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Bucare il fenomenico: su “Sistemi” di Dimitri Milleri

Nella seconda poesia di Sistemi, di Dimitri Milleri (Interno Poesia 2020), si legge che «quando si abita il panico, lo sgomento | non si comprende il pianto dei parenti | sul trapassato» (p. 18). Panico e sgomento, come condizioni di totale perdita di agentività («nulla può essere pensato né agito») sono propriamente sistemi detentivi, carceri immateriali; e Detentivi è infatti il titolo della sezione (la prima del libro) dove questo testo secco, apodittico nel carico di verità esperienziale che non si premura di smussare, trova posto. L’alterità comportamentale che investe il soggetto lo condanna a vivere il dolore senza poterlo condividere con chi quel dolore può tramutare in segno esterno, in pianto: il non comprendere del primo passo citato può essere infatti letto, nell’accezione spaziale dell’etimo, come un non contenere, un non abbracciare. Se l’evento fisico alluso dal testo – una funzione funebre – è unitario, le realtà psichiche di cui esso è composto si rivelano drammaticamente incompossibili: la reazione ‘normata’ alla perdita, con le sue lacrime, da un lato; la statua di sale dell’io dall’altro. La realtà psichica prende il sopravvento su quella fisica della rappresentazione, precipitando in correlativi oggettivi del dolore: gli «arti mozzi | delle siepi» (si noti l’antropizzazione delle piante, che riprende e rovescia il mito di Dafne e Apollo, con possibile memoria dell’episodio di Pier della Vigna nel Canto XIII dell’Inferno), il «compost svuotato», i «tris tracciati col gesso», «le cicatrici della pietra» che davvero assomigliano all’«inciso» in cui se ne sta il dolore – indelebile eppure temporaneo.

Questa lodevole ambizione di rendere simultaneamente diversi livelli della realtà, che porta – specialmente nella prima sezione – a occasionali opacità e oscurità testuali, è preannunciata da una delle quattro epigrafi poste in limine al libro: mi riferisco alla citazione dai cognitivisti Varela, Thompson e Rosh, dove in un’ottica di cognizione incarnata (embodied cognition) si critica la prospettiva classica che scinde la cognizione in rappresentazione da un lato e coscienza dall’altro. Un tenersi insieme dialettico, spesso non pacificato, di rappresentazione e coscienza – il che implica andare oltre la mimesi ma senza abiurarla, piuttosto partendo da questa o a questa arrivando – mi sembra dunque una chiave promettente per cercare di comprendere, certo senza esaurirlo, questo libro denso e compatto che, nelle parole della prefatrice, Maria Borio, «si vorrebbe proporre come un’esplorazione fisica e metafisica della vita» (p. 6). Il breve testo a p. 23, che riporto per intero, mi pare illustrare bene questa dialettica fra mondo fisico e mondo psichico:

Le ragnatele d’acqua levate a mezz’aria

dalle auto in superstrada inghiottono luce.

I catadiottri e i fari si deformano

senza disuguaglianze,

———————————— il GPS

disegna un lungo parassita azzurro:

là,        nella testa cerchiata, lui già

raduna il suono in mezzo ai tendini.

La poesia inizia dal lato totalmente fenomenico, avviandosi da un’immagine visivo-cinetica descritta con sintesi e precisione. Già dal terzo verso, tuttavia, si assiste a una metamorfosi prima percettiva («si deformano») e poi via via analogico-immaginifica: il «lungo parassita azzurro» tracciato dal GPS (il percorso indicato?), «il suono» (dell’acqua?) radunato «in mezzo ai tendini» (la membrana del timpano?), la «testa cerchiata» (il cerchio alla testa indotto dall’alcol o dal sonno?). Si verifica, insomma, una rarefazione del fenomenico e uno slittamento verso lo psichico, che cerca di registrarne le ripercussioni in una «volontà di cogliere il difficilmente dicibile», come scrivevo introducendo alcuni testi di Milleri nell’antologia Poeti italiani nati negli anni ’80 e ’90 vol. 1 (Interno Poesia 2019). Altre volte, la rarefazione è il risultato di una scomposizione analitica che a sua volta tradisce  un’alienazione del soggetto, quale si dà spesso in questa prima sezione: così subentra, nel testo a p. 23 (e non solo in quello), una terza persona riconducibile all’io empirico – giusta gli studi musicali dell’autore («Si attarda a ripulire il clarinetto») – ma mai ritratta olisticamente; troviamo anzi meronimi del corpo che sembrano esistere separatamente («la mano», «i denti», «la gola», «la pupilla», «il volto» e perfino «le sezioni della mente»). L’estraneità esperita nella poesia imperniata sulla sala d’aspetto, a p. 20, può richiamare l’impermeabilità fra individui tematizzata e potentemente drammatizzata ne La pura superficie di Mazzoni, con la (cruciale) differenza che quanto in Mazzoni sembra darsi come paradigma intrinseco e immutabile della modernità, in Milleri è epifania negativa, stato transitorio e perciò reversibile, come segnalato dai verbi «si fece» prima e «spaccò» poi:

