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#botta&risposta – Ragioni della fisica in Socci

Per la rubrica #botta&risposta Davide Castiglione dialoga con Riccardo Socci, autore di Lo stato della materia (Arcipelago Itaca, 2020).


Caro Riccardo,

ho letto Lo stato della materia e desidero articolare alcune impressioni di lettura che in parte confermano e in parte anche attenuano l’apprezzamento quasi entusiastico che ebbi dopo aver letto un’anticipazione su «Nuovi Argomenti».

La poetica, che mi sento affine, è improntata a una leggibilità del mondo esterno che fa continuamente comunicare scene di vita quotidiana (propria o altrui, non per forza autobiografica) con verità e affondi dal sapore intuitivo-introspettivo («c’è una stanchezza | di cose ancora non fatte nell’aria») o di tipo più allegorizzante, suggerita dai fenomeni osservati anziché enunciata dal soggetto («Così, ad esempio, vedi sui tronchi degli alberi | prendere corpo le gemme»). 

La lingua vanta una nitidezza descrittivo-argomentativa senza esplicite torsioni linguistico-formali, ma al tempo stesso la sua semantica figurale è animata da un montaggio d’immagini che fa transitare il lettore dal mondo fisico familiare di oggetti e paesaggi esperibili («un tronco che galleggia», «la televisione accesa», «fessura nella portafinestra», «una vecchia signora | che stende gli gnocchi» eccetera) ai mondi microscopici ma altrettanto e forse più reali postulati dalla fisica: «processi endotermici», «teorema dei cicli», «onda meccanica della voce», «campi elettromagnetici nel corpo», «la teoria del campo unificato», «fusioni nucleari delle sfere di plasma», «le molecole di ossigeno», «acceleratori di particelle», «fascio caldo di fotoni» e altro, incluso il titolo della silloge stessa. 

Anche all’interno del mondo esperibile ci sono alcuni accostamenti figurali vertiginosi: per esempio la combinazione di primissimi piani come gli «angoli dell’occhio» e piani lunghissimi come «vaste | superfici di sole».

Questi slittamenti ontologici, mentre mettono in scena un metamorfismo del reale, mi sembrano indicare una soggiacente unità dello stesso: non ci sono molti mondi, c’è un solo mondo avvicinabile mediante molti modelli, dalla percezione(anche il sistema percettivo ci offre un modello del mondo, non la sua riproduzione fedele, come ci ricorda fra gli altri il linguista generativista Ray Jackendoff) alla speculazione teorica

Per non impoverire il reale (e quindi per non tradirlo) al soggetto poetico è insomma richiesta una simultanea consapevolezza di questi vari livelli, e quindi una loro costante attivazione dialettica: sia pure in modi diversi, questa attitudine conoscitiva (che chiamerei neo-umanista o neo-illuminista, domandandoti se ti ritrovi in questi termini) mi riporta a operazioni non dissimili compiute da Maria Borio e Dimitri Milleri nei rispettivi ultimi libri, in cui il reale esperibile è poroso, malleabile, eppure resta essenziale nella sua manifesta basilarità che avvolge tutti noi in quanto soggetti incarnati. 

Sotto l’apparente umiltà neoclassica del tuo stile, la posta è piuttosto alta e il mezzo che cerca di realizzarla, vale a dire questi slittamenti ontologici, non mi sembra sempre compenetrato a sufficienza nel tessuto dianoetico dei testi.

In sostanza, i numerosi inserti della fisica mi suonano talvolta dispensabili o volontaristici, assumendo al mio orecchio un carattere talvolta estetico-ornamentale. A riprova di ciò, mi sono domandato in cosa perderebbero i testi se alcuni fra tali riferimenti venissero rimossi. Prendiamo il (bel) testo a p. 24:

La cassa diffonde il concerto di Neil Young.
Siamo alla strofa in cui l’alcolizzato
cade per strada. Le mutande sporche
nel cesto del bucato: anche così finisce
una giornata. Ho visto un uomo malato 
entrare nella sua fine oggi, la fine di un giorno.
Ho provato rabbia e mi sono commosso.
Ho provato il desiderio di dimenticare,
l’ho assecondato. Il dolore di un uomo
è come la tenda che si chiude
nella cabina per le fototessere. Uno spazio
che le parole non percorrono,
che il senso del tatto attraversa più a lungo
delle parole, prima di fermarsi.


