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Bartleby o il pallone di Herman Melville

1. Melville: un classico noto e sconosciuto

Se ci chiedessero di stilare una lista dei capisaldi indiscussi della letteratura, di coloro che l’hanno mutata in modo così penetrante da travalicare ogni tempo e ogni luogo, difficilmente non includeremmo Herman Melville. Eppure, a ben vedere, si tratta di un autore preceduto da una fama a cui solo di rado segue un effettivo avvicinamento. Come mai?

Una delle ragioni potrebbe essere la mole delle sue opere, talvolta scoraggiante – non neghiamolo – specie se ci si aspetta di imbattersi perlopiù nell’avventura della vita in mare, argomento forse non così interessante per chi non lo ritiene intrigante già in partenza. In effetti, la tematica nautica è un leitmotiv esplicito. Pervasivo, quasi onnipresente, ma anche ingannevole. Affiora come un plancton, potremmo dire: cosparso in superficie e trasportato da correnti torbide, impetuose, abissali.

A carriera da romanziere avviata, dopo ben 5 pubblicazioni a soli 31 anni, Melville vorrebbe prendere le distanze dall’autobiografismo esotico che aveva contraddistinto la sua prima produzione. La sua intenzione, costretta in parte a soffocarsi, emerge in Hawthorne and His Mosses (1850). È questo un saggio che rappresenta non soltanto un omaggio all’amico e stimato letterato a cui sarà dedicato Moby Dick, ma si tratta di un vero e proprio manifesto. Melville denuncia aspramente il ritardo degli Stati Uniti nel definire una propria identità culturale, a dispetto dell’ormai conseguita autonomia a livello politico. C’è qui un’evidente amarezza verso la riluttanza americana a riconoscere e premiare l’originalità, perché Melville stesso aveva sperimentato la difficoltà di conciliare aspirazioni artistiche e mercato editoriale.

È il 1850 e, abbiamo accennato, finora sono usciti Taipi, Omoo, Mardi, Redburn, Giacchetta bianca. I primi vengono accolti con grande entusiasmo, in quanto avvincenti trasposizioni di reali peregrinazioni in terre remote. Melville però non si lascia sedurre, non è alla ricerca di facili successi, e sceglie di osare con Mardi (1849). Ma, non appena si allontana dal classico resoconto di viaggio per dare un respiro filosofico alle vicende marinaresche, viene respinto da critica e pubblico, ritornando quindi di malavoglia alle proprie esperienze autobiografiche nelle due opere successive.

Quel saggio su Hawthorne è quindi lo sfogo di una cocente delusione, ma ridurlo a questo significherebbe trascurare ciò che di più audace vi risiede. Viene sferrato uno schiaffo, che nel colpire lascia cadere un guanto in attesa di essere raccolto. Alle non lesinate provocazioni si affianca una dichiarazione di intenti: deporre i modelli europei e foggiare una letteratura propriamente americana.

2. Vita e scrittura: l’“americanità” della letteratura americana

È una sfida, dunque, quella che Melville lancia ai contemporanei e a sé stesso. Una scommessa dalla vittoria incerta, Melville lo sa e ciononostante la azzarda. Ma, a distanza di 170 anni, possiamo decretare senza esitazione la riuscita della sua impresa. Melville è un autore autenticamente americano, e lo è innanzitutto per il modo di concepire la sua attività.

Come sottolineato da Carlo Bo, per gli americani la letteratura è inseparabile dalla vicenda personale: non si può scrivere senza prima aver vissuto (aspetto molto percepibile in autori successivi, come Hemingway, Fitzgerald, i Beats, Bukowski e molti altri). Ma non si tratta di un semplice rispecchiamento tra vita e scrittura. È un tratto più ampio con sfumature complesse.

Per Deleuze, «l’atto fondativo del romanzo americano è stato di portare il romanzo lontano dalla via della ragione, e di dare vita a personaggi che si reggono nel nulla, sopravvivono solo nel vuoto, custodiscono fino alla fine il loro mistero, sfidando la logica e la psicologia»[1]. Il romanzo americano si arroga a poco a poco il diritto all’irrazionalismo: non prescrive ma descrive il reale nella sua opacità, abbandonando gradualmente l’attitudine a incasellarlo. Mentre nell’Inghilterra vittoriana i lettori – ad onta di tutte le peripezie che costellano la narrazione – confidano nel lieto fine, o quantomeno nel rassicurante moralismo in cui bene e male restano ben riconoscibili e distinti, nel frattempo negli Stati Uniti, in modo più marcato, dall’esasperato puritanesimo vengono distillate le ambiguità e i tormenti.

