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La “semplice” ricetta di Safran Foer per salvare il mondo (prima di cena)

 

Se niente importa. Perché mangiamo animali (2009; Guanda 2010) di Jonathan Safran Foer, uscito ormai dieci anni fa, un libro lucido, onesto, documentato e spietato sull’industria della carne statunitense, è una delle ragioni (non l’unica) per cui sono diventato vegetariano. Abbastanza curiosamente, dato che la mia professione dovrebbe avermi dotato verso la letteratura di un gelo da anatomopatologo, tendo ad avere un debole per i libri che mi emozionano; e il libro di Foer mi aveva molto emozionato, ma non perché mi dicesse delle cose che non sapevo (tutti sappiamo cosa succede in un allevamento o in un macello, altro non fosse che il fatto fondamentale: una creatura innocente viene uccisa), ma perché me le faceva vedere. Dando voce e portando testimonianza, Foer rendeva reale ai miei occhi una cosa di cui avevo contezza, ma che nella mia esperienza del mondo ancora non esisteva: che gli animali sono esseri senzienti e che non abbiamo alcun diritto di fare loro del male. Possiamo salvare il mondo prima di cena (Guanda 2019), ultima fatica di Foer, cerca di fare qualcosa di analogo, ma per un ordine di problemi mostruosamente più complesso, e cioè il cambiamento climatico. Come in Se niente importa, Foer alterna un’esposizione scientifica rigorosa ma accessibile a dei momenti memorialistici legati alla sua vita, ai suoi figli e (come spesso nel suo lavoro) a sua nonna, sopravvissuta ucraina all’Olocausto. Chiunque può leggere questo libro con profitto, e chi voglia verificare o indagare le informazioni che contiene ha a disposizione, in fondo, le note.

Mi è stato chiesto di recensire questo libro, visto che lo avevo letto e che un po’ su queste cose ci lavoro; ma mentre mi ci dedicavo mi sono reso conto di non riuscire a scriverne senza andare sul personale, o senza divagare. C’è troppa (perdonami, lettore) carne al fuoco per riuscire a tenere tutto insieme ordinatamente; e dunque ecco una recensione che non ha la pretesa di esaurire i problemi di cui discute, e che divaga generosamente dalle pagine di Foer, perché, come del resto dimostra con ampiezza il libro in questione, è difficile parlare di certe cose senza parlare anche di tutto il resto, e soprattutto senza parlare di sé.

La tesi di Foer è abbastanza semplice, o meglio, sembra semplice perché ormai è nota: il mondo è avviato pericolosamente verso un surriscaldamento sempre più incontrollabile; il nostro margine di azione è limitato, le misure devono essere rapide e draconiane; una delle maggiori fonti di gas serra, di inquinamento del suolo e di consumo idrico è, secondo tutte le fonti più autorevoli, l’allevamento; per salvare il pianeta occorre convertirsi tutti a una dieta vegana, almeno per due pasti al giorno (donde il “prima di cena” del titolo: poi a cena vi mangiate quello che vi pare). Foer supporta il suo ragionamento con cifre, dati, statistiche e documenti ufficiali, e la sua soluzione è abbracciata dalle voci più informate e credibili dell’ambientalismo contemporaneo (come quelle espresse qui o qui).

Una delle preoccupazioni principali di Foer è trasversale in chiunque si occupi seriamente di ecologia e letteratura: che forma di narrazione si può scegliere per raccontare il cambiamento climatico? Come si sa, il cambiamento climatico è una concatenazione di fenomeni in larga parte invisibili, i cui nessi di causalità sono spesso difficilmente discernibili per i non addetti ai lavori, a cui è complesso attribuire manifestazioni direttamente percepibili, e soprattutto che avviene su scale geografiche e temporali talmente vaste da sfuggire al nostro consueto modo di pensare la storia e gli eventi. Il cambiamento climatico non è narrabile perché presenta fenomeni in cui gli umani hanno grande responsabilità come società ma piccola parte in quanto individui, e costringe a sottrarsi alle logiche tradizionali del racconto fondate su protagonisti identificabili e sulle loro parabole di peripezia e maturazione. Foer commenta così questa irrappresentabilità:

Di qui l’impulso a rappresentare i cambiamenti climatici – sempre che li si rappresenti – come un dramma apocalittico ambientato nel futuro (e non un processo variabile, progressivo, che accade nel corso del tempo) e a dipingere l’industria dei combustibili fossili come l’incarnazione della rovina assoluta (e non come uno dei vari fattori su cui soffermare la nostra attenzione). Sembra impossibile descrivere la crisi del pianeta – astratta ed eterogenea com’è, lenta com’è, e priva di momenti emblematici e figure iconiche – in un modo che sia al tempo stesso veritiero e affascinante.