La teoria del campo unificato
prevede l’esistenza di undici dimensioni.
Oggi ho visto un uomo entrare
in una delle sette che non conosciamo.
Sul piano macroscopico,
la rotazione terrestre ci trasporta
da un inizio all’altro. Adesso è notte, anche così
finisce una giornata: ciascuno è a letto,
con le dita che si intrecciano, ricopia
di cellula in cellula
le proprie informazioni, dentro
la sua mente, come una traccia lasciata
nella speranza di perdersi, per sempre.

Prima di tutto, ti (ci) invito a leggere il testo ignorando la parte espunta, chiedendomi se in tal modo non ne guadagni in incisività, nel suo assecondare anziché bloccare il pathos messo in moto dalla prima strofa. E ora, senza soffermarmi troppo sull’interferenza intertestuale, per me distraente, che mi causa l’incipit (il riferimento a Neil Young non può non rimandare a Certe notti di Luciano Ligabue: «la radio che passa Neil Young sembra avere capito chi sei»), passo a una disamina più strutturale del testo, considerandolo nella sua interezza (inclusa, dunque, la parte che ho espunto). 

Questo è formato da due strofe di estensione simile (14 e 13 versi, rispettivamente): la prima ritrae scene esterne, ancorché semioticamente mediate («siamo alla strofa in cui l’alcolizzato | cade per strada») e la reazione emotiva dell’io a queste («Ho provato rabbia e mi sono commosso»), per poi assurgere a un dettato gnomico-riflessivo, con la bella similitudine della tenda della cabina per le fototessere e una riflessione metalinguistica sui limiti del dire («Uno spazio | che le parole non percorrono») – limiti che risaltano non appena comparati al tatto, più lento ad attraversare il dolore e quindi più rispettoso nei confronti dello stesso. 

C’è una forte coesione in questa prima strofa, un senso di circolarità ottenuto mediante i riferimenti alla mediazione semiotica che la incorniciano in incipit ed explicit («strofa», v. 2, e «parole», v. 14). 

La seconda strofa introduce un riferimento alla teoria del campo unificato, virando bruscamente dall’esperenziale al teorico. Posso comprendere l’esigenza (dialettica) di raffreddare il tono lirico mediante un inserto didascalico, anche se ultimamente non lasciare esondare il lirico quando spinge mi sembra una posizione difensiva, troppo intellettualizzata, come una censura preventiva per schermarsi dalle obiezioni di possibili detrattori. Tuttavia tale introduzione può far sospettare, retroattivamente, che la prima e più immersiva strofa fosse una sorta di preparazione sacrificabile e sacrificata al discorso teorico; che fosse cioè finalizzata alla coesione macro-tematica (il discorso della fisica, già alluso dal titolo e chiaro segnale di intentio auctoris), e perciò privata della dignità di potersi reggersi da sola, al di là dei desideri dell’autore. 

Se accettiamo comunque questa deviazione quale indicazione di lettura, ne deriva che la fine di quell’uomo (che sia l’umiliazione per la caduta, la dipendenza dall’alcol o una morte vera e propria) apparterrebbe a una dimensione a noi inconoscibile, e però postulata dalla suddetta teoria. 

Eppure, non era già sufficiente dire che le parole non percorrono quello spazio (fine della prima strofa), per suggerire più intuitivamente l’idea dell’inconoscibilità? Serve proprio menzionare questa teoria? Io credo di no, e credo anzi che sia nociva al testo, poiché un lettore mediamente colto ma digiuno di fisica sentirà il desiderio di informarsene nel bel mezzo della lettura o subito dopo, creando una forte interferenza rispetto al pathos raggiunto nella prima strofa. 

Sacrificare la volontà di coesione macro-tematica (e quindi, paradossalmente, parte della propria poetica) avrebbe cioè liberato il lettore dagli occhiali ideologico-epistemologici dell’autore. Tanto varrebbe, all’opposto, sacrificare del tutto l’occasione-spinta, e costruire un testo caleidoscopico e vertiginoso che provasse a farci esperire tutte le undici dimensioni a furia di assurdi controfattuali.