Il romanzo americano prende perciò a realizzarsi in sé stesso e non come altro da sé, ovvero il “messaggio” che lo innerva, lo conclude e – se vogliamo – lo trascende, riducendolo a pretesto per un insegnamento. Ecco dunque la più problematica declinazione dell’inscindibilità tra scrittura e vita. La vita è simulata nella misura in cui non ha bisogno di giustificazioni e sussiste in quanto tale. Allo stesso modo, la letteratura deve porgersi non decrittata a priori, negando una chiara chiave d’interpretazione che esaurisca il significato del testo.

Persino la Balena Bianca, a cui così spesso si attribuisce una valenza metafisica, è molte cose e non ne è nessuna di preciso. Non va considerata – dice Ishmael – come «una favola mostruosa o, peggio e più detestabile, come una ributtante e insopportabile allegoria». Quello di Moby Dick è un “realismo simbolico” (per dirla con Agostino Lombardo), perché la caccia al capodoglio è un evento concreto e al contempo polisemico, configurandosi al massimo come “allegoria vuota” (categoria di Romano Luperini che ci tornerà utile in seguito).

 Se si può discutere su quanto sia fondata la definizione di Deleuze del romanzo americano, e in che misura si adatti alla produzione di Melville, risulta invece fin troppo appropriata per il racconto Bartleby lo scrivano, una storia di Wall Street.

3. Bartleby lo scrivano, una storia di Wall Street. La trama

Pubblicato su rivista nel 1853 per poi confluire nella raccolta The Piazza Tales (1856), Bartleby lo scrivano è tra i testi melvilliani più famosi ed enigmatici, impressionante nella sua capacità di anticipare così vividamente atmosfere novecentesche, in primo luogo kafkiane, ma non solo.

La vicenda è semplice: il narratore è un rampante avvocato che dirige uno studio legale a Wall Street. Alle sue dipendenze ci sono i due copisti Turkey e Nippers, ma, con l’aumentare del lavoro, l’uomo decide di assumerne un terzo. La scelta ricade su Bartleby, figura sfuggente e inquietante, senza passato e senza alcuna referenza. Dopo essersi applicato con uno zelo stupefacente, l’instancabile scrivano a poco a poco, senza alcuna ragione evidente, interrompe tutte le proprie attività, declinando ogni incarico con la sola, famosissima risposta «I would prefer not to».

Trascorre così le sue giornate in piedi, immobile, osservando con sguardo vitreo il muro su cui affaccia la sua finestra, a malapena mangiando. Spiazzato dal suo comportamento, l’avvocato oscilla tra un’esasperazione quasi aggressiva e una partecipata compassione (specie da quando trova il bizzarro scrivano a dormire in ufficio in misere condizioni). Vorrebbe licenziarlo, ma d’altra parte non ne ha il cuore, intuendo che l’impiegato non ha né amici o cari, né un posto dove andare. Pur di non cacciarlo, allora, si trasferisce altrove, lasciandolo lì. Per pietà, sì, ma soprattutto per liberarsi di quella presenza tanto angosciante quanto magnetica.

Intanto Bartleby si fa sempre più inconsistente, catatonico e inerte, il che suscita un crescente senso di repulsione in chiunque vi si imbatta. Logorato, inappetente, morirà all’interno della prigione delle Tombs, dov’era stato confinato con l’accusa di vagabondaggio a seguito delle rimostranze dei condomini.

La vicenda è semplice e lineare, dicevamo, non si può dire che non si sappia che cosa succeda. Eppure, qualcosa non torna.

La tentazione del lettore, di qualunque lettore, è quella di ricercare un significato ulteriore in ciò che legge, confidando nel fatto che la mano dell’autore, per quanto invisibile possa farsi, muove tutti i fili della trama. Siamo però di fronte a un’anomalia, a un “Assurdo” di eco camusiana che ci costringe ad assumere un approccio diverso.

