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#botta&risposta: la deriva analogica di Del Giudice

Per la rubrica #botta&risposta Davide Castiglione dialoga con Pasquale Pietro Del Giudice, autore di Piste ulteriori per oggetti dirottati (Ensemble, 2019, qui il link a una scelta di testi e alla nota di lettura di Martina Dell’Annunziata).


Caro Pasquale,

anzitutto ti ringrazio ancora per aver letto e commentato in privato il manoscritto del mio futuro libro. Se è vero che ogni giudizio estetico risponde anche, implicitamente, a un proprio personale indirizzo di poetica, allora alcuni dei tuoi appunti acquistano forza e risonanza dalla lettura del tuo Piste ulteriori per oggetti dirottati. Li richiamerò pertanto più oltre in questa nota.

A leggere il titolo del libro e i titoli delle poesie singole spesso dedicati a e incentrati su oggetti comuni, si potrebbe pensare a un influsso o tangenza del Ponge de Il partito preso delle cose, o anche a Oggettistica di Giovenale. E tuttavia le tangenze si collocano su un ambito molto generale, ovvero nel solco di una volontà di decentramento dell’io, che lascia la scena a loro, agli oggetti. Per il resto, l’operazione che compi è molto diversa dalle loro (che a loro volta non sono direttamente confrontabili, mi sembra): direi addirittura che è antitetica o quantomeno complementare alla lezione di Ponge. Ponge fa un ritratto esemplare ed essenziale, centripeto, coagulato intorno a punti di saggezza implicita: ne Il pane, per esempio, l’oggetto è analiticamente scomposto, e le metafore (il pane come catene montuose o spugne) sono poi espanse, senza l’introduzione di elementi estranei. C’è insomma una tendenza analitico-centripeta, razionale, in cui alla fine vince l’oggetto liberato dalla metafora («il pane deve essere piuttosto oggetto di consumo che di riverenza»).

Il tuo modo di procedere è invece barocco-centrifugo, fai esplodere l’oggetto nella girandola di catene associativo-analogiche che questo innesca in chi l’osserva e immagina: così il mocio dell’omonima poesia a pp. 69-70 è un «polpo addomesticato», un «fucile delle casalinghe», «alghe redivive», «futuro strumento di rivolta», «una lattuga dalla facile usura» e tanto altro ancora. Queste apposizioni sono cumulative, quasi sempre i testi sono monoperiodali e affollano paratatticamente sintagmi e incisi, come se ci fosse tanto un’ansia di esaurire le possibilità dell’oggetto quanto l’orrore del punto fermo, della cesura che interrompe il flusso. Adesso dunque comprendo perché molte delle mie poesie abbiano potuto apparirti “claustrofobiche” nel loro neoclassicismo: tu pratichi una poesia informale, costruita per blocchi orizzontali, senza gerarchie interne, e votata a una  rêverie domestica che renda sopportabili i confini rendendoli liquidi a furia di metamorfosi – come antidoto, forse, a uno stallo esistenziale denunciato in alcune poesie, per esempio in Lo psittaciforme, p. 91: «Sto a casa davanti al computer | con un carico di frustrazione | proprio di un uomo irrealizzato, | perennemente acerbo».

