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La grande omissione americana: “Huck Finn nel West” di Robert Coover

Se si prendono in considerazione l’immaginario americano e la cultura così pervasiva che gli Stati Uniti hanno saputo creare, ci si trova di fronte a un pantheon letterario composto da figure che, più che ispirarci, ci rappresentano; che non ci insegnano, come fanno i maestri, ma ci sostengono, come fanno i compagni di classe. Si tratta di uomini e donne che fanno della propria normalità, e della ricerca del proprio piccolo posto nel mondo, il loro eroismo. Molti personaggi siedono a questa tavola, ma limitiamoci ai maggiori: Ismaele, Tom Joad, Holden Caulfield. E poi, naturalmente, Huckleberry Finn e Tom Sawyer.

Huck e Tom, grazie al loro creatore Mark Twain, sono scolpiti nell’immaginario collettivo come eterni ragazzini liberi e scatenati, protagonisti di innumerevoli avventure che li portano a confrontarsi con la realtà che li circonda, che sembra crescere al posto loro. Ma cosa succede se gli anni passano, e la storia va avanti tirando dritto? È a questa domanda che risponde Robert Coover – importante voce del postmoderno, scrittore tanto americano quanto di respiro sovranazionale – con il suo ultimo romanzo Huck Out West (2017), che finalmente arriva in Italia con il titolo di Huck Finn nel West, grazie a NNE e alla traduzione di Riccardo Duranti.

Huckleberry Finn è cresciuto e, insieme al suo compagno Tom Sawyer, si è avventurato nel Far West per sfuggire all’eccesso di civiltà. Coover omette quasi del tutto il racconto di questa “giunzione” tra il Mississippi del 1845 e il West del 1865: di quel tempo resta, all’inizio e come uno dei bassi profondi di tutto il romanzo, l’idea di una cavalcata verso Ovest in fuga dalla Storia, che però avanza a grandi, inesorabili falcate.
La narrazione è affidata a un Huck che immaginiamo seduto intorno a un fuoco da campo, insieme al suo pubblico; è sopravvissuto anche questa volta, ma ora non c’è più da crescere: l’unica cosa da fare è guardarsi indietro per fare i conti con ciò che si è diventati.
L’autore scompare in un’eclissi totale, e lascia le redini del racconto al suo protagonista, che le tiene nell’unica maniera che conosce: un po’ goffamente, senza starci a pensare troppo, come farebbero tutti gli Huckleberry Finn del mondo. Huck diventa aedo della sua stessa odissea, che arriva a noi sotto forma di caleidoscopio volutamente disordinato; nella narrazione, che segue l’ispirazione del momento e le associazioni di idee più che una organizzazione rigorosa di tempo e spazio, prevale una forma di anacronia a catena: un flashback ne scatena un altro, che invece magari apre la strada a un’anticipazione di eventi futuri, e così via.

È all’opera, come sempre nelle invenzioni letterarie di Coover, il gusto postmoderno per la destrutturazione e la ricostruzione; tuttavia, la differenza rispetto ad altre sue opere – come la selezione di racconti La babysitter e altre storie (NNE, 2019) – sta nel fatto che in Huck Finn nel West il gioco è meno scoperto, essendo nascosto dall’eclissi dell’autore nel suo protagonista. Eclissi strutturale, narrativa, ma prima di tutto linguistica: è proprio il linguaggio a emergere come uno dei protagonisti del romanzo, con Coover che porta alle estreme conseguenze l’idea di Twain secondo la quale per narrare una storia sgangherata occorre una molteplicità di narratori sgangherati, ognuno con la propria lingua ctonia, sbagliata, e per questo tanto più reale.
Questa lingua così vitale assume una centralità tale da imporre al traduttore Riccardo Duranti una chiosa in apertura di libro e non come postfazione. Nella versione italiana ad esempio ci si trova di fronte alla scomparsa totale del congiuntivo, spiazzante ma perfettamente motivata: in un mondo violento, riarso e demistificato come quello che sta nascendo intorno ad Huck non c’è spazio per il pensiero obliquo e l’ironia non nasce dal dubbio, ma dalla percezione della tragedia.
Come se stesse rispondendo a delle domande del tipo “raccontacene un’altra, Huck”, l’ex-eroe di Mark Twain ci consegna una serie di diapositive che acquistano ancor più senso se colte nel loro insieme. Dall’esperienza nel Pony Express all’incontro con il cercatore d’oro Deadwood e il distillatore Zeb, dalla riconciliazione con l’antico amico ed ex-schiavo Jim al periodo trascorso come membro della tribù dei Sioux Lakota, con la nascita del suo rapporto con il nativo Eeteh, tutti gli episodi sono facce della stessa medaglia: Huck, in sella al suo cavallo con la storia americana ad inseguirlo.

La modernità è alle porte: da ogni parte arrivano voci di schiavi neri liberati ma trovati misteriosamente morti, di interi campi di nativi rasi al suolo nel giro di una notte, di impiccagioni senza processo per una lite sulle concessioni tra cercatori, di un gruppo di Giubbe Blu guidate dal generale Culo Tosto – esilarante e terrificante parodia del famoso Custer – che imperversa dall’Est all’Ovest. Di fronte a questo spettacolo che mette paura, Huck si perde nei tramonti e nei ricordi:

«Nei tramonti c’è una luce triste e cremosa che ammorbidisce i bordi e fonde assieme pensieri e cose, un po’ come fanno i ricordi quando si scatenano da soli. È l’ora del giorno quando più mi ritrovo a pensare alla ormai lontana città sul fiume dove sono cresciuto e su tutte le cose che avevo combinato lì e la gente che ci conoscevo, specialmente a Tom Sawyer, più di tutti, che ci aveva sempre un’idea bella vispa su un’altra avventura da urlo in cui imbarcarci. Ne è passato di tempo. Sembrava cent’anni fa o magari di più. Da quei tempi ne erano successe tante di cose orribili, cose di una cattiveria sfrontata. Era come se c’era qualcosa di malvagio nel diventare grandi».