4. «I would prefer not to»: la psicosi del linguaggio

Fin dall’esordio del suo saggio Bartleby o la formula (1989), Deleuze chiarisce senza mezzi termini ciò che rende questo racconto eminentemente moderno: «Bartleby non è una metafora dello scrittore, né il simbolo di qualsiasi altra cosa. È un testo violentemente comico, e il comico è sempre letterale. […]. Non vuole dire che quel che letteralmente dice». È proprio questa impenetrabile letteralità, intollerabile per il lettore del tempo (o forse per il lettore in generale), che legittima l’accostamento di Melville ad autori come Kafka, Beckett e Camus.

Bartleby non dice nient’altro che sé stesso, e dice innanzitutto «I would prefer not to». È questa la formula, e in essa, sotto l’apparente coerenza si annida quella che è stata definita una agrammaticalità.

Molte sono state le traduzioni proposte per l’emblematica frase, ma, secondo Deleuze, la più calzante sarebbe «Preferirei non…». Si tratta infatti di una frase insistita, che ricorre con qualche variazione, ed è in qualche modo insolita, pur nella sua correttezza grammaticale e sintattica. Deleuze ne evidenzia il velato manierismo, perché «to prefer è raramente usato in questo senso, e né l’avvocato, né gli scrivani se ne servono abitualmente. La formula più comune sarebbe piuttosto I had rather not»[2].

Col suo carattere inconsueto, la sua insistenza e la sua brusca chiusura, la formula di Bartleby mette alla prova il linguaggio e sembrerebbe supporre più di quanto non dica. È in questa anomalia che si intravede quello che Deleuze definisce un «soffio psicotico».

La grande letteratura è come scritta in una sorta di lingua straniera più autentica. Grazie a un procedimento di psicosi, si addentra nelle contraddizioni del linguaggio ordinario fino ad approdare a un nucleo sostanziale. Ma questa dimensione, inarrivabile altrimenti, non può che restituirsi attraverso un’agrammaticalità, dato che coglie ciò che il linguaggio ordinario non può esprimere.

In questa psicosi risiede la dirompenza dell’ossessivo «I would prefer not to», che è poi il «pigolio doloroso» di Gregor Samsa che non sa più parlare, o le fiacche risposte di Meursault (protagonista de Lo straniero di Camus) alle accuse a suo carico.

La formula di Bartleby non è né una negazione né un’affermazione. Bartleby “non preferisce”, ma non rifiuta irremovibilmente, ed è proprio questo a sconcertare l’avvocato: Bartleby non è un ribelle, o almeno non vuole porsi come tale. D’altra parte, non propone alcuna alternativa, non rivendica, esprime con pacatezza soltanto l’impossibilità di adempiere ai suoi compiti.

Così, la formula fa terra bruciata attorno a sé, e scava una zona di indeterminazione in cui attività non preferite e un’attività preferibile si confondono e si annichiliscono, si fanno esili e inconsistenti. «Ogni particolarità, ogni referenza è abolita», dice Deleuze, e in effetti non c’è più nulla da dire dopo che la formula è stata pronunciata: a ogni sua occorrenza segue il silenzio di Bartleby che a poco a poco smette di lavorare.

Oltretutto – è importante precisare – le sue mansioni (ricopiare, rileggere bozze) sono tutte legate al linguaggio. Ma nessun linguaggio è più possibile, ogni attività è impedita, perché svolgerla significherebbe preferire qualcosa.

Bartleby è quindi – se volessimo attribuirgli un significato – l’emblema dell’abulia, ma la sua assenza di volontà (o meglio, del suo «nulla di volontà»[3]) è la chiave della sua sopravvivenza.

5. Il «nulla di volontà»: la chiave della sopravvivenza di Bartleby

La rivendicazione o il rifiuto implicano, anche se in opposizione, un ritorno alle coordinate della società. Attraverso la formula, Bartleby non è un sovversivo, è piuttosto un escluso. Esiste in quanto tale, eludendo qualunque ruolo sociale, e in questo modo, probabilmente senza esserne davvero consapevole, scardina il sistema.

Deleuze lo accosta, e non a torto, all’Ulisse di Joyce (che nel mito è Nessuno) e a Ulrich, l’Uomo senza qualità, di Musil. In effetti, Bartleby ripete anche (con minor frequenza, ma con altrettanta rilevanza) «I am not particular», che è corollario della formula. Non si sa nulla di lui, non se ne conosce la provenienza, il vissuto, gli affetti. Solo alla fine l’avvocato accenna a una diceria riguardo al presunto licenziamento di Bartleby da un ufficio postale a seguito di un cambio di amministrazione, ma d’altra parte ci avverte che non è «in grado di dire quanto ci sia di vero».