Foer cerca una soluzione mediana, e svolge il suo ragionamento e il suo racconto attraverso aneddoti, esempi, metafore e stilizzati dialoghi teatrali. A volte si ha la sensazione che semplifichi troppo, altre, di trovarsi davanti a delle parabole; i momenti più toccanti del libro sono le parentesi famigliari, i ricordi commossi dei parenti defunti o sul letto di morte. Questa rete di affetti, ci dice Foer, siamo noi, e determina le persone che siamo. Siamo su questo pianeta insieme, e dobbiamo fare qualcosa tutti insieme per salvarci; perché solo insieme possiamo. Nel libro di Foer compaiono passaggi che grondano retorica, stucchevole per il lettore raffinato, ma non per questo inefficace o fuori luogo: «Nessuno se non noi distruggerà la Terra e nessuno se non noi la salverà. Le condizioni più disperate possono innescare le azioni più cariche di speranza. Abbiamo trovato il modo di riportare la vita sulla Terra dopo un collasso totale, perché abbiamo trovato il modo di provocare un totale collasso della vita sulla Terra. Noi siamo il Diluvio e noi siamo l’Arca». La soluzione proposta da Foer si colloca a metà strada tra questa ansia apocalittica e questo sentimentalismo ottimista: se tutti lo vogliamo, con la dovuta peer pressure, tra poco chi mangia carne sarà visto come chi oggi fuma al cinema – e cioè come un cretino pericoloso; se non lo faremo, il nostro mondo finirà.

Ancora, nel cambiamento climatico non ci sono buoni e cattivi, ma solo innumerevoli individui con vari gradi di responsabilità e varie scuse, perché, per quanto variamente declinata in termini individuali, la responsabilità del surriscaldamento globale è prima di tutto collettiva, sociale. Uno dei rischi di discutere della risposta al cambiamento climatico è di farne una questione di masse buone & raggirate contro multinazionali e corporazioni malvage che inquinano il pianeta: uno schematismo non necessariamente sempre falso, ma che toglie agenza all’individuo e lo deresponsabilizza. Se è colpa della General Electric, non può essere anche colpa mia! Invece, a differenza di molti altri testi sull’argomento ma sempre senza ignorare la responsabilità della grande industria energetica, Foer ha l’intelligenza di proporre riflessioni e soluzioni che riguardano noi come singoli. Il karma, del resto, è individuale, non collettivo.

La postura apocalittica e le semplificazioni retoriche non possono che ricordarci gli eventi della cronaca recente, tra l’accorato discorso di Greta Thunberg alle Nazioni Unite e il moltiplicarsi dei climate strike. La retorica da invasati che popola la mia home su Facebook, per esempio («Greta ci salverà! Puniscici, Greta, assolvici, perché abbiamo peccato, ma ora finalmente vediamo!»[1]), mi fa venire voglia di imbracciare un’accetta e di andare a disboscare l’Amazzonia in prima persona; ma a infastidirmi, appunto, è la retorica, e non Greta o le manifestazioni. Io non ho mai avuto un’indole particolarmente barricadiera, ma immagino che scendere in piazza sia una bella cosa; già il fatto che si parli così tanto di questi argomenti è un effetto non secondario della mobilitazione di tante persone. Resta il fatto, però, che le manifestazioni sono eventi episodici ai quali spesso non corrisponde (o almeno questo è quello che noto, aneddoticamente, tra molti dei miei conoscenti che vi partecipano) nessuna vera modifica negli stili di vita. Si può esibire un cartello arguto (tra pochi anni non ci sarà più ghiaccio per fare lo spritz!) e fare bella figura, e intanto continuare a fumare, a mangiare carne, a consumare come prima. I gesti eclatanti aiutano ma non bastano. Giorgio Biferali, in questa sua curiosa recensione, ci dice che Foer è uno dei suoi scrittori preferiti e che ha perfettamente ragione a suggerire di mangiare vegano; poi ci dice anche che lui non è mai stato vegetariano, anche se sarebbe una bella cosa – come manifestare, del resto.

