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La letteratura crudele di Curzio Malaparte. Il saggio di Franco Baldasso

Quando ricordo Malaparte sento un soffio di freschezza, di apertura mentale e di gioia che mi rallegra e mi conforta. Sono contento d’esser stato suo amico e d’averlo aiutato. Son contento che sia stato mio amico e che mi abbia salvato. I suoi peccati m’ispiran simpatia, mentre le virtù di altri mi danno fastidio.

Sono parole di Giuseppe Prezzolini che, pur nell’alveo dei toni partigiani dell’amicizia, introducono così bene all’eredità letteraria dell’opera (e del personaggio) di Curzio Malaparte.
Tradotta, letta, studiata in molti paesi del mondo eppure tuttora protagonista di un destino lacerato e controverso in Italia: così, in estrema sintesi, ci si potrebbe riferire all’opera di Malaparte, nato Kurt Erick Suckert a Prato il 9 giugno 1898 e morto a Roma il 19 luglio 1957. E non basta che tutti i suoi libri siano in via di pubblicazione presso Adelphi, cioè un editore che, almeno da noi, solitamente mette d’accordo quasi tutti. Sembra infatti che su Malaparte insista il disinteresse se non lo stigma dell’accademia, il silenzio dei libri di testo, persino una sintesi discutibile e sbrigativa nella voce della “Garzantina” della letteratura, la quale resta un buon barometro di ciò che meglio aleggia nei depositi del passato. Tuttavia su Malaparte non manca l’interesse dei lettori, se è vero che i suoi libri continuano ad essere dei successi quando letti alla radio (e non è affatto facile proporre la lettura integrale di un’opera in radio) e se continuano ad essere venduti e letti anche oggi, dopo aver venduto moltissimo in passato. E i libri su cui si sofferma il saggio che andremo a presentare furono veri best seller internazionali, tra altri suoi titoli che ebbero eco nell’intero continente europeo, fino alle stanze dei bottoni: Hitler, Trockij e chiaramente Mussolini sapevano bene chi fosse costui, sin da quando, nel 1931, un libello dal titolo Technique du coup d’État uscì a Parigi e finì nelle cancellerie di mezza Europa – e già dieci anni prima, con un titolo come Viva Caporetto!, presto mitigato in La rivolta dei santi maledetti, il pratese non era certo passato inosservato. Nel pamphlet del 1931 Malaparte dimostrava come lo stato moderno, al centro dell’attenzione anche di altri politologi e giuristi come Schmitt e Kelsen per tutti gli anni Trenta, fosse sostanzialmente smontabile e attaccabile dal di dentro. Insomma, già in questo libro l’apparato e la burocratizzazione della modernità apparivano protagonisti in nuce nella sua prosa.

Tornando alla sua eredità, pare che se si vuole parlare di Malaparte in Italia occorra prima fare molti preamboli e precisazioni (un po’ quello che, stando al gioco, sto facendo anch’io), che distinguano l’opera dalla biografia, i singoli libri e le sue uscite, l’attività eccezionale di giornalista dal trasformismo di cui si rese protagonista. Ma non sarà lo stesso trasformismo, oggi riconoscibile definitivamente come più arido d’analisi e meno fecondo di conseguenze, che impregna l’operato di tanti suoi detrattori sparsi proprio tra accademie, partiti, movimenti, redazioni oppure, più semplicemente, quel trasformismo che orienta la produzione dei freelance della cultura? E poi, non ci eravamo detti che degli scrittori, alla fine, contano solo le opere? Non ci eravamo detti “Drieu, Céline e Brasillach in Francia?” o “Hamsun e Pound?” eccetera?

Inizialmente sembra non fare eccezione a questo quadro il recente saggio di Franco Baldasso pubblicato da Carocci e intitolato Curzio Malaparte la letteratura crudele. Kaputt, La pelle e la fine della civiltà europea (pp. 120, euro 13). Lo studio coglie l’abbrivio dal giudizio di Kundera rintracciabile nella raccolta di scritti Un incontro, pubblicata nel 2009 non a caso dallo stesso Adelphi, editore che ama e promuove spesso questi rimandi interni del proprio catalogo – e basti pensare anche al ritratto di Malaparte contenuto in Anatomia dell’irrequietezza di Chatwin. Così si esprime lo scrittore ceco circa la capacità di lettura di Malaparte di un intero continente intravisto statu nascenti:

La nuova Europa uscita dalla seconda guerra mondiale viene colta nella Pelle in tutta la sua autenticità; cioè da uno sguardo che, non alterato da considerazioni a posteriori, ne rivela l’abbagliante novità nell’istante stesso della sua nascita.

