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Nel corpo e nel sangue: maternità, lingua e italianità in Ubah Cristina Ali Farah

Le stazioni della luna (66thand2nd, 2021) è il terzo romanzo di Ubah Cristina Ali Farah, poetessa e scrittrice nata a Verona da padre somalo e madre italiana e cresciuta a Mogadiscio. Da qui, allo scoppio della guerra civile nel 1991 – ad appena diciotto anni -, fugge in Italia. È necessario ribadire questi pochi cenni biografici perché, leggendo il romanzo e in particolare la vicenda di Clara, non si può evitare di sentire l’eco della biografia della sua autrice e stabilire parallelismi più o meno leciti. Ali Farah stessa ha ribadito in diverse occasioni come cimentarsi nella narrativa e nel genere del romanzo le serva, e le sia servito, a ritrovare le proprie radici in un paese ‘altro’.

Ed è proprio di radici e di identità che si occupa La stazioni della luna. Il romanzo è costituito dall’alternarsi ordinato di voci diverse: principalmente quella di Ebla – madre di due figli partoriti a Mogadiscio dopo essere coraggiosamente fuggita dal matrimonio combinato dall’amato padre – e Clara, figlia di latte di Ebla, nata da genitori italiani stanziati a Mogadiscio. Quella di Ali Farah è una storia di continui spostamenti nel tempo – la narrazione si interrompe spesso, senza sacrificare la sua fluidità, per dare spazio a ripetuti flashback dell’infanzia somala di Clara o della gioventù sottomessa e poi ribelle di Ebla – ma soprattutto nello spazio – non solo la fuga di Ebla, ma anche quella di Clara da Mogadiscio verso l’Italia dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Eppure, la Somalia (ed Ebla) continuerà a rappresentare un richiamo prepotente per Clara, che è protagonista dell’ultimo importante spostamento dal quale prenderà le mosse l’intera vicenda: il suo ritorno a Mogadiscio negli anni Cinquanta, quando la Somalia torna sotto l’Amministrazione fiduciaria italiana. ‘Fughe’ che scandiscono la ricerca per entrambe le protagoniste di una loro personale soggettività, di una identità scelta e non imposta, di una voce da far gridare.

Nel frattempo, sullo sfondo, si staglia uno dei capitoli meno conosciuti della storia italiana, e le domande e i sensi di colpa di Clara (italiana o somala?) diventano anche quelli del lettore medio: italiani sempre e solo brava gente? Le voci si alternano indipendenti fino a quando le due donne non si rincontrano, in un passaggio commovente e atteso. Da quel momento continueranno a darsi il cambio, ma la storia dell’una rimarrà legata alla storia dell’altra. Infatti, Ebla è innanzitutto una madre, e in quanto tale collante delle diverse vicende che si toccano e si incrociano.

La maternità portata sulla pagina da Ali Farah e impersonata da Ebla si rifà in parte a una concezione tradizionale della stessa, ma non mancano passaggi in cui sfida proprio i dettami classici della sua definizione. È una maternità variegata e poliedrica, teorizzabile con precisione soprattutto negli Assoli di Ebla, quattro capitoli dedicati esclusivamente a questa protagonista. In essi – forse i momenti migliori del romanzo – la donna prende voce direttamente, e la prima persona dà il cambio alla terza persona del narratore extradiegetico e onnisciente che altrimenti dominerebbe incontrastato.

La potenza di questi capitoli risiede, innanzitutto, nel mescersi fluido del corpo di Ebla con la natura. È questo uno strumento narrativo – e un tema – presente in tutto il romanzo, ma che con Ebla tocca il suo apice: la natura si fa definitivamente donna in essa e viceversa. Le lacrime di Ebla, ad esempio, sono come «la stagione delle piogge, quando i tombini si intasano e le strade diventano fiumi in piena, rossi di fango»; casa sua è un «nido scoppiettante di uccelli»; Ebla stessa si definisce una «pietra sgretolata» e sente come se «l’intero cielo [poggiasse] sulle sue spalle»; paragona Clara a una pozza d’acqua limpida o ad un «albero rigoglioso di foglie e fiori». Insomma, la natura e i suoi elementi sono il filtro attraverso cui osservare e interpretare la realtà circostante, lo schema di base su cui costruirne la definizione, della natura si nutre il lessico liricheggiante della protagonista (e dell’autrice). Ma non solo: Ebla è indissolubilmente parte del paesaggio circostante, quasi che essa stessa sia Madre Natura ‘in persona’. E infatti l’oceano e l’acqua diventano, secondo le stesse parole di Ebla, «liquido amniotico» nel quale nuota insieme alla figlia.

