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Questo non è un instant book – Su “Trilogia della catastrofe”

Gli abitanti dell’Isle-aux-Coudres, lungo il fiume Saint-Laurent in Québec, hanno abbandonato la tradizionale pesca al beluga nel 1924. La lingua locale sta scomparendo, e pochi restano a tramandare quei giorni con quelle parole. Nel 1962, però, Pierre Perrault e Michel Brault invitano l’intera popolazione a “riprendere la pesca” per perpetuarne la memoria. Nasce così Pour la suite du monde, tra i capolavori del cinéma direct e primo capitolo di una trilogia.

Ecco: questa tensione verso una figura collettiva della memoria e dell’oblio, metafora vitale e mortifera sospesa tra tradizione e destino, è la stessa che popola le pagine di Trilogia della catastrofe. Prima durante e dopo la fine del mondo (effequ 2020). Oggi, proprio quando questa presenza si fa incombente ma la parola per dirla sembra perdere senso, tre giovani scrittori – Emmanuela Carbè, Jacopo La Forgia e Francesco D’Isa la riprendono in mano per riflettere sui suoi significati. Apparso in un periodo in cui è stato letteralmente impossibile non parlarne, questo libro punta decisamente oltre, smarcandosi dall’attualità catastrofica per tentare l’affondo in ciò che la catastrofe dice del nostro presente: cosa significa per noi questa parola? Siamo davvero capaci di pensarla? E di riconoscerla quando la vediamo? Da queste domande, tre diverse versioni dei fatti – suddivise in inizio, durante, fine – ne indagano i risvolti ironici, drammatici e pratici, dall’autofiction più sfrenata al pamphlet etico-politico, passando per la scrittura testimoniale e di viaggio. Nume tutelare di ogni capitolo è invece il dizionario – con le sue diverse accezioni di catastrofe –, a sottolineare l’insufficienza di una definizione univoca.

«Interruzione del continuo, rottura di un equilibrio» è il significato scelto da Emmanuela Carbè, che già in un’intervista di anni fa citava una delle presenze centrali del suo L’inizio degli inizi: l’Italo Calvino prefatore, nel 1956, delle Fiabe italiane, un esempio, allora, della convinzione-ossessione dell’autrice per cui «ogni (bella) scrittura è un atto civile». Ma qualcosa nel frattempo si è appunto infranto, e la cornice narrativa lo dimostra: insieme a Calvino, sotto strati e strati di layer ironici, sta infatti l’ormai compromesso rapporto tra storia e verità per tramite dei testi.

Nelle pagine di Carbè c’è tutta la precarietà di una condizione comune ai tre autori, che Guido Mazzoni ne I destini generali definisce di bilinguismo intellettuale. Formata “in parte nell’ambito della cultura umanistica tradizionale […] e in parte nell’ambito di una nuova cultura umanistica […] proposta dalle comunicazioni di massa”, tra Bim Bum Bam e Tik Tok Carbè tratteggia in pochi tratti lo scacco della soggettività occidentale. Ciò che per David Foster Wallace era ancora isteria (“Almeno un secondo di pensiero non mediato, per favore”, nell’epigramma critico di Zadie Smith), oggi rischia di assurgere a contemplazione estatica di paradossi, post-ironie e post-verità.

E se il nesso causa-effetto che illumina la nostra razionalità fosse una finzione? Se l’inizio che tanto contempliamo non fosse che una costruzione arbitraria? Da qui parte l’angosciato e divertito motore narrativo dell’Inizio degli inizi. Carbè mostra come sia possibile affidarsi a un sistema di credenze alternativo e portare alle estreme conseguenze l’interpretazione del mondo che ne deriva, per scoprire che in fondo un’altra ontologia non muta davvero nulla. È chiaro inoltre che oggi di “inizio” si può parlare solo a partire da un essere-nella-fine, dalla comune frammentazione che coinvolge l’individuo, la collettività e il mondo intero, mimando anche linguisticamente il caos della contemporaneità, per tentare di affrontarlo a viso aperto.

Inaspettatamente, però, è proprio dalla frammentazione che qualcosa infine riemerge. Non sono certo informazioni incorrotte e attendibili, ma è questo in fondo che traccia il limite e la misura dell’autenticità: l’ancorarsi ai fatti minimi di una singolare esperienza della vita. Quelli che permettono a Carbè di guardare quantomeno al graduale ma inevitabile ingresso nella narrazione della realtà-verità che abitiamo tuttora, e di considerarla una forma paradossale di salvezza dalla deriva del senso. L’autrice sceglie così come figura finale (non definitiva) la pura presenza della catastrofe, una condizione operativa delle cose al di là di ogni interpretazione.

Eppure, la condizione catastrofica esige di essere affrontata. Lo sa bene Jacopo La Forgia, che apre il secondo movimento – Costruire il risveglio – approfondendo l’alterazione su cui si chiude l’episodio di Carbè. Una maggiore istanza di realtà catapulta il lettore dall’autofiction al reportage narrativo, fissando lo sguardo sul massacro indonesiano del 1965 (la cosiddetta Communist purge), cancellato di forza dalla memoria dei suoi abitanti. La Forgia raggiunge così quella particolare forma di strabismo per cui si vede il proprio passato attraverso un altro presente, e la figura del proprio presente attraverso l’immagine sfuggente del passato altrui. Cosa sarebbe di noi se gli orrori del Novecento fossero stati messi a tacere? Se non si potesse parlare di oggi – dell’ecatombe nel bacino del Mediterraneo, o delle violenze di stampo razzista e più o meno poliziesche che da oltreoceano si impongono all’ordine del giorno anche qui? Come si può vivere insomma all’ombra di un governo che si adopera a edificare una memoria fasulla e funzionale al buon proseguimento del penoso stato del mondo?