Faccio un altro esempio legato al precedente: nel testo successivo, a p. 25, un inizio vitalistico-rimbaudiano («Guardando il cielo ho pisciato nel mare»), seguito da una riflessione ironica sull’innalzamento del mare, viene troncato da un riferimento alle «fusioni nucleari delle sfere di plasma» che sembra del tutto fuori luogo (o forse sono corresponsabili dell’innalzamento dei mari, ma allora occorre avere questa conoscenza pregressa); fuoriluogo anche perché i versi che personificano romanticamente queste fusioni («sembrava potessero dire | qualcosa a un uomo attento | e capace di sognare») appaiono una parentesi avulsa dal quadro descrittivo-aneddotico del testo, nella sua progressione dal mare iniziale alla campagna finale. Anche qui, tirannia dell’intenzione tematica sulla spinta locale del testo. 

Per converso, più riuscite e motivate mi sembrano quelle incursioni della fisica o della biologia maggiormente calate nel contesto: penso a certi passaggi stemperati dal dubbio epistemico («la ragazza si osserva | le mani tozze, le dita corte | e forse maledice una metà | del proprio corredo genetico», p. 32; corsivo mio); oppure da una concessiva ribelle che ironicamente ma umanissimamente minimizza la grandiosità del cosmo, allineandolo al decadimento fisico («nonostante il buco nero | in espansione in mezzo alla galassia | o i capelli che cadono», p. 34); oppure ancora da un senso di contiguità naturalistica in cui gli acceleratori di particelle sono letteralmente parte del paesaggio descritto («dalla sponda opposta del lago | acceleratori di particelle | forniscono dati sull’origine della massa», p. 35).

Viene insomma il sospetto che talora le immagini imprestate dalla fisica siano lì in funzione di una meraviglia neo-mitica e un fascino già garantiti dall’immaginario dell’estremamente piccolo e dell’estremamente grande: quasi una versione evoluta dei lirici tramonti e fiori, e contrappeso per smorzare o modernizzare un’ispirazione tutto sommato (felicemente) lirica. 

Detto altrimenti: la presenza della fisica a monte è opportuna perché informa il tuo sguardo, lo rende curioso, progressista e investigatore, ma mi chiedo se non debba essere lasciata all’occasione-spinta e ad alcune immagini singole (per es. «un fascio caldo di fotoni | che otto minuti fa | è partito dal sole e ci ha sorpreso», p. 39); oppure, per converso, se non debba essere sviluppata pienamente fino a permetterle, come fa la fisica non-classica sulla nostra idea di mondo, di rovesciare il senso comune e veramente deformare le rappresentazioni nei testi, renderli a tratti inquietanti e inconoscibili. 

Forse su questo tema occorrerebbe chiedere lumi a Michele Ortore, che dell’uso della scienza in poesia si è occupato a più riprese, iniettando anch’egli concetti scientifici nelle proprie poesie.

La dialettica fra micro e macro già riscontrata (non senza problematicità, come ho appena cercato di mostrare) sul piano della rappresentazione, è d’altronde percepibile anche sul piano interpersonale della voce nelle oscillazioni – sempre ben amalgamate, non drammatiche – fra narrazione denotativo-assertiva, allegorico-fortiniana («Al centro del campo c’è un salice. | Un fulmine, o forse il vento, ha spezzato | uno dei due rami principali», p. 29; per inciso, questo testo mi pare tra le riuscite più alte del libro, insieme ai testi a pp. 9, 14, 27, 36, 39 e 40) e gnome epigrammatica (dallo stesso testo, «i grandi poeti invece | sono come la colla | e guardano sempre il ramo spezzato», ma si potrebbe prelevare altro, per esempio, «credo che esista l’immortalità: | è piena di gioia e parla francese», p. 34, con accenti graziosamente sbarazzini; o ancora il bellissimo ed empiricamente vero «Per immortalare | il vento possiamo soltanto | ritrarre le cose che muove», p. 13); dialettica percepibile, dicevo, anche nel cozzo fra stralci ostentatamente impoetici («il cazzo sempre pronto | alla prossima eiaculazione», sempre il testo a p. 34, o l’acre e morboso testo a p. 16, dove solo mi respinge l’uso reiterato della parola «obeso» quando dal personaggio sembra scivolare al narratore) e l’effusione del seguente estratto a p. 20, sabiano senza epigonismo e fra i più notevoli del libro: 

