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Il calcio come metafora: “Elogio della finta” di Olivier Guez

Quanto è probabile che un bambino francese di otto anni, incollato al televisore per sostenere la nazionale di Platini, finisca per innamorarsi di Sócrates e Zico? Niente di più facile, sostiene Olivier Guez: al primo mondiale, come è noto, non si sfugge. Attraverso un titolo ad effetto, che è un tributo a Henri Laborit e alla fuga, più che alla follia, l’autore riconsegna la retorica della narrativa sportiva alla sua accezione più positiva: con il suo Elogio della finta (Neri Pozza, 2019; tit. orig. Eloge de l’esquive, 2014), dà alla luce una breve cronistoria ragionata del Brasile e del calcio brasiliano, incastonandovi elementi autobiografici che riesce, con garbo, a non far prevalere sul taglio storico-narrativo di fondo. A prima vista è un’ode al talento di Manoel Francisco dos Santos, per tutti Garrincha; indirettamente, è una dichiarazione d’amore nei confronti di un popolo.

Certo è che il lavoro di Guez va nel complesso ad arricchire la produzione a tema garrinchiano, settore da sempre di ottima salute: per limitarsi al panorama italiano basterà ricordare, accanto alle investiture “ufficiali” di Brera o Pastorin, i versi liberi che per il funambolo ha composto Fernando Acitelli (il libro è, non a caso, La solitudine dell’ala destra, 1998) o le splendide pagine riservate da Fabrizio Gabrielli (Sforbiciate, 2012) al periodo in cui “Garincha”, con una erre sola, abitò a Torvaianica assieme alla seconda moglie Elza Soares (lì rigorosamente “Erza”). Eppure, a dispetto del Garrincha ingobbito che campeggia sulla copertina dell’edizione italiana (in Francia si è optato per immortalare il numero da circo di Pelé contro Mazurkiewicz), Mané da Pau Grande non è il solo dedicatario del volume di Guez: è, se mai, punto fermo della prospettiva storiografica che anima l’impianto dell’opera. L’indagine si focalizza su un arco temporale ben definito: prende avvio dal 1894, anno in cui Charles Miller portò il football a San Paolo, e si arresta al 2014, in concomitanza con i preparativi in vista del Mondiale carioca; è curioso, in tal senso, che la fase di stesura si sia conclusa nel febbraio ’14: nel proprio bilancio, ed è un peccato per gli appassionati, l’autore non fa in tempo a includere il 7-1 di Belo Horizonte e le lacrime di David Luiz. All’edizione in italiano giova il lavoro della traduttrice Margherita Botto; citazioni in esergo, note e bibliografia sono state opportunamente ricontestualizzate e aggiornate rispetto alla versione originale, con il risultato di orientare al meglio il lettore tra i molti riferimenti presenti (meno necessaria, in chiusura, la sezione di “discografia”; lo stesso, forse, per le sei righe che compongono il cap. 3, utile in sostanza a ricordarci che per Galeano «il pallone è donna»).

Già dal prologo, accorata rievocazione dei funerali di Garrincha, è evidente come le vicende della rappresentativa verdeoro fungano da spunto per una riflessione complessiva sull’evoluzione socio-politica del Brasile in epoca moderna. La Repubblica vive una sorta di escalation: si passa dalle misure razziste del primo Novecento alla proclamazione – nel maggio ’39 – del “giorno della razza”, festività “meticcia” in contrasto con l’andazzo di alcuni paesi europei; a partire da qui, Guez si propone di scandire una successione di date cruciali per l’affermazione di un’identità nazionale, fornendone una rilettura. Il Maracanaço è al contempo lutto collettivo e spinta decisiva al rinnovamento; il periodo 1958-1970, vera età dell’oro, ottiene l’effetto di dare lustro al governo e fa gridare – nonostante la dittatura dei gorilas – al miracolo economico; tra il 1974 e l’era-BRICS, di contro, lo spirito brasiliano sembra cedere il passo a un marcato processo di occidentalizzazione, che si avverte a livello istituzionale e si riflette sul piano del gioco. In questo quadro, Guez dedica un’analisi più approfondita ai mondiali di Messico ’70 e Spagna ’82. Il primo, cui siamo abituati a pensare in virtù del 4-3 dell’Azteca, segna il passaggio alla TV a colori e l’ascensione di Pelé, anti-Garrincha che collega due generazioni di atleti e diventa icona del nuovo corso. I due personaggi non sono però esclusivamente contrapposti (Pelé «il re» / Garrincha «il dio selvaggio»): non è raro, anzi, che Guez renda a “O Rei” i giusti onori, per nulla intaccati dal fatto che questi, in Cile, abbia avuto un ruolo marginale. Il secondo mondiale, cui associamo di regola il trionfo di Bearzot e Paolo Rossi (Guez, improbabile fan dell’inno di Mameli-Novaro, ci liquida come «i volponi italiani»), permette al saggista di individuare nella seleçao di allora, perfetta e senza vittorie per colpa di un miracolo di Zoff, l’ultimo bagliore dell’antica brasilianità perduta; l’affermazione, che rende giustizia solo in parte a generazioni successive di cui si avrà modo di parlare in séguito, viene peraltro argomentata ammettendo una continuità tra gli ancheggiamenti di Garrincha e quelli di Neymar. Senza elevare necessariamente la finta a via di evasione o a suprema irrisione dell’avversario e, con lui, del sistema (Guez cede alla tentazione solo all’ultimo: il dribbling è «eiaculazione sull’universo asettico della FIFA, sugli intrallazzi del suo presidente Blatter, sulle prossime Coppe del Mondo vendute alla Russia e al Qatar»), il gesto è dipinto, in linea con l’antropologo Da Matta, come sublimazione dell’originaria condizione di schiavitù di un popolo (cap. 7): si tratta comunque, precisa l’autore, di un significato divenuto inattuale nel contesto della più recente giocoleria di strada (a questo particolare tipo di folklore – esplicitamente definito street art – si rivolge l’intero cap. 9, piccolo dizionario delle giocate più conosciute con relativi padri putativi). Si può cogliere, nella canonizzazione della finta come guizzo irrazionale in cui si esaurisce l’estetica del gioco, una qualche consonanza rispetto alle istanze del geografo Farinelli, che attribuiva un impulso decisivo, in termini di “crisi dello spazio” e globalizzazione, al rivoluzionario rigore di Panenka (Il globo, la mappa, il mondo, 2007).