La narrazione, ben architettata nei suoi momenti documentari e simbolici, diventa un’occasione per rispolverare alcune memorabilia sepolte nel nostro recente passato — come i pamphlet di Cervetto sulla controrivoluzione indonesiana —, ma anche per accorgersi di come questo giovane scrittore riesca a dare una voce e un luogo alle immagini di un’Indonesia schizofrenica, alle istantanee dei coraggiosi portavoce della memoria, all’orrore che trasuda dai frame degli speculari docufilm dedicati al massacro indonesiano “dalla parte del governo” e “dalla parte dei carnefici”. Perché “dalla parte dei superstiti”, come ogni storia in lotta per il riconoscimento, si danno solo testimonianze vivide e sul filo dell’illegalità.

Fare progetti per il passato, dunque, ovvero ricordarlo, portarne la memoria e mutarne il senso – e non solo per impedire che si ripresenti, ma per perdonarlo, mettendo fine anche alla logica infernale della vendetta. Con la consapevolezza che per ogni catena spezzata un’altra ne incombe. Che quello che è successo a Bali nel 1965 ora succede a Papua, e chissà dove altro.

Rispetto ai paragoni occidentali (Shoah su tutte), la clandestinità della memoria qui genera un bipolarismo esacerbato tra conniventi-ignari e informati-militanti. D’altronde, occidentalizzarne il discorso rischierebbe di perpetuare l’altra faccia di un colonialismo che subordina una comunità umana fin dentro la sua storia. Un’opinione è facile averla, suggerisce La Forgia: ma quando per un’idea si torna invece a dover scegliere tra sopravvivere o morire, ecco che ogni gesto torna ad avere un significato politico.

Se la sinossi di Pour la suite du monde vi ha commossi, sappiate che il beluga è tra i cetacei prossimi alla minaccia di estinzione, e che la ripresa della caccia ha aggravato la situazione. Una chiosa che non appare (ma avrebbe potuto) in Gestire la morte di Francesco D’Isa. D’altronde, Pour la suite du monde (nel senso di perché il mondo abbia un seguito) è anche il titolo del capitolo conclusivo di un’altra trilogia, quella del Comitato invisibile (Not 2019).

Si chiude così, “senza tamburi e senza musica”, un movimento che conduce la prima persona singolare dalla creazione letteraria al recupero militante fino alle prove tecniche di congedo di un mondo sempre più insostenibile nella sua presenza-evanescenza. Un Ted Talk inter-apocalittico e colloquiale, come segnala il tu con il quale si rivolge al lettore contemporaneo. Ma è qui che giace la funzione-finzione del testo: se l’inconfessato orizzonte dello scrittore è la posterità, per la prima volta nella storia dell’uomo concepirne una è quanto mai un atto immaginario.

Una forma di lutto rivolto al futuro che assale chi prende coscienza della situazione, a cui si oppone la normalissima blanda schizofrenia del fumatore, di chi non fa la differenziata, di chiunque si comporti di fronte alla vita, alla morte e agli altri come se le sue azioni non contribuissero minimamente al disastro attuale. È tra questi due poli che D’Isa si dibatte, tenendo sempre a mente che, se non è vero che siamo tutti colpevoli in egual misura, certo l’uomo non è buono; e che a questa catastrofe c’è, come spiegazione intimamente umana, la morte come motore fantasma di ogni nostra azione.

Una paura ancestrale che genera innumerevoli tentativi (e quanto mai controproducenti) di gestione. È in questa prospettiva che vengono interpretati i limiti e le possibilità di essere umani nel tempo della fine. Dal veganesimo all’antinatalismo, da Quammen a Jeremy Bentham, da Aristotele ad Ovidio a Vollmann fino a Extinction Rebellion, D’Isa compone un vivido pamphlet entro cui si materializzano concetti, nozioni, citazioni, riferimenti bibliografici (qui commentati dall’autore stesso) che tornano a disposizione per pensare questo tempo in rapporto al resto del Tempo.

Ma l’adattamento profondo o la gestione della morte non basteranno, finché siamo soli e incapaci di difenderci e organizzarci altrimenti. Sarà piuttosto un’attenzione diversa, quella che ci vuole, un diverso modo di abitare il mondo. Direbbe Fortini leggendo D’Isa: un’altra umanità. Consapevoli che «mettere a vera critica» questo stato di cose comporta sempre – è La Forgia, qui, a ricordarcelo – un rischio: la messa al bando, la perdita della cittadinanza. Che si tratti allora di dichiararci tutti clandestini e cominciare ad agire come tali?

Trilogia della catastrofe è dunque un saggio pop assolutamente inusuale, che si propone di dare un respiro all’esperienza di questa parola nelle presenze che investe. E di farlo attraverso la letteratura, scegliendo gli specchi del linguaggio tra esperienza finzionale e esperienza corporale come mezzo a cui affidare una comunicazione tra gli uomini e un accesso al presente. Un documento della nostra comune frammentazione, ma nell’atto più o meno sognato di aggregarsi in costellazione. Ciò che rende questa Trilogia così diversa dalle altre è insomma la sua infelicità felice, la coscienza che nulla è necessario o inevitabile.


Emanuela Carbé, Jacopo La Forgia, Francesco D’Isa,
Trilogia della Catastrofe, effequ 2020, 208 pp., 15€