Lo posso comunque giurare: amo
la doppia fila dei platani, il naso
curioso di un cane sul culo 
dei suoi simili

L’effusione della confessione è appena arginata, e al tempo stesso potenziata per contrasto, da segnali discorsivi come «comunque» e i due punti a ricordarci che riflessione e sentimento si sostengono a vicenda in chi è portato ben più alla compenetrazione di sé nel circostante che alla frattura e al trauma del tragico, che non ti appartengono. Vi è, insomma, iscritta nel modus poetico, una fiducia neo-umanistica nel discorso e nell’esperienza che mi riporta ad altri autori che apprezzo quali Riccardo Frolloni, Francesco Terzago, Federico Italiano o Alessandro Mistrorigo – soprattutto con gli ultimi tre condividi il tema del viaggio e della situatedness dell’ispirazione, evidenti già da alcuni titoli (Viaggiando da Chiang Mai a Chiang RaiDomenica, all’autostazione di PerugiaPort de Vidy, domenica, o anche il testo incipitario Pisa-Firenze).

Al netto delle perplessità prima enunciate e che sono tuttavia (a mio modo di vedere) locali ed emendabili, resta il merito dell’operazione complessiva. Il sistema chiuso – tradizionale od oltranzista che sia – e l’omogeneità della postura, del progetto che non ammette increspature interne e rifrazioni, sono forse il peggior nemico del processo e quindi del risultato artistico, ma per fortuna il tuo sistema in potenza e poi di fatto nelle riuscite più convincenti è aperto ed esploratore. Spero che tu possa trovare utili queste osservazioni e pungolamenti, e ti ringrazio in anticipo per il confronto.

Valenza, 19/08/20 – Vilnius 14/11/20


Caro Davide,

Grazie per il tempo che hai dedicato al libro e per la nota di lettura. È un atto di generosità non comune, e tengo a sottolinearlo. Le considerazioni che hai svolto mi offrono molti spunti di riflessione; troppi, a essere sincero, quindi mi scuso in anticipo se affronterò soltanto alcune delle questioni da te poste.

Rileggendo il nostro primo scambio, e ora questa versione aggiornata della tua nota, mi rendo conto che è impossibile per me (anche se lo avrei preferito) evitare l’autocommento, dal momento che, bisturi in mano, sezioni nel dettaglio alcuni testi del mio libro (cosa che apprezzo molto), con la precisione e la cura che ti caratterizzano.  

Per togliermi dall’imbarazzo dell’autoesegesi, inizio parlando di un’altra opera. Nell’Aspetto occidentale del vestito,Giampiero Neri è riuscito a trovare un equilibrio a mio giudizio splendido fra il lirismo di fondo che caratterizza i suoi testi (con quel che ne consegue: autobiografismo, un certo tasso di trasfigurazione metaforica ecc.) e una rappresentazione scientifico-etologica, dal carattere quasi impersonale, del «teatro» naturale luogo dell’«azione».

La cosa per me più sorprendente del libro è notare come Neri riesca a delineare un campo di incontro fra il poeta-«osservatore» (come si definisce) e il lettore, garantito proprio dall’oggettività degli eventi descritti, e al tempo stesso a suggerire anche il possibile (e soggettivo) valore simbolico-allegorico di quegli stessi eventi, creando così effetti di tensione.

Mutatis mutandis, con lo Stato della materia sono partito da presupposti simili – niente di nuovo quindi, considerando che il libro di Neri è uscito nel 1976. Gli «inserti dalla fisica» (ma sono molti anche quelli dalla biologia), nelle mie intenzioni non vorrebbero essere incisi a carattere «estetico-ornamentale», appiccicati a forza ai testi.

Nel comporre il libro, ho riflettuto a questo proposito soprattutto su due questioni, tra loro consequenziali: 1) le discipline scientifiche, in particolare fisica e biologia, con il loro bagaglio di conoscenze, applicazioni e teorie più o meno comprensibili, hanno egemonizzato il campo culturale e l’immaginario della nostra civiltà, influenzando il modo di vivere e quello di concepire (e quindi percepire) la realtà – anche qui, niente di nuovo 2) considerando che il mio modo di interpretare il mondo, come detto, è segnato in maniera profonda da una visione di tipo scientifico-materialista, mi sono chiesto quale potesse essere la strada migliore per rappresentare in poesia, attraverso i suoi strumenti, quello che tu definisci (non avrei saputo dirlo meglio) il «metamorfismo della realtà», e dunque il rapporto che i soggetti intrattengono con esso.