Il lessico preso in prestito dal campo semantico della natura si arricchisce con quello spesso metaforico che riecheggia la maternità. E che l’identità di Ebla si fondi e si definisca anche e soprattutto sull’essere madre lo dimostra il fatto che tre dei quattro Assoli si aprano con le parole «mia figlia» e che il quarto sia quello in cui Ebla e Clara si ritrovano a distanza di anni. Infatti, Ebla non è solo madre biologica di Kaahiye e Sagal, ma anche madre di latte di Clara, come anticipato sopra. E l’immagine dell’allattamento e del latte materno torna spesso nel romanzo («Cercavo di asciugarmi le lacrime con un lembo del velo, succhiavo il lembo del velo come una lattante»). Non sorprende quindi che la maternità, in questo libro, sia innanzitutto un fatto di corpi, di liquidi corporei nel particolare: dall’oceanico liquido amniotico, al latte materno, al sangue (quello del parto o quello mestruale) – «di ritorno alla capanna, vidi che andava a sciacquarsi via il sale nel bagno all’aperto sul retro e, appena scomparve dietro il recinto, la sentii gridare di sorpresa. Subito riemerse, la biancheria intima macchiata di sangue. Mia figlia aveva aspettato che fossimo sole per festeggiare le sue prime mestruazioni».

Una spiccata componente corporea, quindi, quasi di memoria morantiana – anche se l’unica ispirazione dichiarata è quella di Nuruddin Farah (le altre sono farina del mio sacco di lettrice parziale). Per sua stessa ammissione, Ebla si sente più connessa alla figlia – «nel corpo e nel sangue», appunto – che al figlio, perché consapevole del destino che la aspetta, delle sofferenze che faranno fardello della sua identità («sapevo che a lei molte più sfide sarebbero state riservate»). Se a legare Ebla e Sagal è il sangue, il latte unisce Ebla e Clara. Dagli albori della letteratura italiana fino ad arrivare alle contemporanee interpretazioni della filosofia femminista di Kristeva o Cixous, tra le altre, il latte materno simboleggia quanto la madre può trasmettere al figlio, ma ancora di più alla figlia, e credo che questa sia una lettura attribuibile anche al romanzo di Ali Farah. Se per Dante proprio la nutrice ricopriva un ruolo fondamentale nella trasmissione di una lingua tramite il suo latte, e se Manuel in Aracoeli da bambino parla lo spagnolo trasmesso quasi per osmosi mentre la mamma canta allattandolo, anche in questo caso specifico, il latte materno non può non ricollegarsi alla questione linguistica, centrale nella vicenda di Clara.

Infatti, quest’ultima è una donna bianca, nata a Mogadiscio, istruita in italiano ma che ha imparato il somalo proprio da Ebla, la donna da cui è stata allattata. Costretta a fuggire in Italia, torna in Somalia dove gli italiani si ostinano a non parlare il somalo, che però Clara ricorda e coltiva. Unica persona bianca del romanzo a sapere e voler migliorare la propria conoscenza del somalo, Clara si batte affinché venga riconosciuta l’importanza di perseguire l’insegnamento in somalo, nella scuola in cui lavora, e non solo e non più nella lingua coloniale. Ali Farah offre al lettore una riflessione interessantissima sulla questione della lingua in Somalia (solo parlata per secoli e codificata con alfabeto latino a partire dal 1972). È affascinante che tali riflessioni siano veicolate proprio da una lingua coloniale, l’italiano, che però è lingua materna per l’autrice che, ricordiamo, nasce in Italia e cresce in Somalia – l’esatto contrario di Clara.

