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Il fuoco dell’astrazione. Un saluto a Rubina Giorgi

Ancora vi interessano i problemi della realtà? Il linguaggio è dio

(J.R. Wilcock, L’agonia di Luisa)

 

«Dall’umile e mite Jakob si esprime un pensiero di potenza. Potenza prismatica, e ricca di vitale movimento». Queste parole che Rubina Giorgi usa per descrivere, nel suo ultimo libro pubblicato in vita Jakob Böhme : il corpo in Dio e nell’uomo, l’opera e l’attività del teosofo Jacob Böhme, si attagliano altrettanto bene a qualificare questa donna, scomparsa il 14 luglio 2019. Umile e mite era la sua figura, ma potente e vitale è il suo pensiero. Questo cambio repentino dell’uso del verbo essere dall’imperfetto al presente non è casuale, perché esiste una strana legge segreta che governa l’esistenza. Donne, uomini e persino gli dèi muoiono, ma le idee umane o divine continuano a vivere malgrado lo sfascio generale di cielo e terra. Forse questo movimento mentale che sopravvive ai corpi è l’unica cosa che conta, dentro la grande necropoli dell’universo.

Specialista di filosofia del linguaggio e di estetica, poetessa, scrittrice, Giorgi si era sostanzialmente mossa nella sua vita intellettuale all’interno di un paradosso. Il fine della sua concezione filosofica e poetica può essere individuato, infatti, nell’accensione del «fuoco o desiderio dell’astrazione». Un’inevitabile contraddizione pare annidarsi in tale espressione, stando almeno alla visione del senso comune. Il fuoco e il desiderio sono caldi, fisici, inceneritori, mentre l’astrazione è fredda, mentale e costruttiva. L’espressione sembra dunque mescolare due opposti che in natura e nel pensiero si annullano a vicenda. La neve si scioglie a contatto col fuoco e i castelli dell’astrazione vengono distrutti dalla forza dirompente del desiderio. Come spesso accade, però, la contraddizione esiste solo entro un ottuso modo di classificare e concettualizzare la realtà, che figure umili e miti ma potenti come Giorgi scuotono alla radice. La sua concezione del «fuoco o desiderio dell’astrazione» è un chiaro caso di dimostrazione di coincidenza degli opposti, raggiunta tramite la comprensione di come funzionano il pensiero e il linguaggio.

Il punto centrale che Giorgi elabora al riguardo – in dialogo soprattutto con Leibniz e nel volume Note sul tema del possibile – è che l’astrazione intellettuale e linguistica è un’attività di tipo simbolico. “Simbolo” va qui inteso come un atto linguistico di significazione attraverso cui la mente ritaglia il mondo e si avventura alla scoperta della realtà. Ogni parola, figurazione linguistica, proposizione è dunque un’ipotesi euristica o una congettura. Nominare una cosa, formulare teorie a partire da alcuni dati, scrivere una poesia, tradurre un enunciato da una lingua a un’altra sono tutti atti mediante cui la mente astrae linguisticamente alcuni sensi «possibili» o «potenzialità» della realtà e degli enti che la costituiscono. Le parole non sono allora nomenclature, quasi etichette che dicono una volta per tutte che cosa siano le cose nominate e quali siano le loro proprietà. Esse sono invece astrazioni che generano uno spazio o un fascio di relazioni mutevoli, che si arricchiscono di nuovi sensi «possibili» o «potenzialità», quanto più si creano nuovi simboli o si affinano quelli già esistenti. Linguaggio e mente sono così correlati, tanto che studiare le parole significa rintracciare gli eventi mentali che le sottendono e indagare l’intelletto implica capire come il linguaggio riflette su se stesso. L’astrazione linguistica di cui parla Giorgi è, in conclusione, un’epistemologia.

Più precisamente, ogni simbolo attua un duplice movimento: uno di delimitazione e uno di «illimitazione». Prendiamo un enunciato scientifico come l’equazione che descrive la caduta dei gravi e uno poetico quale il verso dantesco «Nel mezzo del cammin di nostra vita». In entrambi i casi, si sta contemporaneamente delimitando un oggetto di studio (= la gravità, la durata dell’esistenza) e spalancando un fascio di potenzialità ancora inespresse di questo stesso ente studiato, vale a dire delle zone d’ombra o aspetti che ci sono ancora ignoti. L’equazione della caduta dei gravi apre ad esempio al problema ulteriore di come correlare questo fenomeno ad altri enunciati scientifici (e.g., l’entropia), mentre il verso «Nel mezzo del cammin di nostra vita» sollecita a chiedersi dove questo “cammino” stia andando e perché esso debba procedere necessariamente in avanti, invece di interrompersi o persino di tornare indietro. L’astrazione simbolica che viene attuata da questi atti linguistici è allora per sua natura delimitante-illimitante. Non ha mai luogo un moto che delimita e basta, perché anche le parole più semplici e comuni contengono dei tratti oscuri, né un moto che fa solo cadere in un abisso senza confini, perché quando discutiamo di nozioni complesse come “infinito” o “spirito” abbiamo comunque almeno una vaghissima idea di che cosa significhino: altrimenti, non saremmo stati all’origine capaci di nominare queste entità.

