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Hi guys! Le opere e i giorni di Chiara Ferragni

Quando si vuole parlare seriamente di Chiara Ferragni bisogna sempre sforzarsi di fare ampie premesse che ne elenchino gli ultimi meriti, facendo molta attenzione a nominare la giusta selezione di rassegna stampa, Harvard e Forbes per il pubblico non italiano, la visita-non visita agli Uffizi e l’ospitata da Fabio Fazio per il pubblico nostrano.

E quindi, nonostante qui si debba parlare di un saggio su Chiara Ferragni e non dell’ontologia dell’influencer, il modo migliore per iniziare sarebbe ricordare che giusto pochi giorni fa lei e Fedez (i Ferragnez) sono stati insigniti dell’Ambrogino d’oro e immediatamente dopo inseriti da Vanity Fair nell’elenco delle 50 persone più influenti dell’anno. A questo si aggiungono la famosa telefonata di Conte ricevuta da Fedez e l’atto di merito supremo, la raccolta fondi più importante mai vista sulla piattaforma GoFundMe per la realizzazione di un reparto di Terapia intensiva appositamente dedicato a pazienti Covid esattamente quando la pandemia era diventata il primo problema nazionale.

Fatta dunque questa premessa in cui ci siamo sincerati che la bontà d’animo di una ragazza che nel 2009 ha avuto una buona idea e l’ha portata avanti per undici anni la renda meritevole delle attenzioni di chi si occupa di tutto tranne che di social, al netto delle pandemie, si può passare al saggio Chiara Ferragni. Filosofia di una influencer, di Lucrezia Ercoli, uscito recentemente per la casa editrice Il melangolo. Ma ecco, il problema rimane: se pure c’è bisogno che ci si occupi di Chiara Ferragni e di Instagram (e a breve dovremmo farlo con Twitch, dopo che per anni non l’abbiamo fatto con YouTube) il punto di interruzione del ragionamento è sempre lo stesso, un giro infinito intorno a una serie di domande retoriche: ma chi è Chiara Ferragni? Cosa fa? Perché è ricca? Perché la seguono?

L’impressione è che se non si riesce a sciogliere questo primordiale nodo gordiano nessuno mai potrà affrontare un discorso serio sui modi in cui Chiara Ferragni costruisce l’identità da cui deriva il suo engagement e sul ruolo (sociale?) che un influencer ha oggi nell’immaginario collettivo.

Iniziamo dicendo che si sentiva, molto poco ironicamente, il bisogno di un saggio che riflettesse sulla figura della Ferragni, e il saggio di Ercoli esce proprio in un momento in cui l’attenzione intorno ai comportamenti privati dei personaggi pubblici si carica di significato. La pandemia sta richiedendo uno sforzo collettivo notevole e ci sono gravi difficoltà di comunicazione (e comprensione) tra istituzioni e cittadini; sembra che chi abbia un numero qualsiasi di followers (22 milioni o 22 cambia poco, ciò che conta è l’atto di condividere) debba diventare un esempio di irreprensibilità civica e che si carichi di una responsabilità quasi pedagogica nei confronti di chi fruisce dei contenuti offerti, qualsiasi essi siano. È chiaro quindi che Chiara Ferragni mai come ora si sia sentita responsabile del messaggio che trasmette, che in ottica COVID19 è stato inizialmente espresso nella sua rinuncia alla settimana della moda di Parigi, poi nell’aderenza al movimento dei balconi #iorestoacasa, fino a diventare un appello disperato verso chi si ostina a non indossare la mascherina.

Riflettere sul ruolo sociale degli influencer con gli strumenti della filosofia e della sociologia può essere ancora più utile nel momento in cui questo (si spera temporaneamente) si associa a un discorso di salute pubblica e senso di comunità. A questo riguardo, infatti, le scelte di Chiara Ferragni sono da considerarsi non solo le più impattanti a livello social, ma anche le più ponderate e lo sono state da subito: Chiara Ferragni aveva rinunciato a viaggi ed eventi sociali prima degli altri.

Bene quindi, che se ne parli e che se ne parli con criterio. Leggendo però il libro di Ercoli, ciò che viene immediatamente da domandarsi è: qual è il target del saggio? Perché il contenuto è pensato sicuramente per un pubblico che di Chiara Ferragni non sa nulla, che l’ha sentita nominare solo vagamente tramite terroristici articoli di TPI, ma soprattutto che non ha o non usa quotidianamente Instagram (o lo usa male). Un pubblico che ha bisogno che la figura dell’Influencer per antonomasia venga legittimata e a cui si deve spiegare in che modo il carattere inizialmente disruptive di Chiara Ferragni le abbia permesso di inserirsi in un ambiente che non le apparteneva, o le apparteneva solo da spettatrice, e cioè quello dell’alta moda. Occorre allora cercare di non perdere l’attenzione di chi è nato in un mondo in cui non c’erano Dagospia, FanPage e Trashitaliano a diffondere scoop in anteprima e spiegare come mai se mi mettessero bendata nel salotto dei Ferragnez, saprei comunque orientarmi a memoria.