Bartleby non è qualificato, è inqualificabile, uomo senza particolarità, perciò mina alle fondamenta la società della «rivalità mimetica» fondata sulla figura del Padre. In questo sintagma di Deleuze riecheggia quanto detto dall’antropologo René Girard: il desiderio non è mai diretto, non riguarda solo il Soggetto e l’Oggetto, ma è mediato, cioè derivato da un Modello da imitare. La società moderna è fondata sulla «funzione paterna», l’autorità cui conformarsi e conformare le proprie aspirazioni nella speranza di un’ascesa sociale, e ovviamente questo sforzo imitativo, nel suo continuo fallimento, conduce a poco a poco a un’autodistruzione, o al cannibalismo.

La dinamica tra i personaggi del racconto riflette efficacemente tutto ciò. L’avvocato sistema Bartleby nella sua stanza, lo vuole vicino, intende farne il suo uomo, il suo copista, erigendosi così a figura paterna che dovrebbe innescare il processo di identificazione che abbiamo appena descritto. Ma la formula inceppa il meccanismo, «spodesta il padre della sua parola esemplare e il figlio della sua possibilità di riprodurre o copiare» – sottolinea Deleuze – e lo fa innanzitutto a livello linguistico. Il linguaggio, del resto, è la prima forma di spossessamento del Sé, perché è la cristallizzazione della collettività: in esso risuona il Discorso dell’Altro.

Bartleby si sottrae dunque a una logica disfunzionale: rinuncia alla propria individualità, alla propria particolarità (che è un ritorno negli schemi dati) per fondersi con l’universalità, e in tal modo ne acquisisce lo stesso “Assurdo” camusiano.

6. l’allegoria vuota: la potenza del potenziale

Il critico Romano Luperini ha coniato il concetto di «allegorismo vuoto». L’allegoria è una figura retorica su due piani: prevede un significato letterale (e – attenzione – del tutto autosufficiente: la selva oscura di Dante può essere letta soltanto come tale e il testo non perde affatto di coerenza), che rimanda a un senso figurato.

Fino al Medioevo basata su una certa convenzionalità, l’allegoria si fa poi sempre più elusiva, sempre più nebulosa, fino a perdere del tutto la sua chiave, e l’esito estremo di questo processo, per Luperini, si ritroverebbe in Kafka: «Kafka rappresenta una vicenda per “dire altro”; ma questo “altro” resta indecifrabile e dunque indicibile. Il significato è fuggito dalla vita, noi ne sentiamo solo l’esigenza»[4]. È scioccante quanto ciò si confaccia a Bartleby, ma forse anche a Moby Dick, perché proprio in quell’esigenza che perdura consiste la monomania, l’ossessione patologica del capitano Achab verso la Balena Bianca.

Bartleby è allegoria vuota, o lettera smarrita e dunque morta, come quelle che forse ha dato alle fiamme nell’ufficio postale. È senza passato, istantaneo, o, ancora, immanente. Esiste in quanto tale, e così sostituisce la mimesi del modello col divenire. Bartleby è l’uomo senza particolarità che vive il flusso dell’esistenza senza darsi una direzione. Non preferisce, e così si arresta sulla soglia del possibile. Potremmo dire, nei termini di Carmelo Bene, che abbandona l’ottica dell’azione (cioè dell’intenzionalità, della premeditazione) a favore dell’atto, del gesto senza scopo, “sprogettato”, dato solo dalla contingenza unica e irripetibile. Solo una figura del genere, dice Deleuze, può davvero abbattere la funzione paterna e dalle sue rovine ricostruire un mondo nuovo.

Quello che però Deleuze sembra talvolta dimenticare è che Bartleby, in definitiva, è uno sconfitto.

Gregor Samsa stramazzerà al suolo, scarafaggio schiacciato dall’indifferenza di chi gli era più caro; Bartleby si ripiega su sé stesso nel freddo cortile di una prigione, si spegne senza un guizzo neanche nel morire, compatito da un uomo che conosce appena, che però rappresenta l’unico suo contatto col mondo.

Di fronte a tale spettacolo è difficile immaginare quella rinascita vagheggiata da Deleuze, sul proscenio domina piuttosto l’eco del nulla.