[…]
Nulla giungeva allo stato solido, violenta
era la forza di gravità in ogni volto,
irrefrenabile
la volontà di divinarla.

Quando non ci fu più distanza
fra esterno e interno
tutto si fece angusto, angusto e scomodo:
leggings a pois, riviste e prescrizioni
volevano restare corpi estranei.

Qualcuno poi spaccò la confluenza
con mosse improvvisate, gentilezze
dovute.
            Bisognava essere buoni.

Milleri è certo consapevole dei rischi d’introversione che questa esigenza di bucare il fenomenico comporta: in Avvertenze, il testo che apre Sistemi, siamo infatti avvisati che «la narrazione si avviluppa» (p. 17), cioè si aggroviglia; nel testo dedicato all’ipermnesia, l’eccesso di memoria, «si perde il filo, tanto è quel nitore» (p. 22): ogni rappresentazione della realtà implica una selezione e dunque una schematizzazione, come ci insegnano le scienze cognitive; al tempo stesso, la fame di realtà aumentata insita in ogni operazione letteraria – e a maggior ragione in una poesia di matrice epistemologica come questa – fa percepire tale schematizzazione come limitante, e cerca di superarla tramite una resa simultanea di diversi piani di realtà.

Con Complessi, seconda sezione e vera e propria suite con testi numerati da I a X (più una coda non numerata), lo sguardo si esternalizza maggiormente e si concentra su «alcune scene di famiglia e il loro sistema» (Borio). Lo stile resta scorciato e allusivo, rastremato e centripeto – più per densità concettuale e spinta astraente che per suggestione simbolista o eredità ermetica. Un esempio fra i molti possibili è la polivalenza del titolo stesso, leggibile certo come aggettivo plurale a completare il sintagma sistemi complessi ma anche, isolato come si presenta sulla pagina, come sostantivo: i complessi nel senso psicoanalitico del termine, lettura di certo rafforzata dall’archetipizzazione delle figure del padre, della figlia, della madre. Milleri infatti «coglie con efficacia certe pulsioni distruttive (il padre si «si duplica e fugge» quasi obbedendo a una legge di natura», come scrivevo a proposito del secondo testo di questa sezione introducendo la selezione nella già menzionata antologia. Le dinamiche interpersonali sono drammatizzate tramite una metafora estesa d’impianto bellico, con le sue reazioni chimiche e combustioni (quest’ultima parola si trova fra l’altro nel bellissimo ottavo testo a p. 44, La pista dei go-kart era liscissima, ci siamo…): così «la madre esploderà» (p. 39), ci si domanda se il figlio fosse «quel reagente» (p. 40), ci sono un «grilletto da incolpare» e un «proiettile» (p. 43), il padre è immaginato come «ufficiale» e il figlio «cadetto» (p. 46). La progressione concettuale e unità tonale rendono questa sezione meno discontinua e a mio parere più avvincente rispetto alla prima (i cui testi paiono assemblati a posteriori, con l’eterogeneità che questo necessariamente comporta). Il testo VI (p. 42), tra i più riusciti, mostra come sia possibile fondere un dettato ruvido, a forte immediatezza emotiva, e un’arte ben calibrata del sottinteso, dell’incongruo:

Sono tornato e abbiamo urlato, come sempre
scherzato sulla droga e la famiglia, preso colpi
su petto e schiena, nonna che rideva.

Parlato di che accade agli escrementi
dei cani, quando la barra falciante…

Ti ho chiesto dei vaccini, mi hai risposto
lo spazzolino elettrico, nel cellophane.

