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Petrarchismo e oggetti interposti in “Quanti” di Flavio Santi

Che cos’è la poesia mentre la padella si scalda, mentre gioca la Juve, dall’altro lato del telefono, alla fine dei tempi? Che cos’è, insomma, la poesia mentre la poesia si depensa e rimane a malapena l’impressione che esista una «differenza / fra me e il mio frigo Rex blu?» Le «truciolature, scie, onde» che compongono Quanti (Industria & Letteratura, 2021) di Flavio Santi mi sembrano indagare lo stato di una poesia debole ma compartecipe degli eventi – o forse neanche indagare; bypassare, semmai, il paradigma dello scavo di ragione e lasciare che qualcosa emerga da sé, appena evocato dalla lingua.

Ciò che evidentemente caratterizza queste poesie di Santi, in prima battuta, è infatti una certa informalità, cui si coniuga un verso breve, spontaneo, legato da trame di rime e rimandi fonici («… solo la testa… / sul volo Parigi-Lisbona / c’è stata la festa / dei tuoi capelli / (solo quelli…)», «se dico neve mi brucia / di più, se dico / bava mi scava, / cosa dico, dico / io… / non serve più.»), per quanto, allo stesso tempo, del tutto irregolare nella lunghezza, e imprevedibile. Niccolò Scaffai, nella prefazione, parla infatti di un «canzoniere ‘scanzonato’», a segnalare la tendenza ironica, abbassante di Quanti («Adesso mi preparo / una poesia fiammante come una Ferrari»).

Eppure, un «canzoniere». E cioè una costruzione che si propone come diario/introspezione e come architettura, anche se di «truciolature». Lo stesso Petrarca, del resto, il canzonierista per eccellenza, chiamava le sue poesie nugae, non cogliendo, tra l’altro, la portata storica della scrittura in volgare: non l’Africa, non il latino, insomma, ma proprio le nugae, il volgare, avrebbero indicato un nuovo sentiero alla letteratura. Questo per dire, dunque, che il carattere dimesso di Quanti non va preso seriamente, va osservato in controluce fino a coglierne l’ironia e il risvolto storico, e cioè, in fin dei conti, va preso serissimamente. Come nuove nugae da cui emerge una dislocazione, una chiamata dell’individuo di fronte all’epoca e a sé stesso.

Per comprendere questo ‘scanzonamento’, conviene seguire la struttura dell’opera. La prima sezione, Chiara, è quella che più ricalca, straniandolo, il modello del canzoniere, se non altro per il più esplicito riferimento a un «tu» femminile, a una direttamente appellata «donna». Questa «donna», poi, è evidenziata in quanto corpo (tramite i classicissimi, stilnovisti «occhi», ad esempio), messa in relazione con elementi naturali («luna», «rosa») e animali (il campo metaforico rettiliano nella poesia che inizia con «Cara tesoro adesso che posso»), o ancora ‘sparsa’ nel paesaggio esistenziale («sei nelle mie ginocchia / sei nel latte del mio cervello / fuori dal letto, ogni mattino, adesso.»), similmente a quello che accade nel celebre sonetto Solo et pensoso i più deserti campi. Pur ‘scanzonandolo’, insomma, Quanti, segue un impianto relazionale io/tu che potremmo definire ‘tradizionale’, a suo modo petrarchesco:

Donna sì, ma che donna:

nel tuo fingerti

meno donna e più

luna.

Femmina sì, ma

accorto dramma,

specimine poco

interpretato per

evidenti difficoltà

di traslitterazione.

Ma per ovviare

stanno

preparando

un dizionario Chiara/Flavio

Flavio/Chiara.

Come si vede proprio da questo testo, tuttavia, il gioco dell’autore consiste esattamente nell’evocare il modello io/tu e insieme corromperlo, producendo un ‘petrarchismo’ alienato che da una parte recupera gli elementi del desiderio, della donna e della sua sfuggevolezza («fingerti», «difficoltà / di traslitterazione»), ma dall’altra ne compromette la struttura simbolica e attanziale. Questa compromissione avviene principalmente attraverso un’apparizione aliena, inumana, e cioè attraverso la presenza degli oggetti. Già qui sopra si osserva come la relazione «Chiara/Flavio» necessiti di un intermediario (il «dizionario»), ma è fin dall’incipit del libro («Era stato il telefono») che il lettore è messo di fronte a un intervento dell’inumano, cui fa seguito lungo tutta la raccolta una commistione e interrelazione tra umano e tecnologico, pensante e pensato (gli «occhi» sono «a fanale», la luce la produce «un bengala», i soggetti sono separati da «un avviso: “Posto / riservato ai disabili”» e si nota come «ogni / metro o chilometro variabile / si riempia delle cose»).

