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Le conseguenze dell’abbandono. Su “Il nome della madre” di Roberto Camurri

È la fitta trama dei rapporti umani e dei sentimenti inespressi, scandagliati e riportati alla luce delle modalità espressive della scrittura letteraria, il tema cardine della narrativa di Roberto Camurri, che con la pubblicazione del suo terzo libro consacra definitivamente uno stile e una voce ben riconoscibili.

L’autore, classe 1982, nato a Fabbrico in Emilia-Romagna, si è presentato al grande pubblico grazie al sodalizio con la casa editrice milanese NN, che ha pubblicato per lui A misura d’uomo – vincitore dell’edizione 2018 del Premio Pop –, Acqua, e, ultimo, Il nome della madre, uscito a maggio 2020.

Romanzo vero e proprio, dopo quello d’esordio costruito “a racconti”, Il nome della madre narra l’intima storia di un padre e soprattutto di un figlio che crescendo cercano di superare il trauma lacerante dell’abbandono. La madre se n’è andata all’improvviso, lasciando Ettore e Pietro quando questi era ancora in fasce, condannandoli a un difficile rapporto tutto al maschile fatto di rudi dimostrazioni d’affetto e di silenzi densi di sentimenti incompresi e perciostesso incomunicabili. In questo contesto emotivo, calato nella desolata provincia emiliana di Fabbrico, vive Pietro, di cui Camurri ci racconta la crescita dalla nascita all’età adulta, lungo le pagine di un romanzo di formazione in cui il processo di maturazione coincide con l’accettazione e finalmente con il superamento del dolore dovuto all’immeritato castigo che la madre col suo gesto gli ha inflitto.

La vicenda si inscrive in una struttura circolare che si apre e si chiude specularmente e che al suo interno si dipana cadenzandosi in una serie di episodi, che come tacche su una linea del tempo segnano le tappe di una psicologia in evoluzione. Lo stesso trascorrere del tempo da coordinata narrativa si fa vero e proprio tema del romanzo, più volte richiamato dai riferimenti alle stagioni che ne sottolineano la ciclicità. Nelle prime pagine l’andamento ondivago di una narrazione che accosta e confonde il presente con il passato dei flashback ci presenta gli antecedenti della storia. Quando poi il narratore si focalizza sul personaggio di Pietro assumendone definitivamente il punto di vista, la trama si segmenta nettamente in una serie di capitoli che offrono allo sguardo del lettore una manciata di scorci di vita significativi e quasi sempre iniziatici: il primo rapporto con una ragazza, le prime esperienze in città e con la droga, la prima convivenza. Tornano ad alterare la linearità cronologica a romanzo inoltrato soltanto poche digressioni analettiche, che costituiscono tasselli significativi per la comprensione e l’interpretazione dell’interiorità del protagonista.

All’ampiezza di un arco cronologico che arriva ad abbracciare larga parte di un’esistenza umana risponde un’unità spaziale quasi assoluta: a Fabbrico, emblema della provincia e luogo dell’anima dei personaggi quanto dell’autore, si svolge praticamente l’intero racconto. È fin troppo chiaro allora quanta importanza assuma la parentesi cittadina che si colloca circa a metà della narrazione e che costituisce il momento di massimo allontanamento di Pietro dal paese natale, necessario al processo catartico che lo riporterà inesorabilmente a quelle che sono le sue origini in termini topografici quanto esistenziali. Sembra naturale che repulsione e attrazione magnetica insieme siano le sensazioni che lo legano alla provincia, dal momento che sono le stesse che lo tengono ancorato all’idea, sempre più concretamente fantasmatica, di sua madre. Di lei Pietro sembra assolutamente incapace di liberarsi, ossessionato da un’assenza pervasiva che si manifesta in ogni aspetto della realtà. Nel cogliere ogni dettaglio connotato maternamente agisce ovviamente la prospettiva di Pietro.

Con uno stile scarno e incalzante, principalmente paratattico e fortemente caratterizzato dalle figure dell’anafora e della ripetizione che lo rendono fin ossessivamente martellante, e talvolta ridondante, Camurri insiste con costanza sulle notazioni visive. Il narratore riporta continuamente ciò che i personaggi osservano – quindi, notano – e cosa provano a riguardo, tentando di illuminare eloquentemente le sensazioni più immediate che li colpiscono, lasciando al lettore il compito di comprenderle inserendole nel più ampio quadro di un’emotività segnata. L’inclinazione contemplativa dei personaggi trova conferma nella frequenza con cui si raccolgono in momenti di riflessione, fissando lo sguardo al sole e ai suoi colori rifulgenti nel cielo. Un sole tiepido, consolatorio, splende sempre all’orizzonte per abbracciare i personaggi malinconicamente assorti. Ma la luce celeste non è strumento sufficiente per comprendere i turbolenti sommovimenti interiori, così Ettore e Pietro falliscono in ogni tentativo di autoanalisi, rimanendo sostanzialmente al di fuori dei confini della comprensione della propria emotività. La mancata consapevolezza di sé non consente di affrontare serenamente le difficoltà dei rapporti umani e di mettere in atto comportamenti costruttivi.