Nei miei testi, come sottolinei anche tu, nella dialettica io-mondo ho preferito concentrarmi su quest’ultimo, i cui «fenomeni osservati», tra i quali rientrano la stessa prima persona e l’altro da sé, suggeriscono delle riflessioni al soggetto enunciante. 

Riferendomi a certe nozioni del campo scientifico ho provato insomma a utilizzare degli strumenti conoscitivi, cercando la maniera più chiara e al tempo stesso precisa per indicare alcuni fenomeni naturali, alcuni elementi o alcune teorie che, attraverso il lessico della scienza, descrivono quei fenomeni.

Campi elettromagnetici, fotoni, sfere di plasma, onda meccanica, molecole di ossigeno e così via sono ovviamente «immagini imprestate» (frutto a loro volta di artifici retorici: un buco nero tecnicamente non è né un buco, né è, di solito, nero), ma sono al tempo stesso il modo normale (comune, se preferisci) di nominare ad esempio le particelle che compongono la luce, o gli atomi che entrano attraverso i polmoni nel nostro sangue.

Nelle mie intenzioni, si tratta di trovare e percorrere una via per avvicinarsi al lettore, per confrontarsi con lui muovendosi su uno stesso piano: per dire precisamente la cosa che si vuole dire nel modo più chiaro possibile, facendo appello a esperienze e a un lessico condivisi, o quanto meno condivisibili. 

Ricorrere a immagini del genere in poesia può essere interpretato come un modo per suscitare un senso di «meraviglia neo-mitica e un fascino già garantiti», come scrivi.  In una certa misura, mi trovi d’accordo, dal momento che quel senso di meraviglia, a mio modo di vedere, è legato proprio alla nostra capacità di conoscere o immaginare, pur senza averne esperienza diretta, alcuni dei fenomeni che danno forma alla complessità dell’universo in cui ci troviamo – il discorso, almeno per me, non va nella stessa direzione dei «lirici tramonti e fiori». Per inciso, rispondendo alla tua domanda, posso dirti che apprezzo molto l’aggettivo «neo-illuminista», se definiamo con il termine una visione razionalistica del mondo che, nello sforzo di comprensione e interpretazione, cerchi di preservarne appunto la complessità, mettendo in luce i rapporti che legano i suoi elementi costitutivi, anche quelli apparentemente più lontani. 

Assieme alla meraviglia di cui parli, c’è per me anche un senso di sconforto, indifferenza e, soprattutto, di straniamento: è precisamente questo l’effetto che ho ricercato in molti testi, attraverso l’accostamento e il montaggio (in certi casi forzatamente schizofrenico) di piani tra loro distanti, cambi improvvisi di focalizzazione e così via. Uno dei temi centrali del libro è appunto il senso di straniamento che deriva dall’avere consapevolezza di fenomeni naturali che danno forma alla realtà in cui vivo e che pure (mi permetto un’autocitazione) «non mi riguardano» in nessun modo.

Il rapporto, insomma, tra il vuoto di senso che incombe sui destini individuali, per riprendere Fortini da te citato, e la meccanicità della pura materia, che ho cercato di rendere attraverso formule oggettive e precise sul piano referenziale. Formule scientifiche, per indicare dati nudi di realtà. Capisco il tuo punto di vista, quando dici che la loro presenza ti è parsa a volte gratuita o volontaristica: io non posso pronunciarmi sugli esiti dei miei testi – il giudizio di valore spetta al lettore, e mi fido del tuo.

Quel che mi sento di dire è che, se in certi casi hai percepito un’egemonia o «tirannia» del dato e del tema scientifico, questa potrebbe forse costituire anche il sintomo, il riflesso del paradigma socio-economico dominante, e quindi di un tratto della sensibilità contemporanea, o quantomeno della mia. 

