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Potente poiché debole: “Querencia” di Lorenzo Mari

I libri di poesia che (a mio modesto parere) ha senso leggere, nel proliferare di pubblicazioni che non si configurano né nel pessimo né nell’ottimo livello (c’è qualcosa di peggiore della medietas, ci perdoni Aristotele, in questo campo?), sono quelli che portano il lettore in una dimensione linguistica dove si percepisce un impulso a seguire vie libere, meno battute, per trovare un inquadramento di sobrietà e misura solo in un secondo momento. Ebbene, mi sembra che risponda a questi requisiti Querencia di Lorenzo Mari (Oèdipus edizioni), un libro che ha a che fare al medesimo modo con il tempo e con lo spazio. Un testo che imbocca la via del verso lungo e della prosa poetica, cercando un corpo a corpo con la lingua e con il suo mettersi in opera. Di questo libro ha già scritto con precisione e acume su Argo on line Luciano Mazziotta, rinvenendo nel tema del rapporto fra stasi e movimento uno dei nuclei generativi della poesia. In effetti un indizio interessante ce lo fornisce proprio il titolo: Querencia è quella parte dell’arena in cui il toro si sente sicuro, al riparo dagli assalti di chi lo vorrebbe morto. Un luogo dove la lotta per la sopravvivenza trova una quiete, una pausa appunto, dove l’eco (per citare i primi versi) perde la lalìa:

togliere la lalìa all’eco: per sentirla
farla ancora sentire…

In questa dimensione in cui si arresta la lotta eraclitea fra gli opposti, l’ecolalìa, quindi la coazione a ripetere patologica che dà nutrimento ad ogni forma di violenza, diventa afasica, perde la parola per permettere al canto di acquisire un nuovo smalto. Non è un caso che in questo libro i luoghi che ripropongono quasi come ipostasi la “querencia” di sapore hemingwayano siano zone di assoluto e altissimo silenzio, come le grotte dei nostri antenati, dove le parole non sono ancora nate e invece abbondano le immagini, i disegni aventi come scopo quello di rielaborare il tema della violenza, fissarlo per in qualche modo fingere con sé stessi di poterlo controllare. Ma che cosa significa fissare qualcosa? Non significa forse mettere l’oggetto della propria attenzione in pausa? La stessa pausa alla quale il tennista sottopone la pallina, nel momento di effettuare il servizio, quindi di imbastire una nuova tenzone con l’avversario. Ed effettivamente il campo da tennis, con il suo lucido mettere in scena, quasi teatralmente, il dilemma degli opposti, è il terzo luogo che ci propone la poesia di Lorenzo Mari, che sceglie di far accadere le parole in tre atti precisi, che hanno una valenza spaziale e temporale:

Un break nella predica, la pallina del tennista in alto, silenzio sugli spalti.

I tre luoghi, quindi, la querencia, il campo da tennis e la grotta sono luoghi in cui accade il rito, in cui la violenza del mondo trova un agio diverso, cercando anche, però, una battuta d’arresto. È proprio lì che raddoppia il suo senso la parola, nella grotta, nella pausa che è silenzio: la parola, che – cito – «non predica toro» deve cercare, per evitare di cadere da una parte o dall’altra, quindi di accondiscendere ad un opposto all’altro, di rimanere in zone liminali, che permettano una sospensione, esattamente come la pallina gettata in alto dal tennista, prima che il dramma (ovvero la vita) cominci. Questa zona libera dalla violenza, Mari la rinviene nella “lalla” o “lalìa”, ovvero quella zona del linguaggio che Zanzotto avrebbe definito “petèl”. La lingua infantile, quindi, che Mari sa gestire con grande misura e che interviene in alcuni precisi punti a mostrare spiragli di speranza, illuminando di gioia la compagine testuale. Non è vero che la “lalla” è inutile, non è vero che non sposta niente:

dici che nasce   una lingua potente, ovvero
potente poiché debole    potente poiché nulla
poiché ai tempi, al passo   senza passo restando
chi lalla è di sconcerto   e dici che chi lalla
non sposta niente   invece interi muri intere
caverne si sono viste   e lunghissime opere
di bisonti […]

Credo che il punto di forza di questo libro, molto stratificato nei significati (e anche nel significante), sia la capacità di stare in mezzo ad un meccanismo di accelerazione e decelerazione. Lo dimostra molto bene la lingua, che passa dalla forma lirica alla prosa poetica: una prosa poetica, però, che non diventa mai colata ma resta sempre ben organizzata in comparti, sezioni in cui il ritmo mostra cadenze precise. Attraversata da movimenti eterogenei, ben calibrati fra di loro, questa lingua sembra quasi frenata in potenza, come se si sentisse un intimo desiderio di imboccare strade più liriche e allo stesso tempo temesse che proprio percorrendole si possano perdere frammenti di brillantezza, gemme splendenti. Per far ritrovare lo smalto al canto occorre quindi spegnere la sua eco, fare un passo indietro: la stessa azione che facciamo per mettere a fuoco un dipinto, per vedere meglio. In fondo, anche il meccanismo conoscitivo funziona così: non si accede ad una conoscenza superiore attraverso un percorso tracciato e fatto di progressi lineari, ma si va avanti a piccoli balzi, spesso si frena, talvolta si torna addirittura indietro.  Lo testimonia un testo che ha il sapore di poetica:

la festa dei chissà quanti    abbattuta: a scarti
a sprazzi, a lampi decretò: senza carne

[…]

pressante, in tre quarti

parola è il
quarto

       quarto

Fra momenti in cui si sente lo slancio e momenti in cui si frena, questa lingua sembra voler testimoniare di essere lo spazio in cui si attuano forze diverse, che però non trovano una definizione o una pacificazione. Lo confessa l’autore stesso nell’atto di chiudere il libro:

[…] lui, oppure lei, dice che proprio non si sa, se è un muro fatto a regola d’arte, se tutto questo è il resto, se è epilettico muoversi quindi, se è dialettico o se è

lallà

Non predicando toro, quindi evitando di riverberare la voce delle vittime, questa poesia spera che il mondo possa essere riportato a un’originaria innocenza.


Lorenzo Mari, Querencia, Salerno, Oèdipus Edizioni, 2019, 48 pp., 11 €.