Posto allora che il linguaggio è delimitante/illimitante, il problema che Giorgi si pone sul piano sia estetico che etico (oltre che epistemologico) è come distinguere e favorire procedure astrattive che cercano di allargare lo spazio del «possibile», piuttosto che di restringerlo. La scienza corre da questo punto di vista il rischio dell’eccesso di delimitazione: un enunciato scientifico riduce di norma gli spazi della significazione e le zone d’ombra, ritenendo rilevanti solo quelle proprietà del fenomeno che permettono di costruire una dottrina coerente e perfetta. La poesia e la filosofia si volgono invece più verso l’illimitazione. Le astrazioni di poeti e filosofi presentano figurazioni linguistiche non del tutto chiare e definite, con ampi margini di errore e di arbitrio, dunque sono meno rigorose della scienza, ma in positivo attuano un movimento che cerca di portare alla luce molte più potenzialità inespresse degli oggetti indagati e destano il desiderio di spingersi oltre i nessi usuali, per trovarne di ignoti o persino di inauditi. Quanto più dunque un enunciato filosofico e poetico è raffinato, tanto più si attua un processo di rarefazione dei significati consueti e di apertura verso lo sconfinato, che a sua volta procura il grande piacere di avanzare in una conoscenza che resta sì imperfetta, ma anche senza fine (cfr. qui Una vita imperfetta di Giorgi). Poesia e filosofia rivelano così la natura sensuale o erotica del linguaggio: il suo potenziale generativo e propulsivo.

Si vede qui bene come Giorgi distrugga del tutto la separazione del senso comune tra astrazione e desiderio. Infatti, il movimento astrattivo che è attuato da poeti o filosofi accende l’eros, anzi rende più intenso e sensuale il processo stesso della conoscenza. Conoscere diventa un’esperienza fisica e intensa come l’innamoramento, perché anche nello spazio della relazione erotica si dà un percorso di continua scoperta, di svelamento reciproco, emergenza di potenzialità finora inespresse (cfr. in merito almeno La vena nascosta). L’atto astrattivo della poesia e della filosofia è poi paragonato a un fuoco perché “brucia” le significazioni domate, pacifiche o troppo delimitate dal modo di esprimere / pensare usuale, oppure ravviva la loro sensualità latente con lo smuoverne la cenere, al fine di spingere sempre più avanti il limite del pensiero e del linguaggio. Il concetto è espresso al meglio in un estratto del libro Alla ricerca delle nascite (lingua e manìa) del 1978, in cui Giorgi descrive chiaramente il caldo generatore delle astrazioni poetiche: «Se la forza roteante accende il fuoco, si può iniziare sulle parole spente una pressione rotatoria che levi il loro fuoco e a questo stesso fuoco le bruci. E ci bruci. Questo fa l’astrazione, questo fanno i poeti quando sciolgono con furia opachi incantamenti. Ci vuole ira per rifare il fuoco. Quest’ira non è una scienza, ma un’arte delle parole esplose, delle nascite latenti, dell’amore».

Naturalmente, un’implicazione della filosofia estetica e del linguaggio di Giorgi è lo sconfinamento nel misticismo, o ancora meglio in un’erotica misticheggiante (cfr. infatti il testo Che farò senza il mio Ben: cervello, filosofia, mistica). Il desiderio innescato dal fuoco dell’astrazione procura, infatti, il bisogno di generare qualcosa di diverso da sé, che ad esempio si estrinseca nella creazione di poesie per il poeta e nell’argomentazione per il filosofo. Esso determina però, insieme a questa tensione attiva alla generazione, anche una disposizione passiva al riempimento. Il pensiero e il linguaggio incendiati dall’astrazione poetica scoprono di essere manchevoli o vuoti, dunque un nulla, ma proprio per questo desiderano qualcosa che li abbracci e li fecondi. Non è allora un caso che sempre nel libro Jakob Böhme: il corpo in Dio e nell’uomo – che in realtà sviluppa in forma più sistematica degli spunti già presenti in testi precedenti, tra cui La riflessione simbologica del 1968 – Giorgi si spinga al punto da ravvisare un sottofondo mistico e originario di questa dinamica erotica. Il mondo è Dio e Dio è l’Ungrund, o il Senza-fondo di Böhme che Giorgi fa coincidere con il nulla cosmico. E la divinità è spinta, per colmare la sua nullità, a generare ogni cosa. In un certo senso, dunque, il linguaggio e il pensiero che tentano un avanzamento conoscitivo infinito cercano il divino, o più precisamente il divino che è nell’umano. Non solo, essi ricreano quello che era stato originariamente creato dalla divinità, dunque operano una seconda nascita e una seconda creazione. Il fuoco dell’astrazione può essere pertanto definito come un processo di assimilazione a Dio, anzi di riconoscimento che il nostro stesso linguaggio e il nostro stesso pensiero sono Dio.

