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Impressioni di una gita a Sferopoli

L’uscita di Le maestose rovine di Sferopoli (Einaudi) segna l’atteso ritorno di Michele Mari alla forma breve, a quasi dieci anni dall’uscita di Fantasmagonia (Einaudi 2012) e dopo le due raccolte pubblicate nel secolo scorso, Euridice aveva un cane (1993, Einaudi 2016) e Tu, sanguinosa infanzia (1997, Einaudi 2009). Oltre che di una dozzina di inediti, per una buona metà la nuova raccolta si compone di testi di varia natura già pubblicati a partire dagli anni ’90 in sedi meno in vista dei «Supercoralli» di Einaudi, da lungo tempo principale editore dell’autore milanese. Questa composizione pone in prima battuta un problema sul come ricevere questo libro: se, da un lato, già una silloge felice come Euridice aveva un cane proponeva racconti risalenti a momenti diversi del percorso creativo di Mari, dall’altra e per la prima volta, mi pare, l’autore costruisce uno dei suoi libri di narrativa affidandosi al massiccio riutilizzo di materiali già editi, che si inseriscono nel nuovo contesto con diversi gradi di efficacia.

Un’altra novità che emerge dal paragone con le altre raccolte è che Le maestose rovine di Sferopoli non è tanto un libro di racconti in senso stretto quanto un campionario di prose di natura eterogenea (dialoghi, conferenze, riscritture, brevi apologhi…), che comprende testi brevi e nessun racconto medio o medio-lungo, una forma che negli anni ha dato in Mari esiti molto alti, da “Otto scrittori” in Tu, sanguinosa infanzia a “Euridice aveva un cane” nella raccolta omonima. Da questo punto di vista, il libro più vicino all’ultimo uscito nella quadrilogia del Mari breve è Fantasmagonia, il quale, tuttavia, pur nella generale brevità dei testi e nella varietà delle soluzioni formali, risulta forse più coeso grazie alla densa bruma gotica che ne permea le pagine.   

L’allettante titolo della raccolta è mutuato dal testo d’apertura, “Strada provinciale 911”, un piccolo tour vocale, simile in questo a “Bruttagosto”, dove Mari sbriglia la sua inventiva linguistica, ricordando nella postura enunciativa le visite turistiche nei sobborghi infernali di Manganelli. Un punto che mi pare centrale per pesare questa prova di Mari riguarda il come leggere la giocosità el’ironia riscontrabile in molti testi della raccolta: è noto come l’autore da sempre rifiuti con decisione qualsiasi associazione al territorio del postmoderno, verso il quale egli lamenta una ‘mancanza di enzima’ anche in veste di lettore, rivendicando invece l’adesione totale, sanguinosa, alla materia, alla fonte del suo raccontare.

Questa premessa è alla base di un’attività ormai più che trentennale e ampiamente riconosciuta: tuttavia, a lettura conclusa, è difficile scacciare l’impressione che siano proprio alcuni procedimenti in senso lato postmoderni a descrivere in modo efficace il catalogo di prose e racconti esibito nel libro: dalla riscrittura a finale alternativo della novella boccacciana di Federigo degli Alberighi (“Il falcone) alla composizione ex novo di una vera e propria operetta morale (“Dialogo fra Leopold Mozart, Wolfgang Amedeus Mozart e un venditore di formaggi”); dal ventriloquio mimetico di autori letterari “montato” nel testo di una canzone di Jimmy Fontana (“Le fonti del mondo”) alle variazioni arcaizzanti e aforistiche (“Variazioni Goldberg”) con cui l’autore riduce e miniaturizza comicamente personalità di ogni epoca, molte delle quali reperite nel suo personale pantheon: «Quando il piccolo Robertino Fischer ricevette in regalo un cavallo a dondolo, si spostò immantinente in c6» (p. 143); o ancora «Giacomo Leopardi, poeta loschissimo, appostavasi dietro le siepi, donde guatava» (p. 147). Se si pensa che una delle prime ipotesi di titolo per il libro era proprio Variazioni Goldberg, lo stesso concetto di variazione si offre al lettore per capire lo spirito di un libro siffatto, dal quale promana un piacere virtuosistico che istituisce ponti non solo fra i diversi testi che lo compongono, ma fra essi e tutta la produzione dell’autore.