Ecco, rispetto a iniziative che, per quanto encomiabili, spesso si limitano al puro slacktivism, o che propongono modelli di purezza francamente inarrivabili[2], Foer ha l’accortezza di proporre una soluzione semplicistica finché si vuole, ma credibile e praticabile senza eccessiva difficoltà. Allo stesso tempo, a volte, si ha l’impressione di trovarsi davanti a quelle pubblicità progresso che ci perseguitano tra gli influencer di Instagram o le pagine progresso di Facebook – le parole d’ordine si inseguono, bisogna smettere con la plastica, coi voli aerei, con i pacchi Amazon, con l’avocado, con la carne… Con questo semplice trucco, ci dicono, puoi salvare il pianeta senza cambiare il tuo stile di vita! Non è meraviglioso? E non è estenuante questo nostro bisogno di essere assolti per la vita che facciamo? E non è patetico come cerchiamo di attaccarci al primo trucco che ci permette di pulirci la coscienza? Del resto, qual è l’alternativa? Pensare che non stia accadendo nulla, o pensare che sia già accaduto l’irreparabile? In entrambi i casi, la risposta sarà che non vale la pena di fare assolutamente niente. E allora ben venga anche l’idea che si può salvare il mondo prima di cena.

Ho letto il libro di Foer su consiglio (e cioè su imposizione) dei due reviewer di un articolo, come si dice, scientifico che ho scritto su William T. Vollmann, che lo scorso anno ha dato alle stampe i due volumi di Carbon Ideologies: No Immediate Danger e No Good Alternative (il classico migliaio di pagine cui è uso WTV). Il libro di Vollmann è significativamente più indigeribile di quello di Foer, zeppo com’è di calcoli e dati scientifici (per centinaia di pagine!) e di aneddoti molto meno edificanti e sapidi di quelli del suo collega, raccolti intorno ai cinque ambiti di produzione energetica e relative zone geografiche in cui è diviso il libro (il nucleare, che Vollmann tratta in un reportage nella Fukushima post-disastro, il carbone in West Virginia, Kentucky e Bangladesh, il gas naturale e la pratica del fracking in Colorado, e il petrolio in Messico, California, Oklahoma, Emirati Arabi Uniti). Vollmann adotta un procedimento molto simile a quello utilizzato da Foer – il racconto del cambiamento climatico e della sua multiforme complessità può passare solo attraverso una collezione di aneddoti, di storie raccolte in prima persona: «Come potevo rappresentare questa sinistra confusione di conseguenze se non come un insieme di storie frammentarie?» (vol. 1, p. 189). Allo stesso tempo, però, Vollmann è decisamente più pessimista di Foer – «Niente può essere fatto per salvare [il pianeta]; dunque, non c’è bisogno di fare niente. Quindi questo piccolo libro gratta la superficie del problema senza offrire soluzioni. Non ce n’erano; non ne avevamo» (vol. 1, p. 3).

Vollmann, del resto, non menziona l’allevamento né il vegetarianesimo; e c’è un certo compiacimento nel suo pessimismo, come dimostrano le numerose e gustose parti in cui indulge in descrizioni del futuro post-apocalittico della Terra. Probabilmente la soluzione prospettata da Foer gli sembrerebbe ingenua, quasi bambinesca. Io, al contrario, credo che Foer abbia ragione a dire che fare due pasti vegani su tre potrebbe aiutarci a salvare il pianeta. Del resto, si tratta di un obbiettivo perfettamente raggiungibile, ad averne voglia; il problema è che quasi nessuno ne ha voglia, e che quasi nessuno ne sente il bisogno; manifestare è più semplice, perché impiega un pomeriggio soltanto. Poi, certo, di nuovo: sempre meglio farlo che non farlo. E tuttavia.

C’è un’altra cosa che mi ha un po’ disturbato nella lettura, e che in fondo mi turba di questo cauto ottimismo del suo autore; e anche se non può essere diversamente, perché Possiamo salvare il mondo vuole proporre una via praticabile per tutti senza sforzi eccessivi, e dunque deve invogliare il lettore non a diventare un santo, ma a fare un piccolo sforzo, non sono riuscito a non rimuginarci su. Questa cosa è la visione utilitaristica che si dà del vegetarianesimo/veganesimo. Una delle cose che mi ha più impressionato del libro di Foer sono state, più che i ragionamenti, le pagine di cifre e nudi dati che sciorina a circa metà libro. Anche la laconicità è una strategia retorica, ovviamente, ma saperlo non la rende meno efficace. Per esempio:

A livello globale, l’umanità sfrutta il 59 percento di tutta la terra coltivabile per crescere foraggio per il bestiame. • Un terzo di tutta l’acqua potabile usata dall’uomo è destinata al bestiame, mentre un trentesimo appena è utilizzata nelle case. • Il 70 percento degli antibiotici prodotti nel mondo sono utilizzati per il bestiame, e riducono l’efficacia degli antibiotici nel curare le malattie umane. • Il 60 percento di tutti i mammiferi presenti sulla Terra sono animali allevati a scopi alimentari.