Questa rêverie ingloba stralci confessionali (come quello appena riportato) dove il soggetto si appiattisce sulle funzioni biologiche, si sminuisce, si ridicolizza, ed è qui forse che il Crepuscolarismo offre una sponda alla crisi del nostro tempo e della nostra generazione. Giusta la tua formazione filosofica, s’inseriscono spesso delle tesi, anzi si potrebbe dire che la tua è di preferenza una “poesia a tesi” – a partire dalla tesi macrostrutturale, l’epigrafe di Wittgenstein che illustra perfettamente l’idea e perfino il programma del libro («Gli oggetti contengono la possibilità di tutte le situazioni»). Tu stesso offri parecchie tesi, esposte tramite proposizioni filosofico-scientifiche: «gli oggetti contengono il plasmabile» (p. 9), «il cucciolo mima l’età adulta» e «si diventa ciò che si fa» (p. 13), «più cresci più muori, più muori più cadi a pezzi» (p. 15; per inciso, questo è fra i versi più potenti del libro, combinando struttura comparativa, parallelismo e infrazione della non-gradabilità di un verbo come “morire”, anche se nel linguaggio comune  non è raro imbattersi in espressioni quali “morire un poco” ), «avere mal di testa | ti ricorda di avere una testa» (p. 17), «la caldaia è il centro erotico della casa» (p. 23), «la precarietà mette in rapporto le cose | in una rete d’emergenza» (p. 49), «La pulizia è il paradiso perduto degli allergici» (p. 58), «alzare carichi | insegna l’arte di sbilanciarsi» (p. 71, con annesso paradosso, gioco di parola su “bilanciere”) e molte altre ancora. Queste schegge di saggezza (e talvolta di un semplice, opportunamente rispolverato buonsenso) sono anch’esse immesse nel flusso paratattico, aggirando quella seriosità vaticinante che le vorrebbe separate e campeggianti all’inizio o alla fine dei testi.

Insomma, l’operazione che compi mi pare originale nel compenetrarsi di discorso filosofico, lamento esistenzial-crepuscolare e ossessione analogica, portando alle estreme conseguenze le corrispondenze baudelairiane e le somiglianze deangelisiane, ma aderendo a humour e comicità piuttosto che a un senso tragico della vita. Tutto questo è insolito o periferico nella nostra tradizione, e risulta in una grande freschezza della lettura e del dettato, anche grazie a non poche concessioni al gergale e al registro basso-comico («la zucca fa male», p. 17, «salvando la mia pellaccia», p. 32, «culo bianchiccio della pagina», p. 36, eccetera).

Vengo ora ai limiti del libro – o meglio, ai limiti miei di lettore nei confronti di un libro del genere. Dicevo prima che il libro è estremamente omogeneo nell’aderire a un programma e svilupparlo: si sceglie un tema (spesso un oggetto, ma talvolta anche un processo biologico o un sintomo psicofisico: per esempio, l’indigestione o il mal di testa) e lo si sviscera secondo modalità diegetiche dove il verbale impedisce lo sviluppo di una scena, di una finalità, di una parabola unitaria che faccia coagulare il senso. Questo rientra chiaramente nelle tue intenzioni e nella tua sensibilità, ma il risultato è che questa affabulazione debordante può risultare dispersiva per chi legge: le intuizioni affogano in mezzo alle metamorfosi e le metamorfosi stesse sono effimere, occupando uno o pochi versi prima di essere sostituite a loro volta. Non c’è spazio per la contemplazione, per l’incisione nella memoria.

L’altro limite, corollario del primo, è che proprio questa omogeneità ripetuta rende la lettura prevedibile dopo una manciata di testi: una serie di variazioni sul tema, e non posso fare a meno di chiedermi se queste non siano eccessive in numero, e non rischino di offrire sempre più o meno lo stesso tipo di avventura conoscitiva, se la conoscenza risiede (come credo) nell’operazione in sé più che nell’oggetto che la fa scaturire. È un po’ come se tu provassi la stessa formula (che so, x = y = z) cambiando ogni volta i valori alle variabili. Quello che mi piacerebbe invece vedere è una formula che vari a seconda dell’oggetto o dell’occasione di scrittura. In altre parole, l’analogia rischia di essere più una modalità percettiva di chi osserva più che una potenzialità intrinseca alla struttura dell’oggetto preso in esame. L’oggetto sembra pertanto diventare cavia dell’io, piuttosto che suo complice o antagonista. Le poesie per me migliori sono quelle dove il soggetto lascia emergere un qualche tipo di rabbia confessionale (come ne Il coltello, p. 76), dove l’improvvisa durezza («Vi strapperei il cranio a morsi, amici commensali | quando fingo di ascoltare i vostri discorsi») illumina proprio retrospettivamente la scelta del coltello. Insomma, l’oggetto pare qui maggiormente compenetrato nella psiche di chi scrive, anziché ridursi a occasione di studio, di rêverie e di fuga.

