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#PremioBg21 – Due parole con Maria Grazia Calandrone

In attesa della cerimonia di premiazione della XXXVII edizione del Premio Narrativa Bergamo, che si terrà venerdì 18 giugno alle ore 17 in Piazza Vecchia (qui le istruzioni per partecipare), proponiamo delle brevi interviste con i cinque autori finalisti. Si comincia con Maria Grazia Calandrone, in cinquina con Splendi come vita (Ponte alle Grazie 2021).


Che cosa vuol dire per una poetessa entrare nel terreno del romanzo, in termini di approccio alla scrittura, di riflessione sullo stile e di resa formale?

Avere la possibilità di narrare, cioè di sviluppare una storia coerente, poter essere ironica e anche umoristica, oltre che umorale, ed essere costretta a sviscerare la maggior parte dei nessi logici tra gli eventi, interiori e sociali. Lasciare dunque meno spazio all’intuizione e al silenzio e lavorare a una chirurgia di superficie.

Covava da tempo l’idea di raccontare il suo vissuto personale o è stata un’esigenza nata e declinatasi improvvisamente? A livello di costruzione narrativa, si è interrogata durante la stesura dell’opera sulla dialettica costitutiva che intercorre tra prosa e poesia o l’urgenza della scrittura e l’alto valore affettivo hanno dettato in maniera naturale, oserei dire “fisiologica”, lo sviluppo del testo?

L’idea era in me da molti anni, avevo anche ricevuto una proposta editoriale, ma non sapevo scrivere questa storia perché (nonostante avessi rilasciato già moltissima prosa, sia in forma di racconti che giornalistica) ritenevo la prosa un’avventura diversa dalla poesia. Sbagliavo, ma si trattava di trovare una lingua che suonasse universale come quella che intendo per poesia, come il suono molecolare che emettono i versi e il grande bianco intorno (se c’è). Così, ho scritto questo ibrido, così strano che, all’ennesima restituzione di bozze nelle quali correggevo le correzioni del correttore (!), l’editore si è sentito in dovere di scrivere che gli a capo che si trovano nel libro derivano da una mia espressa volontà. La poesia – anzi, la prosa musicale – va giustamente difesa dal sospetto di essere un refuso.

Il romanzo presenta alcuni documenti iconografici: gli articoli di giornale sulla sua storia, la foto del padre, alcuni suoi disegni e, in fondo, una foto di lei bambina insieme alla madre adottiva, che replica l’immagine della copertina. Quale funzione ha pensato di affidare a queste “tessere”? Servono a garantire l’autenticità di quanto raccontato? O indicano piuttosto un ulteriore spazio di sviluppo della storia raccontata? Cosa l’ha spinta a includerle?

Le immagini sono parte integrante del racconto. Nell’audiolibro ho letto anche le parole dei due articoli di giornale, che sono indispensabili alla narrazione, perché l’antefatto è affidato alle frasi offensive e pietose della cronaca, mentre io prendo la parola dal momento in cui metto piede nella mia nuova vita, sorretta dalla mia mamma adottiva. Foto e disegni sono un’altra lingua, necessaria, un contributo all’approfondimento: la poesia include tutte le lingue possibili.

La scrittura di quest’opera ha assunto per lei un valore catartico? L’ha aiutata ad elaborare meglio e con maggior profondità i traumi di un’esperienza emotivamente drammatica e segnante?

Non credo. Volevo solo rendere un omaggio a mia madre e mettere a disposizione degli altri la storia di una soluzione. Provo una commozione grande ogni volta che ricevo le parole di chi ha letto: figli, madri, soprattutto genitori adottivi, che trovano nel libro qualcosa che fa splendere anche la loro vita.

Un’ultima domanda leggera, che rivolgiamo sempre ai finalisti del Premio: qual è la qualità o il carattere che possono far vincere questo libro?

La simpatia dell’autrice.