Agamben, Pinocchio, contro ogni apparenza, si salva, nell’unico modo possibile: diventando carcassa, riducendosi a quello scheletro di legno da cui si sono squadernate, come una serie ininterrotta di catastrofi, tutte le sue metamorfosi – un burattino esanime che il ragazzo cui ha dato vita osserva compiaciuto. Se, come ha scritto Walter Benjamin, la fiaba «è un prodotto di scarto, […] un cascame nel processo della nascita e della decadenza della leggenda», affine a quei residui da cui i bambini «si sentono irresistibilmente attratti» nelle botteghe dei sarti e in quelle dei falegnami (Vecchi libri per l’infanzia [II], in Id., Scritti 1923-1927, a cura di E. Gianni, Einaudi, Torino 2001, p. 52), Pinocchio, quale residuo di se stesso, muore alludendo alla propria natura fiabesca e, insieme, sopravvive come giocattolo nelle mani del suo alter ego in carne ed ossa.

O forse, come suggerisce ancora Agamben, la fine della storia non si iscrive che in un lungo sogno, quello che Pinocchio non ha ancora smesso di sognare dalla prima «nottataccia d’inferno», quando si è addormentato di fronte alla brace. Quella fanciullesca, allora, al pari di quella asinina divorata dai pesci, non è che una «buccia», una trasfigurazione del tutto inessenziale. Al risveglio, Pinocchio sarà di nuovo lì, intatto o coi piedi bruciati – in ogni caso, vivo.


Giorgio Agamben, Pinocchio. Le avventure di un burattino doppiamente commentate e tre volte illustrate, Einaudi, Torino 2021, pp. 176, € 20,00.