Non è un caso isolato quello di Ali Farah, anzi è una tendenza riscontrata in diverse scrittrici somale contemporanee che si cimentano nella scrittura in lingue coloniali quali l’inglese. La questione linguistica in Ali Farah si arricchisce della sua storia personale, caratterizzata dall’educazione sia in somalo che in italiano, lingua quest’ultima che forse, solo in questo caso specifico, perde una parte della sua natura coloniale. La scelta dell’italiano, infatti, si giustifica nel tentativo di radicarsi in terre e culture diverse – l’autrice ha spiegato come queste lingue e i loro paesi abbiano dato la possibilità a lei e ad altre autrici di trovare la loro voce altrimenti soffocata da ambienti ancora più patriarcali. Speculare è la situazione di Clara, che si sente somala, ma con il senso di colpa che la sua educazione e le sue origini coloniali le impongono. Proprio riflettendo sulla lingua Clara cercherà di capire quale sia il suo luogo di appartenenza, quale la nazionalità che la rappresenta meglio, e quanto incida la lingua parlata nella definizione della sua – e non solo – identità.

La lingua, quindi, introduce anche una profonda, ma lineare, riflessione su una questione razziale che gli italiani ignorano nel romanzo, hanno ignorato nella storia e rimuovono oggi – «mi domando perché neri – a parere di tutti – si diventa sempre quando colpiti da una disgrazia». Questa ricerca di una propria soggettività autodeterminata trova il suo adempimento nella rivoluzione imminente, a cui si accenna e che cova nelle pagine dell’intero romanzo. E sembra che Ali Farah riecheggi (involontariamente, forse: bisognerebbe chiedere all’autrice) Laudomia Bonanni – che ne La rappresaglia (1985) fa gridare alla sua protagonista che la rivoluzione è femmina – quando osserva che «una lotta di soli uomini è mutilata, una lotta di soli uomini è una lotta destinata a fallire».

Non manca quindi neanche una vena più spiccatamente politica nel romanzo di Ali Farah – «Sorelle somale tenetevi pronte, che non ci divida l’oppressore, non avremo riposo fino a quando non avremo raggiunto i nostri obiettivi». È Ebla, con il suo sangue e il suo latte, a preparare fin da bambine Clara e Sagal alla rivoluzione, politica e personale, che le aspetta: «Mia cognata mi ammoniva sempre, diceva che sbagliavo a crescere mia figlia come un maschio, che sbagliavo non vedere il colore della pelle di Clara, ma ecco il frutto del mio raccolto: le mie ragazze unite con me nella resistenza». In realtà a tratti sembra che il vero motore che spinge le donne di questo romanzo alla ribellione sia uno dei più o meno marginali personaggi maschili del romanzo, Kaahiye. In ogni caso, questo non esime le personagge dal riflettere sul controllo che gli uomini cercano di imporre anche in questo aspetto delle loro vite: rimproverate di voler emulare gli uomini, finiscono per essere accusate solo di essere ottarde, uccelli del malaugurio.

Le stazioni della luna è un romanzo sulla maternità; sul limite labilissimo tra Natura e Uomo (nel senso neutro del termine, forse bisognerebbe dire Donna in questo caso); sulla storia di un paese colonizzato e di un paese colonizzatore; sulle difficoltà di autodefinirsi quando il contesto in cui si è immerse impone etichette e prescrizioni alle quali aderire; sulla difficoltà di rintracciare e stanziare le proprie radici in un solo luogo e in una sola cultura. E fa tutto questo aprendo le coscienze e le menti. La voce di Ali Farah si aggiunge a quella di altre scrittrici che per la prima volta, in tempi recentissimi, trovano – non senza difficoltà – lo spazio per (far) riflettere sulla definizione di ‘italianità’ e sulla storia di vari paesi colonizzati dall’Europa, andando a costruire una pluralità inedita che arricchisce la letteratura italiana. 


Ubah Cristina Ali Farah, Le stazioni della luna. Roma, 66thand2nd, 2021, pp. 208, € 16.