Chi è diventato grande davvero è Tom Sawyer: l’altro immortale personaggio di Twain si fa strada tra le righe del romanzo di Coover come una presenza defilata rispetto al protagonista, eppure sempre sullo sfondo, capace di emergere dalle pieghe della storia per guadagnarne il centro. Tom ha accettato la civilizzazione: è tornato a Est, ha imparato a vestirsi bene e sostiene di aver studiato legge. Quando torna nel West da Huck, al suo fianco cavalca il mito del progresso americano:

«[…] Stiamo costruendo la prima nazione perfetta al mondo quaggiù e non c’è nessun maledetto pellerossa che si metterà di traverso, e nemmanco nessun re e nessuna sciocchezza né senti né mentale né quacchera che sia, per non parlare manco dei banchieri forestieri! Costruiremo il paradiso in terra dove tutti saranno RICCHI e nessuno oserà togliervi quello che vi aspetta di diritto ed è VOSTRO! Questo è il nuovo ELDORADO!».

A questo punto Coover apre una ferita, allarga una distanza incolmabile tra Huck e Tom. Così facendo, attraverso la violenza perpetrata dai pionieri guidati dai Sawyer di turno, parla con una chiarezza disarmante all’America di oggi; o meglio, dell’America di oggi mostra la nascita, l’eziologia e il peccato originale. La tanto decantata – e sempre esportata – american way of life, gli archetipi del self-made man e della land of opportunities,costruiti proprio sul grande mito della Frontiera: tutto questo, ci dice Coover attraverso il filtro di Huck, forse è semplicemente falso, mistificato, e va riportato a terra, attraverso un punto di vista alternativo. La gravità della “grande omissione americana” – così si potrebbe chiamarla – non sta nella violenza in sé, perché ogni rivoluzione comporta un certo gradiente di pars destruens; piuttosto, nel fatto di aver mentito e di essere rimasti in silenzio di fronte a quella stessa violenza. Bugie piene di retorica e di belle speranze, proprio come quelle che Tom propina a chiunque intorno a sé: e chiunque gli crede, perché credergli è più comodo.
Huck è un protagonista tragico perché si trova a essere testimone di tutto questo; non può che prendere le distanze da Tom, che diventa l’antagonista, il suo rovescio possibile:

“Il sigarone di Tom intanto si era spento e perciò lui se lo ha riacceso. «Mi hanno assunto come loro avvocato e ci è voluta una bella fatica, ma alla fine li ho fatti assolvere tutti.»
«Ma non erano colpevoli?».
«MA CERTO che erano colpevoli, Huck! Non stai ATTENTO! Ti sto parlando del PRO-PROGRESSO. La legge è fantastica. È una specie di magia. Sono diventato famoso per quell’impresa. Dopo mi hanno eletto giudice e uno di quei commercianti è diventato governattore o qualcosa di ugualmente crinimale». Poi ha visto che io scuotevo la testa e allora si è messo a scuoterla anche lui e ha detto: «Il problema, Huck, è che tu non sei mai cresciuto. Vivi ancora in un mondo di sogno che non esiste»”.

Tom ha ragione fino a un certo punto. Huck, per crescere, è cresciuto: solo, in una direzione diversa da quella comune. È cresciuto scappando dalle lezioni di bon ton della vedova Douglas e dal mondo che Mark Twain aveva costruito intorno a lui, quando ancora giocava ai pirati sull’isola di Jackson nel mezzo dell’impetuoso Mississippi. Ha preceduto di pochissimo la corsa all’oro, ed è riuscito a sostituire l’amicizia di Tom con quella di Eeteh, suo nuovo fratello maggiore che gli fa conoscere una realtà tutta nuova, fatta non di miniere, concessioni e vene sotterranee, ma delle leggende e dei racconti su Coyote, Serpente, e tutti gli altri Grandi Spiriti che dicono così tanto di noi, vedendoci come gli animali che siamo.
Huck Finn è andato nel West, che lo ha trasformato – utilizzando l’azzeccata formula usata in apertura da Duranti – in un “pessimista anarchico”, sempre pronto a mettere a nudo e mostrare le contardizioni della siviltà, sempre pronto a costituire, nell’orizzonte dei nostri eroi, un’alternativa.
Per questo Huck Finn nel West non è soltanto un gioco, un divertissement letterario raffinatissimo: la parabola epica e storta di Huck e quella in caduta libera di Tom Sawyer costituiscono un invito ad assumere una nuova prospettiva sulla nascita dell’America, ormai land of the free solo per abitudine. Onore a Coover, che re-interpreta in modo spietato e lucido un mito fondante americano, dandoci l’Huck Finn che non sapevamo di poterci ancora meritare, di cui, senza saperlo, sentivamo la mancanza e il bisogno.


Robert Coover, Huck Finn nel west
NN editore 2021
364 pp., 19€