Spendo qualche ultima parola sul testo sul quale più ti sei concentrato, quello della «teoria del campo unificato». Dopo la prima strofa, in cui si parla di un uomo sul punto di morire, il riferimento alla teoria di cui sopra serviva, nelle mie intenzioni, a segnare uno stacco, evidenziato anche dalla cesura strofica. «Assecondare […] il pathosmesso in moto» nella prima parte era precisamente quello che non volevo fare, come dice in presa diretta anche l’io che prende la parola: «ho provato il desiderio di dimenticare, | l’ho assecondato».

Nelle mie intenzioni, si trattava appunto di non indugiare sul dolore di un uomo che sta morendo, esperienza che, nonostante ogni sforzo empatico di comprensione, resta ai miei occhi qualcosa di irriducibile e indecifrabile: uno spazio privato nel quale chi è fuori non può che gettare uno sguardo sempre carente.

L’attacco della seconda strofa (che, come noti puntualmente, è quasi speculare rispetto alla prima) vorrebbe in qualche modo mimare l’andamento del pensiero del soggetto.

Chi parla riflette qui su quel contrasto di cui ho detto prima: da un lato il «piano macroscopico» nel quale ci troviamo, regolato dal «circuito di produzione e distruzione», dall’altra le sette (supposte, trattandosi di una teoria tutta da verificare) dimensioni microscopiche di cui si occupa la fisica quantistica, che «non conosciamo» né potremo mai (forse) conoscere, e nelle quali l’io immagina, in maniera ingenua e al contempo disillusa, che possa finire l’uomo una volta morto – tenendo a mente le leggi di conservazione della massa e dell’energia, potremmo considerare quelle dimensioni una sorta di parentesi di speranza, una possibilità, mentre la «sua fine», nella prima strofa, non ammette repliche in tal senso, e comunque la poesia si chiude in questa direzione.

La riflessione sull’«inconoscibilità», come scrivi, vorrebbe insomma essere duplice: nella prima parte riguarda il dolore di un individuo particolare, e la reazione dell’io che assiste a quel dolore; nella seconda la morte come esperienza universale.  

Non so dirti se «servisse proprio menzionare questa teoria»; forse no. A mio modo di vedere, senza quella parentesi, il significato del testo non sarebbe però lo stesso.

Oggi, dopo le riflessioni innescate dalla tua analisi (a riprova della sua lucidità), se dovessi riscriverlo prenderei in considerazione la possibilità di inserire, al v. 17, un «forse», ossia il «dubbio epistemico» di cui tu parli: «oggi forse ho visto un uomo entrare | in una delle sette che non conosciamo».

In ogni caso, sull’efficacia delle singole rese testuali non posso pronunciarmi. Dal mio punto di vista di autore, posso dirti che rendere mimeticamente, sul piano della forma e dello stile, la teoria a cui si fa rifermento – ad esempio «costruendo un testo caleidoscopico e vertiginoso che provasse a farci esperire tutte le undici dimensioni a furia di assurdi controfattuali» –, credo che avrebbe condotto, almeno nel mio caso, a esiti testuali prossimi al didascalismo o, cosa per me ben peggiore, all’incomunicabilità.

Non «deformare le rappresentazioni nei testi» è stato precisamente uno dei miei intenti programmatici, senz’altro contestabile. Al di là delle mie preferenze, mi chiedo (e ti chiedo): è possibile concepire un universo a undici dimensioni? E dargli forma nel testo? Un tentativo di questo tipo non rischierebbe di essere un esercizio arbitrario e gratuito di stileCui prodest, se non all’ego di chi scrive

Chiedo scusa se mi sono dilungato. Alla fine, ho affrontato soltanto una delle tante questioni che hai posto, rischiando peraltro di farmi torto da solo, appiattendo Lo stato della materia sul solo rapporto poesia-scienza, che nell’economia del libro vorrebbe inserirsi in un movimento dialettico più ampio – ad esempio, nei testi ho provato più volte a sottolineare come la stessa realtà, sulla quale ho tanto insistito qui, sia sempre il frutto di una rappresentazione soggettiva.

Tuttavia, sugli aspetti del libro che ti hanno convinto non avevo nulla da replicare. Concentrarsi sui «pungolamenti» è senz’altro più fruttuoso, anche perché, come ci insegna il nostro cantautore, «chi s’accontenta gode, così così».

Pisa, 24/08/2020 – Offagna, 10/12/2020