Questo è un testo giocato tutto sugli slittamenti deittici – dall’io al noi al lei, al tu, con rapidità fulminea – e sui verba dicendi e altri comunque legati alla bocca e alla comunicazione: «urlato», «scherzato», «rideva», «parlato», «chiesto», «risposto». Un’arena dinamica, quindi, resa inquietante dall’alternarsi quasi indifferente di connotazioni positive e negative: il primo verso, con «abbiamo urlato» allude a una lite, poi rovesciato da «scherzato» (a sua volta contraddetto da «droga»); non meno straniante è la risposta incongrua nell’ultimo distico, che in termini pragmatici verrebbe categorizzata come una violazione della massima di relazione: si risponde in maniera assolutamente non pertinente, e così facendo si tradisce il principio di cooperazione insito in ogni scambio linguistico ottimale, esasperando il conflitto e la tensione. Da notare anche l’uso della reticenza, nei puntini di sospensione del secondo distico: la minaccia della «barra falciante» (ulteriore derivazione della metafora bellica di cui sopra) è tale proprio perché lasciata immaginare, proprio perché non trova un prosieguo verbale. Le figure retoriche di sottrazione – come, appunto, ellissi e reticenza – non mi sembrano molto in voga oggi, forse perché il loro effetto sottile ma di lunga durata richiede un ascolto e un’attenzione che i ritmi forsennati delle pubblicazioni dei blog, e quindi la fretta con cui si legge, tendono a oscurare. Iperboli, martellanti anafore e battute di spirito hanno senz’altro più presa immediata, ma a Milleri (e al sottoscritto, per quanto questo possa contare) interessa più la lunga durata, il rilascio lento, l’implicazione che si affaccia solo a una rilettura attenta.

L’ultima breve sezione, Chiusi, torna ai modi più intellettualizzati e in parte irrisolti della prima sezione – sia pur con notevoli eccezioni come il testo Sempre ho lodata la tua cattiveria, che non a caso ha un impianto dialogico e quindi una intrinseca relazionalità: «il tuo talento | per sminuire gli uomini e te stessa | che ti fa arcigna e stupida come | me, ma più bella» (p. 59). Per esemplificare questo giudizio, prenderò la poesia a p. 57, Tavole nere, un’araldica:

Tavole nere, un’araldica
fissa sul segno meno, un giustapporsi
di cuspidi contrarie, come sai.
Geni monotoni, che poi significa
magre combinazioni.
E se anche non chiedessi niente, il corpo
abbarbicato in dure geometrie,
sarebbe già messaggio —
e quanto costi trovare i pigmenti
in questo nero davvero non so
se tu lo sappia o meno,
né so cosa sperare
“ho imparato
come i pronomi si confondano in un rito
che non si dà deviare”.

(la frase mulinata per sentire
se l’ansia di servirti non coincida
col peso da fugare)

Il testo pare elaborare il significato e la funzione delle radiografie, alluse mediante la perifrasi «tavole nere», complicate da successive analogie. Il tema sembra essere la decifrazione del corpo a partire da un negativo, sorretto dal nesso o topos del corpo come linguaggio. I «geni» e «il corpo» richiamano temi rispettivamente esplorati nella due sezioni precedenti – i geni della famiglia esplosa di Complessi, il corpo nebulizzato e teso di Detentivi – ma qui sembrano argomentati astrattamente più che attraversati esperienzialmente. Non si dà una situazione ancorante, l’io e il tu restano indefiniti, la reticenza o opacità appaiono meno motivate che altrove. È d’altronde quasi impossibile evitare momenti di calo in un libro che ha comunque delle punte molto alte – alcune delle quali riportate in sede di recensione – e che, occorre non dimenticarlo, è un quasi-esordio (Frammenti fragili è del 2017). Se c’è, per mio gusto personale, un limite in Sistemi – un limite che riconosco anche mio, o mio fino a tempi recenti – esso sta in un’introversione, in un affondare e subito ritirarsi, diffrarsi, delle immagini e delle implicazioni, che non sempre consentono al testo di coagulare come una Gestalt nella mente di chi legge. I nuovi inediti di Milleri che mi è capitato di leggere sembrano tuttavia già muoversi verso una maggiore dicibilità e un verso meno franto, più capace di ospitare il mondo, e sé stesso nel mondo.


Dimitri Milleri, Sistemi, Latiano, Interno Poesia, pp. 76, € 10.