Un’altra distanza rispetto al mio modo di intendere la poesia è nell’uso della didascalia o dell’estrema esplicitezza. Vorrei prendere come caso esemplare Le due bottiglie (pp. 56-57), perché fa leva sulla stessa metafora iniziale che ha fatto scaturire un mio testo poi incluso in  Non di fortuna (Le bolle azzurre IV, «Cercavo l’acqua il dodici del dodici…»). In quel mio testo parlo anch’io di una bottiglia d’acqua che involontariamente faccio cadere, alludendo agli aerei che impattano sulle torri Gemelle l’undici settembre (l’allusione è nella data del giorno dopo, il dodici, nell’atterrare incolumi…). Ho tentato, insomma, di evitare l’esplicitezza, affidandomi al lavoro ermeneutico del lettore – magari poi in tal modo ho sconfinato in un opposto,  non meno raccomandabile e  codardo culto del non-detto… Comunque sia, la stesso materia di partenza (la metafora delle bottiglie come torri gemelle) tu la espliciti in modalità apposizionale sin dal primo verso («Una accanto all’altra, due torri gemelle | due birilli impotenti, in attesa di possibili attentati»). In questa scelta io vedo una facilità non troppo distante da una mancanza di pudore. Nella stessa poesia, versi come «Cosa non sono e cosa hanno pensato di essere | queste due bottiglie di plastica | sono la cosa che più mi interessa», rivelano tardivamente un’operazione che il lettore intuisce già, visto che il testo si incarica di metterla in scena chiaramente. Alcuni altri passaggi non apportano nuova conoscenza perché si limitano a chiosare una realtà che già conosciamo tramite i media o la nostra esperienza (per esempio, in Carne straccia, p. 19, ricordi che chi distribuisce i volantini è «sottopagato, | per di più disoccupati, disperati | o ragazzini che hanno marinato la scuola | usciti dalle regole della vita»).

Queste, in sostanza, le mie impressioni, scisse fra positive e negative. Da un lato avverto coraggio nell’oltranza, indipendenza dai canoni dominanti, aderenza a sé, abilità nella versificazione e nell’allestimento delle immagini, notevoli intuizioni individuali; dall’altro un eccesso verbale-didascalico, una ripetizione che spesso ricade su di sé senza trascendersi, una quasi assoluta mancanza degli “altri”, che quando appaiono, appaiono di sfuggita, riuscendo minacciosi e non cercati, risultando attanti e mai personaggi. Tali derive portano a una certa mancanza d’aria, di prospettiva e tridimensionalità scenico-psicologica; si vorrebbe che il soggetto smettesse, almeno ogni tanto, i panni del defilato e paradossalmente impotente paroliere-demiurgo (non a caso il libro si apre con un testo dal titolo Il sogno creatore) e assumesse quelli, forse più rischiosi, di un soggetto in piena e conflittuale interazione con il mondo.

Davide Castiglione, Vilnius, 08/02/20


Caro Davide,

ringraziandoti per l’attenzione al libro, passerei ad alcuni punti sollevati dalla tua lettura. Sulla questione inerente all’insuperabilità del proprio relativismo in ogni giudizio estetico, risulta innegabile la presenza virale del proprio sguardo, del proprio gusto in ogni giudizio critico. Sarebbe ingenuo pensare il contrario come sarebbe stupido partire e concludere l’esperienza della lettura, dell’apertura all’altro, ritornando costantemente a se stessi, tenendo fede alla bussola delle proprie categorie o semplicemente dei propri “modelli di poesia”, quando l’incontro con il testo e il diverso mi sembra appunto una scommessa o un investimento, un invito a smentire e a essere smentiti, smontati, in vista di un percorso esperienziale non prevedibile, in senso fenomenologico, di accoglienza delle forme, del loro farsi possibile e orizzontale, dal punto di vista della loro verificabilità.

