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Scrittura, amore e ossessione: “Gli estivi” di Luca Ricci

Luca Ricci

«Dovresti mollare il romanzo che non riesci a consegnarmi e scriverne uno sull’estate» mi suggerì Lello. «Magari un ciclo, una quadrilogia delle stagioni.»

Nonostante la narrativa breve sia generalmente considerata poco fortunata dal punto di vista editoriale e commerciale, Luca Ricci si è costruito negli anni una carriera da “raccontista” di grido, riuscendo a imporsi con il suo I difetti fondamentali (che nel 2017 fu pure in odore di candidatura allo Strega, prima che Rizzoli rinunciasse a gareggiare). Anche lo scrittore pisano però, forse consapevole che questo genere ha spazi sempre più residuali, ha deciso di abbandonare il suo terreno abituale per abbracciare un nuovo progetto: una serie di quattro romanzi sulle stagioni. È uscito a febbraio per La Nave di Teseo il secondo pezzo della quadrilogia, Gli estivi, a due anni di distanza dal buon successo di pubblico e critica di Gli autunnali.

Il romanzo ha una struttura particolare, poiché è scandito in quindici capitoli corrispondenti a quindici estati consecutive. L’anonimo protagonista è un funzionario Rai, lavoro che per sua stessa ammissione non richiede null’altro se non di interpretare un ruolo piuttosto grigio. Il molto tempo libero a disposizione e la naturale fascinazione per la scrittura lo portano a pubblicare diversi romanzi rosa di discreto successo. Quella che per lui inizialmente è un’occupazione collaterale diventa presto qualcosa di totalizzante: fa “vita da scrittore” a tutti gli effetti, frequenta la comunità letteraria, partecipa alle presentazioni di libri malgrado detesti una certa tendenza di alcuni a parlarsi addosso e ammiccare all’uditorio, e poi – cosa per niente secondaria – ha un argomento in più per sedurre le donne, che quasi sempre capitolano di fronte al fascino dell’autore. È un uomo di mezza età con indole da avventuriero e donnaiolo, eppure trascorre sempre l’estate al Circeo con la moglie Ester, dove ha una casa di proprietà e alcuni punti fermi: l’abitudine, le stesse facce, un ristretto circolo di borghesi romani e napoletani.

Una delle leggi indefettibili del matrimonio era che marito e moglie si rovinassero reciprocamente tutti i pasti delle vacanze.

La sua routine trasuda noia, ma una sera si infrange improvvisamente, quando entra in collisione con una ragazza giovanissima, che cena a un tavolo poco lontano in compagnia di amiche ciarliere. Guai a derubricare gli sguardi alla fanciulla come il classico amoretto estivo – che è leggero per eccellenza – o come l’attrazione meramente carnale del vacanziero sale e pepe verso un corpo sodo e giovane: in lui si instilla in poco tempo l’urgenza di conoscerla, un’ossessione profonda e inestirpabile. Tuttavia la ragazza, una giovane partenopea di nome Teresa, non è il solo tarlo della sua mente: il suo editore Lello, compagno di bevute e di conversazioni, frequentatore pure lui del Circeo, lo pressa perché attende da tempo la chiusura del nuovo romanzo per poterlo mandare in stampa.

L’avevo finito o no quel cavolo di romanzo? Quant’era ormai che me lo stavo trascinando dietro? Ester non a torto lo chiamava “la tela di Penelope”. Era vero che negli ultimi anni ero andato facendolo e disfacendolo di pari passo, ogni benedetto giorno ciò che facevo doveva essere compensato da ciò che sfacevo, per ogni porzione di testo scritta una porzione di testo cancellata.

Gli spettri del non concluso e del temuto “blocco dello scrittore” cominciano a farsi sempre più concreti man mano che l’irruzione di Teresa nella sua vita assume una carica deflagrante. Di anno in anno, di estate in estate, gli incontri si fanno sempre più frequenti e intimi: dapprima si incrociano per sbaglio, poi si scambiano occhiate furtive, talvolta arrivano ad appuntamenti veri e propri. Ogni estate che passa sente di avvicinarsi un passo in più a lei, tenta di sedurla, si avvita su un sentimento ossessivo e non ricambiato, e nel frattempo smette di scrivere e di interessarsi alla scrittura, nonostante il pensiero di quel romanzo incompiuto affiori a intervalli regolari.

Dopo aver completato i quindici capitoli (e le quindici estati) di Gli estivi, forse è lecito chiedersi se Luca Ricci abbia davvero scritto un romanzo o se invece ci troviamo di fronte alla sublimazione della sua arte di raccontista. Le singole sezioni, infatti, si possono leggere come novelle sui generis, che si svolgono con cadenza annuale e che abitano lo stesso universo narrativo, conservando quindi il nucleo tematico e i personaggi. Anche il concetto di serialità, o quantomeno l’idea di una continuità affabulatoria in grado di legare quattro romanzi monografici, è in un certo senso un tentativo di antologizzare del tutto simile a una raccolta di racconti. La scelta del protagonista, poi, riallaccia chiaramente Gli estivi ai due lavori precedenti di Ricci (I difetti fondamentali e Gli autunnali), che gravitano anch’essi attorno al macrotema della scrittura.