Riflessioni sul come leggere e valutare il ‘postmodernismo non-postmoderno’ di Mari nel contesto dei decenni in cui esso si sviluppa lampeggiano nelle pagine di alcuni critici più giovani della sua opera come Carlo Tirinanzi de Medici (Il romanzo italiano contemporaneo, Carocci 2018), Filippo Pennacchio (Eccessi d’autore, Mimesis 2020) e, en passant e in un’ottica di generale ridimensionamento, Matteo Marchesini (Casa di carte, Saggiatore 2018). Il punto, sintomaticamente avvertito dall’autore, pulsa sottopelle nella pseudo-conferenza in pasta landolfiana “Il senso della storia”, in cui è beffardamente teorizzata una compresenza–equivalenza dei passati a cui Mari non ha tendenzialmente mai creduto:

Tradizione, lo dice la parola! è ciò che viene detto tra di noi, e che possiamo dirci proprio perché lo conosciamo bene. In questo senso siamo noi, la tradizione, e dunque possiamo farne quello che vogliamo, come tagliare l’erba o non tagliare l’erba, in piena libertà. Così facendo innoviamo, ecco l’altro polo! e innovando tradiamo. Ma poiché tradizione e tradimento sono la stessa parola, come concentrazione o concentramento, siamo sempre lì: con noi stessi. (p. 78).

Siamo dunque, come suggerisce in un altro punto l’oratore di questo monologo, solo nani da giardino sulle spalle dei giganti? La compresenza dei passati non ha mai implicato da parte di Mari l’autoironia di questo enigmatico apologo, come testimonia l’incipit di Filologia dell’anfibio (1995, 2009, Einaudi 2019): «Ci sono persone per le quali il passato è la sola dimensione reale». Salvo qualche incursione nel Kitsch (“Scarpe fatidiche”), la compresenza dei passati raramente in Mari coincide con l’abolizione della gerarchia che li ordina: in fondo, quale scrittore italiano vivente crede più ostinatamente di lui, giapponese sull’atollo, alla vitalità della tradizione letteraria?

Alcuni dei racconti più riusciti della raccolta sono frutto di montaggi narrativi: in “Tema in IIIC”, ad esempio, i temi di paura scritti dagli alunni di una classe elementare centrifugano e precipitano verso esiti imprevisti dallo sprezzante maestro, mostrando ancora una volta quanto possa essere felice il ripiegamento di Mari nell’immaginario infantile e scolastico, anche se questo movimento proiettivo nella nuova raccolta impone dazi meno onerosi all’autore, dispensato dal porre la propria libbra di carne sulla bilancia; si pensi a racconti altissimi come “Certi verdini” in Tu, sanguinosa infanzia o a “I palloni del signor Kurz” in Euridice aveva un cane per capire a cosa alludo.

Anche “Con gli occhi chiusi” può essere letto come un carteggio montato ad arte tra un affittuario, un amministratore e una misteriosa padrona di casa: il risultato, in atmosfera goticheggiante, è di un’efficace progressione narrativa per ellissi. Le circa venti pagine di “Oniroschediasmi”, già pubblicato in Sogni (con Gianfranco Baruchello, Humboldt Books 2017), danno forma a un diario onirico, frutto della disposizione cronologica di frammenti. “Oniroschediasmi” risulta essere uno dei testi già editi che si acclimatano con più agio nella nuova raccolta. L’effetto è quasi illusionistico, un vedo-non-vedo retorico dove urgenza e gratuità si scambiano agevolmente di posto: un esperimento riuscito anche grazie alla finzione di simultaneità tachigrafica, che rende il gioco di Mari più scorrevole e solo in apparenza più ‘nudo’ e meno sorvegliato.