Questi dati, la cui fonte è verificabile nelle note a fine libro, li riporto sia perché sono efficaci, appunto, sia per sottolineare (anche a uso e consumo di chi si ostina a linkare quel vergognoso articolo di The Vision di qualche anno fa) che la proposta di Foer non è campata per aria, wishful thinking da attivisti benauguranti, ma che è radicata in evidenze concrete e in dati puntuali.

La frase che mi ha colpito più di tutte, nel volume, è stata questa: «Attualmente, in qualunque momento ci sono ventitré miliardi di polli vivi sulla Terra. La loro massa totale è superiore a quella di tutti gli altri volatili del nostro pianeta. Gli esseri umani mangiano sessantacinque miliardi di polli all’anno». Ho dovuto guardare su Google se era un calcolo esatto o un errore di traduzione: è un calcolo esatto. Sessantacinque miliardi di polli l’anno (solo di polli! E solo in un anno!) è una cifra semplicemente fantasmagorica, priva di senso nella sua atroce vastità; è anche una cifra vera, che nasconde un massacro vero come me che scrivo, e perennemente in corso.

Paradossalmente, l’equivoco messo in atto dal libro di Foer è che non mangiare carne sia importante perché salva l’ambiente, quando invece è importante perché salva gli altri esseri viventi – e dunque noi stessi attraverso di loro, come sapeva bene Elizabeth Costello. Se niente importa, il libro di Foer sull’allevamento, prendeva il suo titolo da questo aneddoto degli anni di guerra, raccontato dalla nonna dell’autore: «Il peggio arrivò verso la fine. Moltissime persone morirono proprio alla fine, e io non sapevo se avrei resistito un altro giorno. Un contadino, un russo, Dio lo benedica, vide in che stato ero, entrò in casa e ne uscì con un pezzo di carne per me”. “Ti salvò la vita”. “Non lo mangiai […] Era maiale. Non ero disposta a mangiare maiale”. “Perché? […] Perché non era kosher?”. “Certo”. “Ma neppure per salvarti la vita?”. “Se niente importa, non c’è niente da salvare”». Non arriverò a chiedermi che importa, in fondo, di salvare un pianeta in cui si macellano sessantacinque miliardi di polli l’anno, perché sarebbe di cattivo gusto; ma vale la pena di riflettere, quello sì, sul legame tra le logiche concentrazionarie che regolano l’allevamento alla smania di dominio e di consumo che ha condotto al surriscaldamento globale. Il veganesimo prima di cena potrebbe forse allontanare l’irreparabile, ed è una soluzione alla portata di tutti; ma in realtà bisognerebbe avere il coraggio di pensare a un mondo diverso.

 

Rileggendomi, mi rendo conto che, rispetto al mio solito, questo pezzo pullula di domande retoriche, espediente che mi è antipatico quanti altri mai; e non posso non pensare che questa enfasi interrogativa altro non sia che una manifestazione letteraria, per così dire, dell’impotenza in cui ci (mi) relegano i discorsi intorno al clima. Il cambiamento climatico è un fenomeno concettualmente e praticamente incontrollabile, le reazioni che richiede sono drasticamente contrarie al nostro modo di vivere; non parliamo d’altro, non facciamo altro che dirci cosa dovremmo fare, e falliamo ogni volta che si tratta di farlo. Come si chiede Vollmann chiacchierando con Chris Hamilton, vice-presidente della West Virginia Coal Association, come posso chiamarmi ambientalista e vivere come vivo? A maggior ragione, dunque, il libro di Foer è significativo, perché si sforza di essere propositivo e di suggerirci come agire immediatamente e in privato per arginare le conseguenze di qualcosa che si prospetta catastrofico; a maggior ragione, è verosimile che non servirà a niente.


 

[1] «Greta piange e tutti piangono. E tu, perché non stai piangendo?», commenta serafico e geniale il fu Bispensiero.

[2] Per esempio, a proposito dell’imperativo di limitare i voli: se Sua Altezza il principe Pierre Casiraghi sta leggendo queste pagine, e non ho ragione di pensare che non possa essere così, vorrei chiedergli la cortesia, visto che ora vivo in Canada, di darmi uno strappo in veliero quando rientro a casa per Natale.


Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo prima di cena (perché il clima siamo noi), Guanda, Milano 2019, 320 pp. 18,00€