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Un’autobiografia viaggiante – Sulle poesie di Mathias Enard

«E ti vivo come una poesia sul retro del cuore | malgrado la vecchiaia e il gelo.» Giungono con il sapore dell’esatto e del preciso i versi di Mathias Énard, per dire nulla di più e nulla di meno di quanto riconosciamo a una poesia memorabile: vivere sul retro del cuore. Questo vale anche in uno scrittore, tra i più importanti dell’Europa dell’avvio di terzo millennio, che ha sicuramente frequentato a lungo la poesia, prediligendola tuttavia sporadicamente. Quando la sceglie, si pone cavalcioni tra tangibili della storia e intangibili dell’utopia e procede al galoppo, sulla sella di una persuasione che inquadra l’anima di qualcuno o qualcosa sempre nella lastra dello sfuggente. Del resto basterebbe ricordare l’epigrafe checoviana del suo L’alcol e la nostalgia: «Esagerate, caro signore. O meglio vi sbagliate. Per quanto possiate cercare, non troverete niente. La famosa anima russa non esiste. Le uniche cose tangibili sono l’alcol, la nostalgia e la passione per le corse dei cavalli. Nient’altro, ve lo assicuro.» Viene da riacciuffare continuamente quella citazione affrontando la lettura di questa nuova proposta editoriale che lo riguarda, e quindi allagarla di versi e moltiplicarla nello spazio, nella cartografia sempre più assurda che ci consegna una storia senza vere mappe ma densa e persino intasata di confini. Il confine non è una novità o peculiarità della nostra epoca, tutt’altro, però con Énard si fa spesso l’esercizio di ripercorrerne il carattere convenzionale e transeunte, come dentro la freccia di un treno (a tal proposito si pensi al suo acclamato Zone del 2008, pubblicato in Italia da Rizzoli nel 2011).

A quattro anni dall’uscita in francese, e/o propone l’edizione italiana di Dernière communication à la société proustienne de Barcelone nella versione di Lorenzo Alunni e Francesco Targhetta (Ultimo discorso alla Società proustiana di Barcellona, con testo a fronte). Il libro si offre con il gesto dell’autobiografia viaggiante in versi, perché l’autore di Bussola (premio Goncourt 2015 e Von Rezzori nel 2017) e di Zona, i titoli più noti e fortunati, qui attinge a quel bacino di intensa frequentazione della geografia europea e mediorientale che da sempre lo contraddistingue (valeva ciò anche per il già ricordato L’alcol e la nostalgia). Diremo allora che i punti di questo atlante di versi sono il Libano (sfondo vago de La perfezione del tiro, suo romanzo d’esordio del 2003) e la Siria, la Russia e il Tagikistan, la Polonia del genocidio ebraico, i Balcani della guerra dei nostri anni Novanta, in profondità e estensione, e la Spagna dove l’autore ha lungamente vissuto e lavorato (proprio nella Barcellona del titolo).

Questo libro arriva nelle librerie nel cosiddetto affollatissimo periodo della rentrée, per stare all’egemone gergo editoriale francese, nei giorni in cui in territorio cisalpino di Énard esce Le banquet annuel de la confrérie des fossoyeurs (romanzo del quale suppongo vedremo una traduzione, verosimilmente per questa stessa casa editrice e probabilmente per mano della sua più assidua traduttrice Yasmina Mélaouah). Questa breve cronaca editoriale serve solo per affermare che sarebbe un’occasione sprecata se Ultimo discorso alla Società proustiana di Barcellona si perdesse tra uscite più prominenti, come spesso capita in editoria, quando si copre un certo vuoto temporale con pubblicazioni in cui forse si crede meno, solo perché non sono dei veri e propri romanzi, anzi, guarda caso, sono degli “scomodi” libri di poesia, che per giunta, quando ci sono di mezzo romanzieri e narratori noti, diventano quasi sempre degli UFO. E un punto sta proprio qui, perché questo libro, che si sviluppa come una soluzione densa e colorata danzante dentro acqua, smargina persino nel senso letterale del termine (annotazioni ai margini, spesso in arabo, accompagnano il flusso testuale), fidandosi di carotaggi, azzardi, perforazioni magari solo iniziate e abbandonate. Una campionatura che sorvoli il testo e il palinsesto enardiano ci consegna versi che, dopo un inizio fatto di accumuli, liste e elenchi, improvvisamente definiscono il viaggiatore come colui che «…non conosce il viaggio | più dell’amante | le labbra dell’amata.» Tutto lo spostamento enardiano ci parla allora come una ferita senza dolore, «Un rifugio dove la lingua non può entrare davvero», in interrogativi che prevedono anche questo, cruciale, «Come potrebbe il cuore toccare ciò che il corpo ignora.» oppure quest’altro, simile a uno squarcio di dissidio, «Ho paura di essere una cosa vana. || Il mio passato di parole mi atterrisce.»

Qual è il nostro posto mentre siamo in vita? Questa poesia pone anche domande simili, alla quali non è dato sapere troppo mentre siamo in vita («è proprio un peccato | che ci si metta una vita intera a morire»), o comunque con un tempismo che è quello schiacciante e schiacciato del nostro presente. Non si veda pertanto questo libro come un accessorio della bibliografia dello scrittore francese, dal momento che la poesia appare come costante frequentazione enardiana, che puntella anche il lavoro della prosa. Senza evocare scenari da cameretta, che nel caso di quest’opera sarebbero più che mai fuori luogo, la poesia resta comunque una pratica di silenzio fuori dall’abitudine e dalla legge e, in quanto tale, come dice il nostro poeta e narratore, è una pratica che «costringe a molte concessioni.»


Mathias Énard, Ultimo discorso alla Società proustiana di Barcellona, Roma, Edizioni e/o, pp. 272, € 18 (testo a fronte, traduzione di Lorenzo Alunni e Francesco Targhetta).