Contrappuntano i testi più ibridi brevi e brevissime narrazioni di atmosfera favolosa come “Boletus edulis”, “Medio Evo” e il meno convincente “Scarpe fatidiche”. Come hanno notato Giuseppe Carrara e Marco Rossari, in alcuni di questi racconti sotto lo stile ornato si agitano scenette comiche, un aspetto della scrittura di Mari che attende ancora di essere adeguatamente studiato. Scrive Rossari che «“Medio Evo” potrebbe essere un Petrolini o addirittura una breve parabola alla Gigi Proietti». L’accostamento a questo universo, più distante dall’immagine ormai sclerotizzata di Mari come autore ‘serio’, non appare così peregrino, sebbene l’autore raramente vi si avvicini senza le profilassi retoriche a cui i suoi lettori sono abituati. Il fatto che l’autore qui più che altrove si diverta a giocare scopertamente con i propri materiali d’elezione rappresenta per l’habitué un alleggerimento piacevole, che movimenta la partitura del libro e ne amplia la gamma tonale.

L’esaltazione dello stile di Mari, che nell’ultimo decennio pare aver decisamente sfondato la cerchia dei suoi cultori, sarebbe un truismo che risparmio volentieri al lettore: mi limito a notare che, al netto di un gruppo consistente di testi piacevoli e di trovate al solito stuzzicanti (geniale il raccontino “Sghru”), mi pare che l’autore, più che aggredire la profondità, svarî orizzontalmente nell’infinita disponibilità di opzioni della sua tavolozza formale: in questa direzione, è interessante come il tema dell’agone, caro all’autore sin dal memorabile “Otto scrittori” di Tu, sanguinosa infanzia, sia sviluppatosu piani e registri molti diversi nei racconti “Argilla”, “Boletus edulis”, “Storia del bambino triste” e “L’ultimo commensale”. Il concetto di variazione è davvero la chiave più adatta non solo per leggere il libro, ma anche per pesarlo: quanti di questi testi trascendono davvero la dimensione dello squisito esercizio di stile?

Eccezioni alla regola sono i racconti, che definirei cripto-autobiografici, “Sull’atollo” e in particolare “Come venne ricordato mio padre nel cimitero di Lambrate”, nel quale le parole di un figlio, le più semplici del linguaggio intimo, riescono far crollare la retorica delle larve senza nome riunite al funerale di suo padre. Mi chiedo come contribuisca a precisare la fisionomia del libro l’inserzione di testi in sé anche interessanti, ma annessi alla silloge forse per ragioni di praticità editoriale come “In cauda”, originariamente pensato per un contesto editoriale molto, troppo diverso, e “Vecchi cinema”, che non solo è presente in un testo d’autore ancora disponibile come Milano fantasma (con Velasco Vitali, EDT 2008), di cui si consiglia vivamente il reperimento, ma che anche si presenta come versione liofilizzata di un racconto, narrativamente più articolato, già presente in Euridice aveva un cane (“Cinema”).

Al di là di queste pedanterie, è più interessante notare come i racconti brevi veri e propri di Le maestose rovine di Sferopoli siano spesso imperniati e sviluppati a partire da un unico spunto, immagine o nesso analogico, senza quasi mai distendersi narrativamente. Letto invece come libro di prose, per un autore che nella sua iperletterarietà non ha mai rinunciato al piacere di raccontare storie al proprio lettore – fatto che a mio avviso basta a invalidare la reductio ad Manganellim cui lo relegano i suoi (pochi, pochissimi) lettori più scettici –, con questo libro pare riavvicinarsi per generi e strutture proprio ad alcuni libri dell’amatissima triade Gadda-Landolfi-Manganelli. Come da un po’ di tempo a questa parte, un consenso generalizzato ha subito accolto la nuova prova di Mari. Anche sottraendo dal bilancio l’inclusione di alcuni pezzi un po’ fuori contesto, l’impressione di un lettore affezionato è di un ritorno al breve non del tutto soddisfacente dopo quasi un decennio di silenzio. Come se, al netto di qualche scorcio notevole, la gita alle rovine Sferopoli, tanto decantate dalle guide, inducesse nel visitatore un ambiguo senso di déjà vu.


M. Mari, Le maestose rovine di Sferopoli, Torino, Einaudi, 2021, 176 pp., € 18.