Dunque, se è più che umano uscire dal proprio sguardo è auspicabile, allo stesso tempo, non esserlo troppo, distanziarsene, verificare la propria inconsistenza, anche o soprattutto in sede “critica”. Allo stesso tempo, mi fa sorridere non poco, paradossalmente, una ricerca tassonomica dei criteri di valore “scientifici” in poesia o in letteratura. L’oggettività dello sguardo è sospetta semplicemente perché l’oggetto in questione è sfuggente, è un fatto culturale che contiene in sé il suo limite e il suo peccato originale. In quest’ottica, guardo con interesse a chi ricerca di mettere in pratica la facoltà del dubbio e dell’interrogazione costante sulla possibilità stessa di fare critica e di fare poesia, resistendo alla tentazione di salire in cattedra.

In relazione ai nomi citati, come Ponge o il Giovenale ancora inedito di Oggettistica, trovo la tua lettura coincidente alle mie intenzioni; i riferimenti (da Perec a G. Stein), le distanze e le vicinanze sarebbero numerose, considerando le diversificate poetiche sorte intorno alle cose. A differenza di Ponge, una delle mie azioni – quella oggettuale – agisce sul e all’interno del fenomeno, nella zona intermedia e allucinatoria del possibile, tra la coscienza e la prendibilità della cosa, dando per perduto, in partenza, il noumeno, portando all’estremo il gioco delle associazioni trasfiguratrici. Pratica utile a smarcare dalla pretesa del vero la poesia e per svilire il linguaggio per eccesso, mostrandone il marchio inconsistente, il nulla dell’eccesso, scaturito dalla carica stancante degli accostamenti di senso. Erezione, eiaculazione del senso lì dove tu agisci per impoverimento e sottrazione, io per bulimia e voracità associativa. Ogni testo è una turbina elettrica, ogni testo è un anabolizzante della fantasia.

Starei comunque attento a risolvere il libro in un metodo frettoloso, riducendo l’interpretazione dei testi a una loro semplificazione. A ben vedere ci sono più movimenti e giochi di specchi tra l’io e gli oggetti, è anche l’io o il corpo a farsi oggetto o combinazione oggettuale e l’oggetto a diventare uomo, ad acquisire connotati antropomorfi o anche sentimenti. In questo senso l’oggetto è il pretesto, il grimaldello per aprire un universo non solo immaginativo ma anche sociale, esistenziale ed emozionale, in quanto ogni oggetto apre un reticolo inatteso di rimandi, è se stesso ma anche e sempre altro. L’oggetto viene defunzionalizzato, tolto alla catena dell’utile, liberato dal suo scopo e trasfigurato a partire dal punto di vista della poesia, nella mia prospettiva irrilevante e ludica. All’opposto è rintracciabile nel libro una certa durezza e insostenibilità dell’io, della biografia a volte superata attraverso un’ironia mimata, altre volte, come contraltare alla rêverie immaginativa, la messa in scena di una vita schiacciata su se stessa, lucida nella sua rabbia più che nel suo crepuscolarismo, nuda nel suo realismo, a volte anche diaristico, ai limiti della prosa.

Cercando di tenere insieme la banalità di essere impersonali e la stupidità di esserlo, il libro corteggia, mima gli occhi e la voce dell’idiota, per recuperare un rapporto stupido con il mondo circostante, la potenza e l’irresponsabilità creativa, attraverso “l’adombramento” connaturato alla nostra percezione delle cose e delle circostanze quotidiane; prendendo in prestito da Husserl l’intuizione sulla parzialità con cui ci è dato e ci si offre l’oggetto, nel suo non rivelarsi mai ai sensi a 360° ma nascondendo costantemente il suo volto. In quest’ottica il buio conoscitivo è l’opportunità non vista, è la pista ulteriore per dirottare le cose attraverso l’immaginazione, cercando l’associazione più distante, costruendo il tragitto che può tenere insieme realtà molto distanti tra loro.