Gli oggetti, allora, si frappongono, il verso – colpito dall’alieno relativizzante – è costretto a capovolgersi ironicamente e così la lirica a ‘sliricarsi’, a precipitare in una forma poetica che si abbandona agli oggetti, alla significazione che da loro viene e di cui si riconosce il potere. Ne deriva una frizione tra il sistema del canzoniere – che prevede una storia e una soggettività – e quello dell’inventario – che, all’opposto, è sincronico e alimentato proprio dalla natura fredda e inerte degli oggetti. È a questo punto, allora, che si capisce il ruolo delle due sezioni successive, costruite proprio a partire da interposizioni: oggetti – prima – e linguaggi – poi – mostrano la loro natura massmediatica e, di più, mediatica, cioè la loro natura di mediatori, di cose ‘che stanno in mezzo’.

Gli oggetti di Memorie dello schermo di vetro sono infatti anzitutto quelli tramite cui avviene la comunicazione moderna, su scala più o meno larga. Abbiamo ad esempio il «citofono» (che tra l’altro ha funzione di stemperare la violenza del mondo naturale – «i nubifragi» – proprio in quanto mediatore), il «tubo catodico», il «videoregistratore», «la televisione» o «tivù» o «tele», le «antenne TV radiotrasmittenti», il «televisore», il «video», e così via. E accanto a questi compaiono altri meccanismi di mediazione più generalmente culturali, come la «poesia» che è una «Ferrari», la «vita di cemento», i «tramonti» che assomigliano «a quelli / giapponesi dei cartoni». Il mondo, insomma, si origina proprio a partire dagli oggetti, dall’ineliminabile frapposizione di qualcosa tra il guardante e il guardato. E della totalità, della «Natura», così, non può che sottolinearsi il «senso dell’umorismo», fin da Pirandello legato allo svelamento di un contrario, a un abbassamento.

Più sottile ma parallelo il progetto di Lapidario degli incipit, in cui le poesie sono solo abbozzate, interrotte a un certo punto da una sequela di punti di sospensione che segnalano un pieno-vuoto, qualcosa che dovrebbe esserci e però non c’è:

La morte di un poeta,

e chi se ne frega,

non fa storia, non la trovi

ai tigì…

………………………….

………………………….

………………………….

………………………….

Ma il non-finito di queste poesie è solo in seconda battuta il riconoscimento dell’inutilità di proseguire; prima ancora, siamo di fronte alla scoperta della natura mediatica del linguaggio stesso. Non solo, dunque, gli oggetti si interpongono e negano la frontalità dello sguardo, ma lo stesso linguaggio, per gli uomini della società di massa, è una costruzione scopertamente mediata, un artificio prodotto proprio da quegli oggetti delle Memorie dello schermo di vetro e introiettato come modello culturale e cognitivo dagli spettatori/lettori. Le poesie su «Emanuela Orlandi», «Nadia Cassini», «Mohamed Atta», illuminano una zona della mappa immaginativa che la storia individuale ha costruito in collaborazione con la lingua e le storie dei media («ci mettiamo in poltrona, due cuori e un televisore»).

Oggetti e linguaggi medianti, dunque, da cui si origina una logica totalitaria dell’interposizione. Sia inteso come pronome indefinito, sia inteso in riferimento alla teoria quantistica, il titolo del libro ci pone di fronte a una moltitudine e a una coincidenza tra presenza e dislocazione: l’esperienza del mondo è sempre guidata degli oggetti, che sono a noi sempre vicini e contemporaneamente sempre in grado di allontanare il mondo stesso («S’illumina d’un lampo la tivù, / che c’è di meglio in Italia per dimenticare e dimenticarsi?»). La poesia, in questo, diviene un’emersione dagli oggetti, un accorgimento dell’interposizione radicale e della frattura dell’esperienza («scusate ma non riesco ancora / a essere in sintonia con il mio io di un’ora prima, / ci vedo doppio, doppio io»), nonché, di conseguenza, della natura anti-epica della vita («Che fine ha fatto la mia bile? la mia proverbiale / bile? decline come un fiore di spatifillo / la mia ira è diventata domestica») e della stessa poesia (che può limitarsi a un reflusso, non concludersi come nel Lapidario).

Ecco allora il non-senso della prosecuzione: siamo Oltre. La sezione finale, che porta questo titolo, non può che rivolgersi all’assenza assoluta, e cioè all’assenza dell’uomo, determinata proprio dall’imposizione definitiva degli oggetti sui soggetti: il «Sole» – l’oggetto da cui biologicamente dipendiamo – prima o poi esploderà e «A quel punto ogni speranza di eternità cadrà. Cadrà l’arte che si è sempre retta sulla convinzione dell’eternità del suo messaggio». Non è un caso, poi, che Santi giunga a questo relativismo (forte proprio perché in lotta intestina con il ‘petrarchismo’ soggettivistico) affidandosi alla prosa; una prosa asciutta, da referto, che deve solo segnalare senza pathos e senza poesia, appunto, che «tutto finirà». La poesia come accorgimento si dissolve nel momento in cui si dissolve anche ogni possibilità di interposizione oggettuale, ogni «Dio» sotteso alla possibile interpretazione o esperienza del mondo, in primis quella ‘petrarchista’ della mancanza e del desiderio: la dimissione di Quanti è la poesia che si estingue di fronte alla fine di ogni fine.