Il libro di Baldasso, anche in virtù della sua brevità, non indugia in distinzioni anodine e non utilizza il giudizio sopra riportato per cercare l’appoggio comodo di un ipse dixit, ma isola una parte calda del ragionamento di Kundera per addentrarsi nell’analisi dei romanzi principali ricordati dal sottotitolo e compiere infine un’inedita incursione nell’unica opera cinematografica dello scrittore pratese, Il Cristo proibito del 1951 (chi volesse vedere anche quali innovazioni filmiche e di fotografia mise in opera Malaparte regista, trova il film integrale su Youtube: già le prime inquadrature dicono molto).
Per compiere quest’analisi tripartita, che sostanzialmente costituisce l’impalcatura del saggio di Baldasso, è necessario spendere alcune parole sulla “letteratura crudele” di cui ci parla il titolo. La “letteratura crudele” potrebbe rimandare alla coeva crudeltà vista nel teatro artaudiano, ma in realtà appare più come rielaborazione del tremendo portato della crisi degli anni Trenta, con una visione che precorre i tempi:

Di fronte alla guerra totale, la crudeltà a cui lo scrittore si riferisce diventa un compito intellettuale: è la responsabilità di rappresentare ed elaborare in forma artistica l’abiezione morale che con il conflitto mondiale stava invadendo l’Europa. Su questa strada ogni tentativo di un ulteriore moralismo sarebbe sembrato falso e retorico.

Davanti agli orrori, il farsi della letteratura di Malaparte, più che opportunista – come quelli che, convinti di stare sempre dalla parte giusta e forse più opportunisti di lui, gli criticheranno – diventa piuttosto inopportuno, rifugge ogni “ritorno all’uomo”, la forza devastante del potere tecnocratico e del genocidio burocratizzato. Da qui proviene la collocazione dei romanzi maggiori approfonditi da Baldasso, Kaputt (1944) e La pelle (1949), in quelle ambientazioni allucinanti e agghiaccianti che abbiamo imparato a riconoscere; qui la lotta collettiva è anche al contempo individuale, tanto individuale che sbocca sovente nel richiamo di figure cristologiche di sacrificio – in questo punto avviene l’innesto di un parallelismo tra Malaparte e il René Girard di La violenza e il sacro e Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo.

Ma non c’è soltanto la coppia formata dai due romanzi maggiori, ormai un’endiadi consolidata, e la felice incursione sul film del 1951 a sostanziare questo saggio. L’autore trova infatti il passo per incunearsi nella penombra di quell’opera meno nota eppure fondamentale che è Das Kapital. La prima di questa pièce teatrale in tre atti del 1949 avvenne a Parigi, davanti a un pubblico prevenuto che non perdonò l’affronto di quell’italiano presuntuoso che si faceva rappresentare nella loro capitale. Il dramma, che secondo il biografo, saggista e diplomatico Maurizio Serra è invece tra le sue opere più riuscite, è ambientato a Londra e nell’analisi di Baldasso appare come “un attacco frontale non solo alle fondazioni ideologiche del marxismo ma anche alla società borghese […]”. Ci presenta un inedito Marx-inetto nella vita di tutti i giorni, messo a nudo nella propria totale incapacità, con effetti tutt’altro che comici ma strazianti. Il dramma del 1949, che potrebbe rappresentare un’interessante curvatura dell’opera malapartiana globalmente intesa, rappresenta anche un ponte nella stessa struttura di questo saggio, se è vero che

L’incontro violento tra le esigenze dell’astrazione politica e quella che per il singolo individuo è la vita di tutti i giorni è rappresentato in tutta la sua tragica incommensurabilità. La forza devastante di tale conflitto genera tutta una serie di aporie che le politiche rivoluzionarie affacciatesi sulla modernità non sono riuscite a risolvere: lo scontro tra la pianificazione totalitaria della vita umana e il residuo biologico di quest’ultima che resiste a ogni normatività, la contraddizione tra il mito di una rinascita dell’umanità e la continuità creaturale dell’esistenza in tutte le sue forme.