L’anonimo protagonista palesa un certo gusto per la battuta a effetto e l’aforisma, quasi fosse un incrocio fra un personaggio sorrentiniano e un Lord Henry Wotton capitolino. In realtà non pronuncia mai una frase davvero brillante o in grado di spiazzare, ma si limita spesso a meri calembour («Il preciso scopo della letteratura è non avere uno scopo preciso» o, peggio, «chi si ama non dovrebbe mai sposarsi, o chi si sposa non dovrebbe mai amarsi»). Se l’intento era parodistico, il bersaglio è centrato appieno.

La volontà di satireggiare il complesso meccanismo editoriale appare evidente, e in questo senso spiccano i caustici elenchi in cui l’autore si fa beffe di tutte le categorie (scrittori, editori, lettori, critici). Come se ciò non bastasse, alcuni personaggi pronunciano frasi sferzanti verso le scuole di scrittura («Omero, Dante e Shakespeare non ne hanno mai frequentata una» o ancora: «Io mi considero un autodidatta, e credo che nella scrittura s’impari soltanto da se stessi»), ma si badi a non cascare nel gustoso tranello: sono idee non condivise da Ricci, che fra le sue molteplici attività annovera anche seguitissimi corsi di narrazione.

Gli estivi non è un romanzo sentimentale, ma ambisce per certi aspetti a esserne una parodia, dato che ne ricalca gli stereotipi, prende a prestito stilemi e smonta il genere. Il sesso è pietra angolare e valore fondativo di ogni rapporto di coppia, il nutrirsi in maniera bulimica di amanti è una deformazione. Il leitmotiv attorno a cui tutto ruota è un amore sensuale e irrisolto, chiodo fisso di un maschio adulto che si sente avvizzire e pensa di strappare un brandello di giovinezza rincorrendo delle adolescenti; dimostrerà di non crederci nemmeno lui, convinto che quel sentimento sia un’illusione, un palliativo.

La prosa piana non lascia spazio a tracce di ricercatezza eccessiva o di letterarietà, lusso che Ricci non si concede praticamente mai, e questa cifra distintiva risulta alla fine vincente perché il romanzo è leggero, scorrevole, tanto che la curiosità per i destini dei protagonisti lo rende un potenziale page-turner.

La ragazza, Teresa, funge da motore immobile, è il meccanismo che innesca la narrazione ma anche l’irraggiungibile, ciò a cui si tende senza mai afferrarlo: con lei come con il romanzo incompleto intercorre un rapporto di avvicinamento costante, ma senza che si possa arrivare a un contatto. Lo scrittore in crisi, convinto di avere un’idea e un modo semplice di comunicarla, scopre che la semplicità e la banalità possono diventare velocemente sinonimo di ineffabilità, e finisce con l’annaspare per anni per tentare di riacciuffare quell’idea.

A livello narrativo, l’intento di Ricci sembra fin troppo evidente: la sovrabbondanza di aneddoti, sogni a occhi aperti dalle venature fantascientifiche, incubi a tinte gotiche e intermezzi grotteschi denuncia la volontà di cogliere ogni scappatoia per sfuggire all’azione drammatica, per aprire finestre narrative e sviluppare divagazioni che mettono un po’ di pepe a un intreccio per il resto piuttosto monocorde. In sostanza la vicenda principale non è altro che una cornice su cui innestare diramazioni ed ekphraseis. Proprio per questo muoversi sul filo della ragione, con continue virate verso l’onirico e il surreale, unito alle riflessioni sull’arte e alla crisi che affligge il protagonista, si potrebbe azzardare un paragone col cinema e dire che Gli estivi è un’opera se non felliniana almeno “fellineggiante”; il cineasta viene peraltro nominato esplicitamente in un veloce passaggio in cui si fa riferimento a Lo Sceicco bianco e a un pezzo di scenografia misteriosamente volato via da Cinecittà.

Una crisi di inspiration? E se non fosse per niente passeggera, signorino bello? Se fosse il crollo finale di un bugiardaccio senza più estro né talento?” (Marcello Mastroianni nel ruolo di Guido Anselmi, in di Federico Fellini, 1963.)

Si potrebbe concludere che questo romanzo è l’ di Luca Ricci, ovvero il racconto della difficoltà di raccontare sempre qualcosa di nuovo, il making of di un eterno incompiuto che diventa esso stesso opera d’arte. Non ha il lirismo e l’estetica sublime felliniana, anzi precipita volutamente nel triviale o nel kitsch, tratteggiando un personaggio sgradevole che, come Guido Anselmi, il protagonista del film di Fellini, si costruisce un nutrito harem di amanti. Forse è facile figurarselo meno affascinante di Marcello Mastroianni, ma ha lo stesso appetito di vita e la stessa consapevolezza di essere senza certezze. In definitiva, la stessa scarsa comprensione dell’amore e dell’arte, giacché la sua immaturità di narratore riflette una profonda immaturità sentimentale.


Luca Ricci, Gli estivi, La nave di Teseo 2020, 229 pp. 18 €.