Molti dettagli o precisazioni sull’opera e sul pensiero di Giorgi potrebbero essere ancora ricordati, in particolare sul carattere “incendiario” della poesia e sull’emozione dell’ira. Il lettore interessato a studiare meglio questo aspetto è in particolare invitato a consultare il già citato Alla ricerca delle nascite, così come il volume di prossima pubblicazione Vite desideranti. Vorrei però concludere individuando un grande ospite segreto, e tuttavia molto presente, nella sua riflessione. Quando Giorgi parla della poesia, non ha in mente soltanto quella mistica e lirica, con frequente riferimento a Dante, Novalis e Dylan Thomas, per citare alcuni tra i suoi autori preferiti (a lungo studiati, ad esempio, in Dante e Meister Eckart: letture per il tempo della fine). Allude anche – sia pure in modi non sempre espliciti – al teatro, che ebbe modo di frequentare e di influenzare dialogando con compagnie come Magazzini Criminali, Societas Raffaello Sanzio, Sperimentale Teatro A, Teatro Rebis. Su questo versante, tuttavia, i suoi scritti risultano silenti, nel senso che nessuno di loro indaga mai i processi astrattivi di tipo teatrale. Anche il teatro è infatti forse un’astrazione che accende il desiderio, seppure diverso dall’astrazione linguistica che ha luogo con la scienza, con la filosofia e con la poesia.

Se dunque rendere omaggio a un’autrice morta nel corpo – ma ancora viva nelle idee e nello spirito – significa soprattutto proseguirne l’opera ed estendere l’applicazione ad altri problemi o ambiti, bisognerebbe provare a capire di più che cosa Giorgi avrebbe potuto ricavare da un’indagine estetica dei processi astrattivi di tipo teatrale. Mi pare che due piste potrebbero essere al riguardo promettenti. Da un lato, il teatro fa astrazione, più che del linguaggio, del tempo e del movimento. Un attore prova, in altri termini, a esplorare le potenzialità inespresse del ritmo e dell’azione. Se infatti il tempo e il movimento procedono nella vita secondo modi pigri e collaudati, sulla scena essi sono spinti fino al loro limite espressivo e arrivano a sprofondare in una forma molto concentrata, che rasenta la purezza. Dall’altro lato, l’astrazione del teatro estende la portata dell’incendio del pensiero e del linguaggio, portando all’avvampare dei corpi. Spettatori e attori radunati di fronte al mistero della scena si trovano di colpo a costituire un’entità unica e una materia compatta, priva di differenziazioni. Il respiro e la percezione di chi partecipa al teatro diventano forse collettivi per un istante. I corpi molteplici si fondano in uno e spasimano per una bellezza che non si trova nella vita, ma fa la sua fugace apparizione sulla scena.

Si tratta di un altro modo per sottolineare che il fuoco dell’astrazione di cui parla Giorgi ha una logica che si adatta bene anche al teatro. Come la poesia è un modo per far riemergere la carica erotica dalle ceneri delle parole, così forse anche l’arte teatrale è un processo che restituisce erotismo al tempo, al movimento e ai corpi abbattuti dalle molte miserie dell’esistenza concreta, dalle nostre quotidiane tristezze.


 

Bibliografia selezionata di Rubina Giorgi

La riflessione simbologica, Lerici, Roma 1968

Note sul tema del possibile: con una riflessione sul possibile leibniziano, La Nuova Foglio, Pollenza-Macerata 1974

Alla ricerca delle nascite (lingua e mania), La Nuova Foglio, Pollenza-Macerata 1978

Dante e Meister Eckart: letture per il tempo della fine, Ripostes, Salerno-Roma 1987

Una vita imperfetta, con una presentazione di Sandro Lombardi, Ripostes, Salerno-Roma 1997

Che farò senza il mio Ben: cervello, filosofia, mistica, Ripostes, Battipaglia 2011

La vena nascosta, Marcus, Quarto 2014

Jakob Böhme: il corpo in Dio e nell’uomo, La finestra, Lavis 2017

Vite desideranti, Ripostes, Battipaglia, di prossima pubblicazione