7. Dentro e fuori lo sguardo: Bartleby attraverso il narratore

Siamo di fronte dunque a un protagonista anomalo, che è posto al centro della ribalta e allo stesso tempo si sottrae alla narrazione stessa. Dentro e fuori lo sguardo, Bartleby è assente quando è presente, e inquietante presenza anche quando non c’è. La sua è una sagoma consunta in piena luce, e l’opacità che sembra emanare in modo paradossalmente così limpido si riverbera su tutto il testo.

Per esempio, il filtro attraverso cui ci si presenta lo stravagante scrivano è quello dell’avvocato sbigottito e confuso. Anche questo personaggio, benché in modo meno marcato, è in qualche modo sfuggente.

Molti l’hanno ridotto – ci verrebbe da dire ingiustificatamente – a mero stereotipo. È stato inteso come il portavoce dell’ideologia del profitto, come l’incarnazione del capitalismo o addirittura come «il complice di un sistema in cui il benessere del lavoratore è l’ultima delle priorità»[5], e perciò inadeguato a comprendere la solitudine cosmica di Bartleby.

Ma lo è davvero? Procediamo per gradi.

Il narratore è un avvocato di successo di Wall Street perfettamente integrato nel suo ambiente. È un dato incontrovertibile, e in più occasioni emerge il compiacimento tipico dell’uomo d’affari. Ma se da un lato la sua figura rientra negli schemi del sistema capitalistico e della società dei consumi (come è normale che sia, data la sua caratterizzazione), la sua estrazione non impedisce delle sfaccettature che lo rendono un personaggio forse non complesso, ma quantomeno umano, con tutte le ambiguità del caso.

Partiamo dalla situazione precedente all’arrivo di Bartleby. L’avvocato, pur manifestando un’innegabile mentalità borghese, si mostra accomodante e forse autenticamente legato ai due copisti già assunti, che sono tutt’altro che semplici da gestire. Dopo pranzo, infatti, Turkey diventa sistematicamente chiassoso e maldestro: si agita tutto, è paonazzo in volto, macchia i documenti di inchiostro. Nippers, d’altro canto, è ambizioso, talvolta mostra un’insolente insofferenza per le sue mansioni, e, dati i suoi problemi di digestione, gli capita spesso di essere irascibile e sgarbato. Se dovessimo attenerci all’interpretazione più diffusa che abbiamo riportato, ci aspetteremmo un licenziamento seduta stante di entrambi i dipendenti. Invece, nessuno dei due viene cacciato, anche se indubbiamente rallentano i ritmi di lavoro.

Nel corso della storia, l’avvocato è sì esasperato dalle stranezze di Bartleby («Quale diritto al mondo ha mai di restare qui? Paga l’affitto? Mi paga le tasse? Questa casa le appartiene?» dirà, vedendo che lo scrivano non svolge più i suoi doveri ma non abbandona mai l’ufficio), ma solo dopo averle tollerate a lungo, sforzandosi di dare una spiegazione a quella bizzarra condotta.

Inoltre, la sua decisione di trasferirsi altrove cela, sotto l’indulgenza verso lo smunto copista, un intento liberatorio, ma d’altronde è giustificata dal fatto che Bartleby “non preferisce” nulla, non offre margini di negoziazione. Se il dipendente non avanza una richiesta concreta, come si può imputare al principale di trascurarne il benessere?

Il sottotitolo del racconto è Una storia di Wall Street, il che potrebbe indurre a credere che la vicenda rappresenti una strategia di disobbedienza civile contro le pressioni stringenti del meccanismo produttivo americano. A ben vedere, però, questa chiave non risulta né esaustiva né del tutto convincente. Bartleby non è un ribelle in senso stretto, la resistenza passiva che attua è più che altro nei confronti del sistema in toto, o forse nei confronti dell’esistenza stessa, che genera di per sé un’angoscia soltanto accresciuta dall’alienazione moderna.