Quanto all’iconografia dello “scricciolo” Garrincha, si fa ricorso a un immaginario ampiamente consolidata: «angelo dalle gambe storte» (Vinicius de Moraes), «compositore toccato da una melodia piovuta dal cielo» (Paulo Mendes Campos), «vittoria dell’intuito sulla ragione» (Walter Salles). La sintesi più efficace si deve però allo stesso Guez: Mané viene 

dalle viscere del Brasile. Con la sua faccia da galeotto, le spalle da lottatore e le cosce di fuoco, quel meticcio di sangue nero e indiano, assomiglia ai suoi fan. Semplice, creativo, allegro, un giorno anche lui sarà sfruttato dai suoi datori di lavoro

E all’identikit del malandro, su cui insiste il cap. 6, Garrincha non può corrispondere a pieno: il 7 del Botafogo è uno stupido, addirittura il più stupido di tutti. Varrà inoltre la pena ricordare, osserva Guez, che il gioco di parole con “Pau Grande” (“Grande palo”) ha spesso contribuito a ridurre il dribblatore con la polio a una sorta di sex machine per predestinazione. C’è poi una vasta galleria di campioni – eroi del calcio-samba e leggende di ogni epoca –, che porta con sé alcune considerazioni. È fondamentale il nome di Arthur Friedenreich, escluso dalla nazionale perché non del tutto brasiliano e bomber – ma c’è un giallo sulle fonti – più prolifico di chiunque altro; allo stesso modo, è memorabile la squadra di Domingos da Guia (versione arcaica e rudimentale di Thiago Silva) e Leonidas, il re – e non l’inventore – della bicicleta: dopo il ’39, chiosa Guez, «lo swing del dribblatore nero è il miele del futebol mulato». Può invece sembrare una semplificazione – ma non lo è – l’accostamento, sullo stesso piano, di Julinho, Rivelino, Jairzinho, Zico, Ronaldo, Ronaldinho, Denílson, Robinho e Neymar. A parte la discutibile omissione di Kakà – che a questo plotone apparterrebbe di diritto, benché l’estrazione sociale lo condanni da sempre a essere trattato a parte –, Guez sceglie con ragione di distinguere tra puri prodotti circensi (Denílson e Robinho), prestigiatori elegantemente efficaci (i “vincenti” Ronaldo e Ronaldinho) e innovatori a vario titolo (fondamentale, in Italia, il contributo di Julinho Botelho; un discorso simile vale per Zico, pioniere del futsal e ambasciatore in Giappone). Se le constatazioni sul difensivismo del ’94 e sulla scontata vittoria del 2002 colgono nel segno (il “potenziale” del Brasile nel mondo aveva ormai ottenuto pieno riconoscimento), è pur vero che negli Stati Uniti il merito non fu dei soli Bebeto e Romario. Legittima l’ironia su Dunga, il capitano “regolare” mai amato dalle masse; meno condivisibile il ridimensionamento in blocco della corazzata delle “Quattro Erre” (Ronaldo, Rivaldo, Ronaldinho, Roberto Carlos),  per i cui membri resta attuale ciò che l’autore affermava a proposito della golden age: in un paese sempre più simile a «un misto tra Svizzera e Pakistan», giocare d’astuzia resta una strategia fondamentale. Gli uomini di Yokohama sembrano, più dei loro epigoni degli anni ’10, gli ultimi decisi portavoce di un gioco in cui si può vincere divertendosi: veicolano un assoluto di uguaglianza e democrazia del quale i bambini – come è successo a Guez – non possono non innamorarsi. A fronte di questi ed altri spunti, il saggio si inscrive di diritto nel solco della migliore letteratura sportiva. Diversamente dalle ricostruzioni di Simon Kuper o John Foot, la tradizione in cui Guez si colloca è, per certi versi, la stessa del miglior Bianciardi del “Guerino”, con cui ha in comune il lucido disincanto di chi non perde di vista le metamorfosi della società.


Olivier Guez, Elogio della finta, Neri Pozza, Vicenza 2019, 106 pp. 12,50€