In base a quanto detto, Piste ulteriori per oggetti dirottati rappresenta un tentativo e una burla moltiplicativa, di montaggio e smontaggio di blocchi e in questa direzione andrebbe interpretato un certo “serialismo” metodologico, che ho cercato, in verità, di non lasciare scadere nell’esercizio ma di problematizzare nella rifrazione di necessarie variazioni formali e voci presenti nell’organizzazione del libro, smentendo quindi un’eccessiva coerenza del progetto. Strutturazione geometrica che in sé, a mio avviso, non rappresenterebbe nemmeno un limite, ma più che altro una modalità, se pensiamo a certe opere del Novecento come Sillabari o Centuria o a certo minimalismo americano del ‘900 in musica (Steve Reich, J. Adams).

Nell’ottica di quest’operazione, la parola non è diretta al centro, a un presunto cuore conoscitivo, ma è un volontario e reiterato sbagliare il bersaglio. La scrittura non sostituisce l’oggetto, non lo verifica e non lo riempie ma lo manca, lo perde costantemente, ripetendo la caduta nel linguaggio. Caduta che corrisponde alla perdita della verità del mondo, della sua implicita e muta conoscenza e comprensione. Se il linguaggio è una rincorsa del mondo perduto, il libro enfatizza l’aspetto ossessivo, reiterato di questa perdita, nel suo stile elencatorio. Tuttavia la spirale dei versi innesca l’intervento dell’immaginazione, che ci rende di più e di meno di quello che crediamo di essere, annulla il tempo, supera la cronologia e la contingenza e ci restituisce a una forma di coscienza diversa, una retrocessione a un tempo precedente al farsi singolare, al determinarsi parziale della vita, un arretramento alla dimora del possibile.

Per concludere, “l’eccessiva chiarezza” che rilevi, potrebbe essere stato un effetto collaterale di questo tipo di operazione, dove le intenzioni erano quelle di riabilitare il piacere piano e sciocco del testo, nella sfacciataggine del tono. Rivedendo i testi avrei comunque omesso qualcosa, senza tradire la natura delle poesie, usato di più l’interpunzione, anche se inizialmente era quasi assente, optando in fine per una via di mezzo, la virgola a mulinare parole, utilizzando punto e punto e virgola più raramente. Formalmente ho cercato di giocare con la prosa, attraverso un non-genere di mezzo, provando a mantenere la verticalità della poesia come residuo, elemento di contenimento della deformazione ipertrofica immaginativa. La poesia dunque andrebbe ricercata a monte dei testi, nella densità, velocità e libertà della visione con cui ho provato a sintonizzarmi, più che nel lavorio di post-produzione e spero che la lettura restituisca l’energia sbilenca di questa sorgente. Credo che questa modalità possa essere una risposta, laddove resista ancora il concetto di autore, più o meno nella sua forma classica – escludendo da queste affermazioni l’universo delle scritture combinatorie – per riconsiderare ironicamente sia la pratica della limatura, sia la corrispondenza dell’io con la propria presunta opera.

Ad ogni modo, in questi testi ho preferito una finta chiarezza a una costruita oscurità, quest’ultima, a mio avviso, corre sempre il rischio di scivolare nell’arbitrio e nell’autoreferenzialità, nella dissimulazione programmata, compiaciuto strumento di complicazioni gratuite. Non escludo in futuro un progetto totalmente diverso sotto quest’aspetto, una partitura resistente alle letture, che smonti diversamente il linguaggio. Intendo sempre di più il mio lavoro come una sperimentazione di forme, all’interno di una misteriosa riconoscibilità nella mutevolezza. Sulla visione del mondo che si evince dai testi, sulla presenza o meno degli altri, sulla “maturità” o meno delle posizioni affermate, per quello fortunatamente non esiste una ricetta, né un modello a cui riferirsi, un baricentro a cui guardare, si è, non si programma di essere, rivendico la possibilità di cedere al fascino del capriccio, del gioco e alle più impensate e impunibili declinazioni creative come affermazione di vita nel mondo.

PPDG