L’altruismo dell’avvocato lascia trapelare talvolta una strisciante ipocrisia, ma accanto a questi passaggi ci sono passi che faticheremmo a non considerare come la traccia di un’autentica compassione. Vediamone uno:

Per la prima volta in vita mia fui sopraffatto da un senso di ineluttabile, struggente malinconia. Prima di allora non avevo mai sperimentato altro che un triste languore non sgradevole. Il vincolo della comune umanità mi trascinava irresistibilmente verso un cupo sconforto. Una malinconia fraterna! Sì, io e Bartleby eravamo entrambi figli di Adamo. Ricordai le vivide sete e i volti raggianti che avevo visto quel giorno, persone agghindate a festa che, simili a cigni, veleggiavano lungo quel Mississippi che è Broadway; e confrontandoli con il pallido copista, mi dissi: «Ah, la felicità corteggia la luce, ecco perché crediamo che il mondo sia lieto; ma l’infelicità si nasconde e si isola, ecco perché crediamo che non ci sia infelicità».

Se davvero il narratore fosse un arido utilitarista, non si vedrebbe il perché delle sue visite a Bartleby in prigione, o delle sue paghe al vivandiere per assicurare un trattamento di riguardo al suo stravagante amico. Un insensibile capitalista non sentirebbe lo slancio di prendersi cura di uno scrivano del genere anche dopo essersene sbarazzato. Ma soprattutto, non si spiegherebbe il suo finale «O Bartleby! O umanità!».

Certo, l’avvocato non stravolge del tutto le proprie vedute dopo l’incontro con Bartleby, e la sua benevolenza mostra a volte delle crepe. È chiaro poi che, nonostante la pietà che provi verso di lui, continui a pensare e agire nei termini della società contemporanea. Ma tutto ciò non stupisce né inficia la resa del personaggio. Le conversioni improvvise e radicali à la Manzoni sono inverosimili e semplicistiche, e Melville, come abbiamo visto, è più complesso di così.

8. L’importanza dell’inutilità di Bartleby

In fin dei conti, ci si riconosce abbastanza nello sconcerto del narratore, perché, in quanto lettori, siamo portati a chiederci a che scopo Bartleby si comporti così, e soprattutto a che scopo Melville lo faccia agire in questo modo. Ma il personaggio di Bartleby è così prezioso proprio per questa sua indecifrabilità.

È senza scopo, esiste in quanto tale, proprio come l’incomprensibile pallone aerostatico che, in un racconto di Donald Barthelme, copre Manhattan senza che nessuno sappia spiegarsi perché sia lì e come ci sia arrivato. Non c’è una ragione, il pallone de Il pallone è lì e nulla più. E in questo risiede anche il valore di Bartleby

In una società dove sentiamo l’urgenza di perseguire degli obiettivi che non rappresentano pure aspirazioni, ma che sono il riflesso del modello vigente; in una società che non ci concede di essere noi stessi e nient’altro, ma esige prove tangibili del nostro valore e ci impone di finalizzare tutte le nostre energie a qualcosa che non abbiamo davvero scelto; in una società in cui la nostra identità non è data, ma esiste solo in quanto prodotto visibile dei nostri sforzi, il cui fallimento spalanca un baratro di competizione, perfezionismo, ansia da prestazione, frustrazione, insoddisfazione continua, depressione, psicosi; in una società che ci obbliga all’eccellenza per prosperare, essere senza scopo è un atto rivoluzionario.

E, in fin dei conti, è ciò a cui l’arte aspira: essere senza scopo, inutile, libera.

BIBLIOGRAFIA

Barthelme D., Il pallone in Atti innaturali, pratiche innominabili, Roma, Minimum fax, 2005

Bo C., La letteratura come vita in Il Frontespizio, Firenze, 1938

Cataldi P. e Luperini R., La scrittura e l’interpretazione: storia della letteratura italiana nel quadro della civiltà e della letteratura dell’Occidente, Volume 3, Palumbo, 1999

Deleuze G., Bartleby o la formula (1989) in Deleuze e Agamben, Bartleby. La formula della creazione, Macerata, Quodlibet, 1993.

Iuli C. e Loreto P., La letteratura degli Stati Uniti. Dal Rinascimento americano ai nostri giorni, Roma Carocci, 2017

Lombardo A., Introduzione a Melville, in “Studi Americani”, 3, pp.29-61

Melville H., Bartleby, lo scrivano. Una storia di Wall Street (1853) su http://www.iuav.it/Ateneo1/docenti/architettu/docenti-st/Scarpa-Lud/materiali-/Herman-Melville.pdf


[1] Deleuze, 1993, p. 31.

[2] Agamben e Deleuze, 1993, p. 9

[3]  Agamben e Deleuze, 1993 p. 15

[4] Cataldi e Luperini, 1999 p. 36

[5] Iuli e Loreto, 2017, p. 44.