Vittima senza colpa dell’abbandono di cui ignora completamente le ragioni, Pietro si sviluppa nel segno della passività, e con la stessa inclinazione si abbandona ai rapporti con gli altri, senza essere in grado di maturare mentre cresce soltanto anagraficamente. Il filo rosso sveviano del fumo, che fin dalla prima adolescenza si fa segno caratteristico della sua persona, è simbolo per eccellenza dell’incapacità di cambiare. Il ragazzo, infantile fino all’egoismo, non fa che perpetrare a sua volta l’ingiusta violenza psicologica subita, soprattutto su Miriam, recalcitrando di fronte al contatto umano profondo e alle responsabilità affettive, ma d’altra parte lasciandosi a tutti gli effetti trascinare nell’involucro preconfezionato di una relazione di coppia “normale”. Se il bambino indifeso e orfano di madre delle prime pagine suscitava empatia e compassione, il ragazzo che sbaglia e inciampa goffamente nei sentimenti degli altri pare piuttosto antipatico, ma proprio per questo assurge a limpida dimostrazione dell’inconsistenza di una distinzione manichea fra buoni e cattivi: esistono soltanto individui che tentano di fare i conti con il proprio passato e con il proprio dolore.

Anche tutti gli altri componenti della famiglia, pur vicini fra loro, sembrano affetti da un mutismo che impedisce loro di entrare in reale contatto reciproco, almeno fino all’ultimo, e di sopportare il peso della mancanza se non individualmente. Le sole che riescono a interagire fra loro emotivamente sono al di fuori della famiglia di Pietro: Miriam e sua madre si abbracciano piangendo, si consolano e si sostengono di fronte alla malattia del padre. La naturalezza di un tale comportamento vale sicuramente come risultato di una storia familiare più serena, tuttavia sembra anche essere una capacità innata, evidenziata per restituire un ritratto tipico dei personaggi e dell’opposizione fra i sessi.

I personaggi, fatta eccezione per il protagonista, sono figure per lo più piatte, spesso caratterizzate da un dettaglio macchiettistico (i baffi di Ettore, gli occhi di Pietro, uguali a quelli di sua made, il dente scheggiato di Miriam), e sembrano calzare fin troppo perfettamente nella forma ben delineata di un tipo. Rispetto a Pietro, Miriam è in grado di affrontare i propri sentimenti e di prendere decisioni importanti per la sua vita, di farla procedere attivamente. Al di là di questo, la sua descrizione non viene approfondita ma condotta in primo luogo tramite l’accumulazione di una serie di comportamenti, gesti e inclinazioni ritenuti comunemente femminili. La rappresentazione delle donne avviene all’insegna dell’emotività vibrante e del cromatismo rosa. Come loro, anche le case in cui vivono sembrano evidentemente caratterizzate in senso femminile e materno grazie ai colori pastello, agli asciugamani lilla, alle cuffie fuxia, all’odore di cibo caldo e di fiori. All’opposto, gli uomini appaiono rudemente chiusi e virilmente connotati. Eccezione alla serrata corrispondenza tra caratteristiche del personaggio e ruolo di genere è colei di cui non si sa il nome, che ha rifiutato i doveri materni con un atto di egoistica ribellione, svincolandosi dalle catene dell’ordinario per cercare la propria dimensione ideale al di fuori della monotona vita di provincia. Anche Gaia appartiene a una categoria di donna diversa da quella di Ester, Miriam e Margherita, ma non per questo riesce a sfuggire alla tipizzazione, calzando i panni di una moderna e acerba femme fatale, divenendo personificazione e simbolo dello sfortunato fallimento di una vitalistica ma ancora ingenua ricerca di libertà.

L’introspezione intima del narratore nell’animo dei suoi personaggi, comunque, ottenuta tramite l’analisi psicologica diretta e il discorso indiretto libero, dà la cifra dell’operazione che Camurri vuole svolgere nel romanzo, che si rivela un maturo tentativo di inoltrarsi nel territorio del dolore sordo e inconfessato degli uomini nei loro rapporti interpersonali, soprattutto familiari, seguendo il processo di crescita di un individuo comune, umano, impacciato dai propri limiti. Tuttavia, lo stile non sempre riesce a evitare abilmente il rischio del sentimentalismo o dello spettacolarismo enfatico, e il tema centrale, pur ben inquadrato e rappresentato, non è sviscerato con risultati particolarmente originali.

Cercando di restituire la fotografia di una realtà locale rimasta immobile e identica a sé stessa nonostante il trascorrere del tempo, Camurri finisce per dare una rappresentazione eccessivamente stereotipica della comunità, che suona stridente almeno per quanto riguarda i personaggi più giovani, che avrebbero potuto verosimilmente sottrarsi al gioco delle parti caratteristico della società di una volta.

Nonostante le note stonate che ne ostacolano la fluidità, con il suo ritmo costante e un tono che oscilla fra malinconia e acredine, Il nome della madre può risuonare ipnoticamente all’orecchio del lettore in cerca del godimento emozionale piuttosto che della suggestione d’intreccio, come una nenia dolceamara che lo accompagni nelle profondità dell’intimo dolore umano.

Roberto Camurri, Il nome della madre, Milano, NN, 2020, 176 pp., € 17.