Residuo biologico e pianificazione totalitaria, continuità creaturale/sacrificio e normatività e, aggiungiamo, l’agambeniano concetto di nuda vita di fronte alla devastazione bellico-tecnologica che prosegue oggi sotto altre mentite e mententi spoglie: sono queste alcune delle coppie e degli assi nei quali s’intravede l’incommensurabilità di cui ci parla da vicino oggi la scrittura malapartiana e nei quali si incardina questo breve e documentato saggio.
Il libro di Baldasso si srotola attraverso le date più significative delle opere maggiori, senza però dimenticare quelle altrettanto significative di opere quali la raccolta di scritti giornalistici Il Volga nasce in Europa (1943) o Mamma marcia (1959). Quest’ultimo libro, postumo, sin dal titolo riecheggia la domanda fondamentale che Malaparte eredita dagli esordi del suo fare letteratura, senza abbandonarla mai: perché e come le società marciscono? La “mamma marcia” del libro-confessione del 1959 è l’Europa, evocata anche nel sottotitolo di questo saggio. E uno spunto per tornare a Malaparte, scrittore davvero europeo se non mondiale, potrebbe essere una maggiore consapevolezza in tutto quel gran parlare che si fa oggigiorno sull’Europa, sulla sua posizione nel mondo, sul suo destino (e ricordiamo le già citate parole di Kundera, allora). Ed è curioso come l’inquadratura dell’opera malapartiana si restringa via via: Kaputt è un grandangolo portentoso sull’occupazione nazista nel continente, La pelle stringe l’inquadratura su un’Italia liberata dagli alleati, il film Il cristo proibito, dopo un inizio panottico, quasi fosse girato con un drone, si cala nella realtà toscana del paese natale di Bruno, il protagonista che torna dalla guerra. In questa pellicola

la tragedia moderna è rappresentata dall’impossibile incontro tra escatologia cristiana e impossibilità di ogni redenzione nella storia umana […]. L’ulteriore intuizione di Malaparte è che nel mondo postumanistico, in cui la tecnologia è il soggetto della storia, nessun discorso etico può evitare di comprendere la vita creaturale nella sua analisi.

Si tratta di un percorso che prende le mosse da quella antichità dell’uomo di cui ha scritto Günther Anders, dalla “vergogna prometeica” avvertita dall’uomo di fronte alla perfezione e alla potenza delle proprie creazioni tecnologiche. Declinato in regia, l’esito diventa un sorprendente superamento del credo neorealista, “una realtà cinematografica alternativa capace di rimettere in circolo l’arcaico per interpretare il presente”, un superamento persino delle maschere e dei travestimento de La pelle, che nel film diventano “maschere reminiscenti di Goya” e quindi figure totemiche. Il film diventa ponte per il capitolo conclusivo del saggio, nel quale si torna a parlare del rapporto con il divino e il sacro, spesso espunto dall’uomo moderno, eppure importante, ad esempio, ne Il ballo al Kremlino. (Materiale per un romanzo) ripubblicato da Adelphi nel 2012, dopo un’edizione Vallecchi del 1971.

È un divino che Malaparte aveva appositamente fatto arretrare nella sua critica alla teologia politica dei totalitarismi e che pure riemerge ovunque si rivolga lo sguardo. Ed è questo invito, unito alla centralità della questione tecnologica, che dovrebbero spingerci verso l’opera di Curzio Malaparte, in un frangente storico in cui questo confronto e studio si rende, secondo le parole di Baldasso, “politicamente necessario”. E se verso la conclusione dobbiamo affidarci a un affiancamento di figure intellettuali, più che Malaparte come “gemello diverso di Carlo Levi” (così Matteo Marchesini su “doppiozero”), diventa suggestivo e più promettente l’accostamento Malaparte-Pasolini proposto nelle conclusioni di questo saggio.


Franco BaldassoCurzio Malaparte la letteratura crudeleKaputtLa pelle e la fine della civiltà europea, Roma, Carocci, 2019, pp. 120, € 13.