Chi invece, come me, rientra nella categoria dei (troppo serenamente) integrati, non si sentirà compreso nel pubblico di destinazione del libro, per due ragioni: Chiara Ferragni la seguo – direi quotidianamente – e ricordo bene tutti i fatti noti di cui è stata protagonista; l’elenco di questi fatti occupa la quasi totalità del saggio. Ho memoria dei suoi compleanni, delle vacanze, ho visto crescere (e invecchiare) Matilda, e rileggere gli eventi su carta mi fa provare tenerezza, come se fossero aneddoti su un’amica lontana. La seconda ragione è che la parte di argomentazione che riguarda le peculiarità della comunicazione social (storytellingbodypositivityStay hungry, stay foolish e tutto ciò che abbiamo già convertito in hashtag) la considero una conoscenza acquisita – proprio come considero Chiara Ferragni un personaggio della mia vita social acquisito.

Nonostante il limite personale, riconosco che il libro di Ercoli può risultare utile soprattutto a chi ancora non capisce le connessioni profonde tra social e sociale – tra cui rientrano anche molti professionisti delle lettere che invece dovrebbero avere familiarità con simili distinzioni. Abbiamo di fronte di fronte un libro molto agile, organizzato in capitoli che ripercorrono e spiegano la genesi dell’influencer, alternando richiami alla filosofia (con gli imprescindibili Barthes e Benjamin, per citarne due) a concetti di marketing e comunicazione. L’organizzazione del materiale segue un criterio tematico-cronologico, quasi a periodizzare il percorso (la vita?) di Chiara Ferragni secondo strategie di comunicazione ed eventi.

Curiosamente, per motivi che non riesco a far risalire ad altro se non alla volontà di far rientrare il percorso umano e lavorativo della Ferragni nella canonica narrazione di realizzazione femminile (lavoro-casa-matrimonio-figli: precisamente in quest’ordine), ho notato che il capitolo sulla nascita di Leone (marzo 2018) segue inspiegabilmente quello sul matrimonio di Chiara e Fedez (settembre 2018), scombinando la linea cronologica. Il fatto che la scelta sia deliberata, retorica e non casuale, mi viene confermata dal paragrafo finale del Capitolo 11, capitolo in cui viene preso in esame Unposted, il lungometraggio (definito dall’autrice «di puro marketing») su Chiara Ferragni presentato alla Mostra del Cinema di Venezia, trasmesso al cinema, entrato nel catalogo di Amazon Prime e approdato recentemente su Rai 2. È proprio nel momento in cui Ercoli parla del film che vengono riconosciuti i problemi della narrazione su Chiara Ferragni quando questa si limita a un’“agiografia” (p. 86). Ed è alla fine di un lungo discorso su ciò che questo film rappresenta o non rappresenta sia come opera cinematografica sia come opera documentaristica che Ercoli conclude con tono quasi ironico:

L’happy ending con il principe azzurro, il matrimonio, il figlio e la stabilità del successo. La trasformazione in cigno è definitivamente compiuta. Un’antica fiaba popolare adattata alle vicende di una ragazza qualunque che sognava di “lasciare un segno nel mondo”.

Viene tuttavia da domandarsi se non sia esattamente questa la fiaba a cui il suo stesso saggio fa riferimento nel momento in cui l’organizzazione dei capitoli del libro aderisce perfettamente allo stereotipo che, quando rappresentato in un film, si cerca di prendere in giro. Tenendo in considerazione questo strappo come esempio principale, mi pare che spesso non sia chiaro se il tono di paragrafi come questo sia canzonatorio o piuttosto provocatorio, in generale se l’argomentazione abbia come fine quello di disvelare certe ragioni e meccanismi dei social e dei suoi personaggi, magari facendo anche un po’ di interpretazione, o di mostrare piuttosto che chi scrive ed ha un certo tipo di conoscenze (da Aristotele a Adorno passando per qualche concetto di marketing) “ha capito” qualcosa di fondamentale su un mondo che non gli appartiene completamente.

Per contestualizzare meglio quest’oscillazione tra provocare e canzonare occorre dare qualche cenno sullo stile in cui è scritto il libro: periodi brevi, con una tendenza nevrotica alla frase nominale e una presenza massiccia di slogan, modi di dire, citazioni. Uno sforzo linguistico continuo che cerca di tenere impegnato il lettore in uno spot da 15 secondi che non finisce mai. L’impressione è che si voglia calcare l’enfasi, con una scrittura che tende allo speech da TedEx – curiosamente proprio l’autrice nota che forse Chiara Ferragni non avrebbe abbastanza capacità retorica da affrontare un Ted talk (p. 91) – che sia autentica, giovane, arguta ma soprattutto efficace. L’autrice usa spesso modi di dire e richiama frasi stereotipate che chiunque abbia guardato almeno mezz’ora di televisione negli ultimi trent’anni riconosce senza difficoltà, paragrafi costruiti su cumuli di frasi fatte, con un risultato strano: questo tentativo di dare efficacia al discorso si perde nella vaghezza del messaggio e quando dovrebbe essere ironico e tagliente resta solo vagamente disturbante. Dall’attacco delle prime pagine:

Contro il COVID-19, il virus che in molti erroneamente avevano definito “una semplice influenza”, scende in campo una delle leader d’opinione più accreditate del web. (p. 7)

Sarebbe questo il ruolo degli influencer in tempi difficili? Chiara Ferragni sembra essersi attenuta all’adagio “da un grande potere derivano grandi responsabilità”. E commenta su Ig: “Ho 19 milioni di follower e sento il dovere di aiutare il mio paese in questo momento di bisogno”. (p. 9)

Sono lontani i tempi della hit degli Aqua: “I’m a Barbie girl in a Barbie world. Life in plastic, it’s fantastic”. Ora è il momento della rivincita delle bionde! Chiara Ferragni “è una fonte di ispirazione, lei è unica nel suo genere” scrive Barbie Style sul suo profilo Ig. Altro che bambole senza cervello. (p. 15)

Benvenuti nella nuova epoca: l’epoca narrativa. Stay hungry, stay foolish. (p. 22)

Oltre al tono ammiccante della scrittura, sento il testo carente di un punto di vista forte dell’autore, un’idea attorno a Chiara Ferragni da sviluppare secondo i modi del saggio, un’opinione vera, magari in contrasto con la vulgata a cui abbiamo accesso online, che si raggruma attorno alla solita condanna morale o si riduce a narrazione edificante. E però spunti all’interno dell’opera stessa per affrontare un’argomentazione più specialistica ma soprattutto per approfondire invece che cercare di contenere tutta Chiara Ferragni in un saggio di poche centinaia di pagine ce ne sarebbero stati, dalla mostra del cinema di Venezia al profilo TikTok degli Uffizi:

il citatissimo saggio del filosofo Walter Benjamin L’opera d’arte al tempo della sua riproducibilità tecnica. Se lo avessimo letto davvero, non ci staremmo ancora stracciando le vesti per la catastrofica perdita dell’aura dell’opera d’arte ridotta a immagine digitale condivisa sui social. Proprio Benjamin, in quelle pagine scritte all’inizio degli anni trenta, ci ricorda che la percezione dell’arte non è mai pura, ma è sempre mediata e storica. (p. 99)

Ancora, nucleo attorno a cui l’autrice sarebbe sicuramente stata in grado di articolare una riflessione e a cui non credo sia stato deputato il giusto spazio è sicuramente il fatto che Chiara Ferragni sia diventata una specie di icona della normalità («La vita di Chiara Ferragni e di Fedez è iscritta nel paradigma narrativo della normalità», p. 81), o meglio, una normalità che vorrei, come la “Chiara che vorrei” di cui si parla nel documentario, dissimulando grazie al medium e alle strategie i tratti eccezionali che le hanno permesso di salvarsi dall’anonimato a cui siamo condannati noi che la riteniamo un mito contemporaneo:

Ecco, se intendiamo per “mito” un modello di identificazione, allora Chiara Ferragni è un vero mito contemporaneo, un mito d’oggi. Roland Barthes negli anni Sessanta distingue due miti moderni: Greta Garbo per il cinema muto e Audrey Hepburn per il film sonoro. Il viso della divina Garbo è l’idea, il corpo della charmant Hepburn è l’evento, sentenzia Barthes, riferendosi alla capacità delle due attrici di sfruttare al massimo la differenza del medium: se il cinema muto enfatizza la bellezza di un volto impassibile, con l’avvento del sonoro ci si sofferma sul portamento e sulla personalità. È la tecnica, cioè, a distinguere il mito. Non la cultura, non la bellezza, non il merito, ma la capacità di emergere dall’anonimato. (p. 33)

Sarebbe interessante e proficuo dare per assodati certi punti, cioè che Chiara Ferragni è un’influencer, che fare l’influencer è un lavoro (abbiamo mai dovuto legittimare Gerry Scotti per la pubblicità al riso? Per fortuna no, ma capisco la differenza: lo slogan era palesemente uno slogan e il riso non lo pubblicizzava dal suo salotto) e da qui partire per andare un po’ più in fondo, per fare lo stesso salto ideologico che ci fu tra le edizioni del Grande Fratello in cui si dovevano oscurare le marche dei prodotti e quelle in cui le marche erano messe in bella vista. Arrivare a chiederci se stiamo applicando e in che misura la sospensione dell’incredulità quando scrolliamo Instagram e se ne comprendiamo bene le grammatiche senza dover prima definire moralmente ogni atto social, magari iniziando a parlare di estetica.

Chiara Ferragni. Filosofia di una influencer è sicuramente un buon punto di partenza. Resta da vedere se riusciremo a fare, come si è fatta critica della televisione, anche una buona critica, possibilmente simultanea, dei social network e di chi ci sta dentro, cercando di non rimanere ciascuno nella propria bolla, e tollerando che, proprio come il mondo reale, i social siano un luogo di fenomeni in grado, secondo misteri più o meno noti, di muovere capitali e, per noi molto più importante, idee e opinioni.


Lucrezia Ercoli, Chiara Ferragni. Filosofia di un’influencer, Genova, Il Melangolo, 2020, pp. 112, € 9.