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Nelle botole della lingua: “Non essere” di Alberto Cellotto

Si intitola Non essere la nuova raccolta poetica di Alberto Cellotto, un autore che avevo già avuto modo e occasione di apprezzare precedentemente, leggendo il romanzo epistolare Abbiamo fatto una gran perdita. Quello che mi aveva colpito, in quel testo, era la qualità di una scrittura che desiderava soprattutto essere piana e quindi accogliente rispetto alla registrazione dell’esistente, pur sottolineandone le asperità e le falle, le zone di inciampo. Ecco, mi sembra che il territorio in cui ci muoviamo con questo testo sia effettivamente lo stesso, perché Cellotto, anche in questi frammenti poetici, che spesso vanno in direzione della prosa, continua la sua paziente ricerca delle cose invisibili a partire da quelle visibili. Ce lo suggerisce, del resto, già il primo testo, che apre le porte a una fenomenologia quotidiana. E difatti si apre con un verbo forte: esistono. «Esistono i cavalli vicino ai fiumi. Esistono le strade e hanno | rispetto (…)». Quello che invece non esiste più, ci dice il poeta, e ce ne meravigliamo giacché pensavamo di essere in piena epoca narcisista, sono gli specchi: ma forse l’autore si riferisce, oltre agli specchi che permettono di guardare in fondo, oltre il pelo, la superficie delle cose, anche alla questione identitaria. Perché se loro, le cose esterne, esistono, quella che forse non è, o si fa fatica a rintracciare, è l’identità: l’io del poeta, in altre parole.

La scrittura di Cellotto fa parte di quel genere di scritture che sanno attendere, aspettare che la materia del mondo vibri e quindi si presenti allo sguardo e in generale alla percezione attraverso una modalità d’esistenza minimale, quasi impercettibile, alle soglie fra essere e non essere. Così questo “non essere”, così forte anche nel titolo, ha il sapore di uno sbiadire, di un crollare lento verso spazi e dimensioni dove le cose sono e al contempo tacciono. Un passato che continua ad accadere, ma in zone liminali, nascoste, eppure misteriosamente presenti. «(…) che cosa accade se | tutto questo l’ho vissuto ancora ed ero io passato | al grigio delle mani». Il poeta, quindi, deve affondare le mani nella filigrana trasparente delle cose, presenti e passate al tempo stesso, visibili e non visibili. È uno sguardo che interroga soprattutto i rapporti, le relazioni fra le cose che esistono, e in questo la scrittura dell’autore mi sembra affine a quella di altri poeti suoi contemporanei, come ad esempio a quella di Maria Borio, soprattutto nel suo ultimo libro, che già dal titolo “Trasparenza” rivela un’affinità con la ricerca di Cellotto. In entrambe le scritture si nota la presenza del vetro (in Non essere abbondano le finestre) come elemento che permette lo sguardo, una fusione con la materia esterna al poeta che però permette anche una presa di distanza, uno sguardo laterale.

Il ruolo del poeta-osservatore, però, nella scrittura di Cellotto, talvolta lascia spazio anche all’elemento fisico, viscerale: «Finestre nell’estremo della pianura e qui rimane | alle tre della notte lo stomaco con le sue lame». Un male fisico, che attesta una presenza che va al di là della mera osservazione degli altri e del mondo esterno; un dolore pungente che sta a margine degli incontri, molto presenti in questo libro, anche se spesso “mancati”, come fa notare la prefatrice Maria Anna Mariani nelle pagine introduttive, la quale sottolinea come per esistere «bisogna ripetere, dare un surplus di materia e di energia attraverso una doppia inscrizione, che inchiodi parole e cose alle pagine». E in effetti i versi di Cellotto hanno la caratteristica, oltre a quella di saper aspettare, e di cogliere i nessi trasparenti che collegano le cose, anche di essere in un certo senso prensili, volendo ancorare il più possibile le piccole e spesso sconnesse porzioni di realtà percepita al foglio e alla pagina. Il crepuscolare vagare fra frammenti di realtà che ci sono e che “esistono”, quindi, è anche un disperato tentativo di esserci, di lasciare un’impronta nel terreno, rendendo quell’esistenza minimale e in filigrana materica, per quanto possibile, marchiante, come la cicatrice che rimaneva sulle braccia dei nostri genitori sottopostisi al vaccino contro il vaiolo: «Ah, la cicatrice del vaccino contro il vaiolo: (…) | Io non ce l’ho. L’obbligo è caduto l’anno prima | che nascessi». La smaterializzazione cui allude il poeta è certo quella dell’epoca virtuale, in cui la realtà plastica e concreta delle cose lascia spazio a rapporti invisibili, fili di materia trasparenti: di fronte a questo campo liminale, dove essere e non essere si sfiorano, la poesia di Cellotto agisce in due maniere. Da una parte si limita a registrare; dall’altra, nell’atto stesso di registrare, non può non esprimere il desiderio vitale di aggrapparsi alle cose, per fare in modo che lascino un segno.

Questo aggrapparsi può anche essere agito attraverso un altro elemento che pure provvede a caratterizzare e a dare movimento alla scrittura del poeta, innestandosi e plasmando anche la lingua: il piano in cui le cose accadono e scivolano può presentare improvvisi e inaspettati buchi, faglie aperte in cui si cade: «Hai aperto la botola e adesso posso scendere | come un fosso verso il nulla che sono, che è stato | un ponte levatoio». La lingua, seguendo queste improvvise discese, queste fessure in cui emergono dati vitali e quasi “ingombranti”, si inarca, diventano immaginifica, premendo sul pedale della velocità. «Il presente ha giostre di pupille», «lo segue poi | come aggrappata alle lentiggini sopra palpebre». Elementi vividi, cui ci si aggrappa, appunto, per sporcare il piano liscio e monotono degli eventi, il piatto darsi dei fenomeni. Queste diverse correnti, questi punti di svolta sanno dare profondità a un’opera multiforme, che proprio quando sembra sul punto di pacificarsi apre nuovi piani, scombina quanto appena messo in opera. Per questo leggere il testo di Cellotto è un’esperienza di lettura mai scontata, che prevede passeggiate in pianura, ma anche improvvisi salti, discese veloci. “Non essere” significa soprattutto essere, cercare coordinate, aspettare che la superficie delle cose venga smossa, sporcata dalla quella vita che si moltiplica e crea ancora più vita.


Alberto Cellotto, Non essere, Montecassiano, Vydia editore, 2019, 81 pp., € 10.